“Le donne hanno sempre avuto, fino a un secolo fa, e talvolta ancora oggi, un ruolo fondamentale, ma non riconosciuto dalla società. Ho sempre sentito che in questo mancato riconoscimento ci fosse un’esperienza gigantesca da raccontare”. La scrittrice e regista Cristina Comencini è tornata in libreria con il romanzo “Flashback”, in cui si alternano quattro epoche di ribellione narrate attraverso quattro donne come tante, ma per questo straordinarie. Per l’occasione, si è raccontata a tutto campo intervistata da ilLibraio.it. Parlando, tra le altre cose, di letteratura, di cinema, ma anche di intimità, di maternità e legge 194, delle proteste in Iran, di politica italiana (“Sebbene il termine intellettuale non mi piaccia molto, è come se si fosse creato un distacco tra gli intellettuali e il Paese e rispecchia il distacco tra i progressisti e il Paese. È una scissione che non ha fatto che acuirsi con il crollo delle utopie e del mondo bipolare. In questo senso le donne sono favorite nel colmare questa distanza”), del percorso politico del figlio, Carlo Calenda (“Mi interessa molto quello che sta facendo, mettendo al centro questioni come la scuola e la sanità pubblica”) e di molto altro ancora

La chiamano amnesia globale transitoria. Per quattro volte nella sua vita, Cristina Comencini ha vissuto delle interruzioni, dei momenti di assenza che però hanno lasciato spazio alle storie e alle voci di quattro donne appartenenti a quattro epoche di ribellione: la Comune di Parigi, la rivoluzione bolscevica, la resistenza e la rivoluzione sessuale. Ha deciso di raccontarle nel suo ultimo romanzo Flashback, che segna il suo ritorno in Feltrinelli.

“Ne scrivo perché ho fiducia nella letteratura e nella sua capacità di aiutarci a capire. Natalia Ginzburg, a cui devo la mia prima pubblicazione, mentre moriva disse a chi le era accanto: ‘Questa non è letteratura’. Un’esperienza che non è letteratura tocca punti della vita non raccontabili, come la morte o come la perdita dell’io. Ma voglio provarci comunque”.

Nonostante la perdita del proprio io, la regista, sceneggiatrice e autrice ha fatto largo a un io più vasto del suo per accogliere, intrecciandole alla propria, le esistenze di quattro giovani donne: Eloisa, una cocotte del gran mondo di fine ‘800, prostituta d’alto bordo che vive con un’amica fotografa che ha scelto la verginità nel turbinio della Comune di Parigi; Sofia, che a San Pietroburgo, nella Russia del 1917, attraversa la rivoluzione bolscevica. E qui la donna si innamora di due uomini e resta incinta nel pieno di una fase storica incandescente, offrendoci su di essa un punto di vista inedito, imbevuto di umanissime insicurezze. Poi c’è Elda, giovane operaia friulana realmente esistita durante la Resistenza, ma la cui esperienza si spinge fino alle Brigate Rosse. Infine Sheila e l’emancipazione sessuale nella Londra degli anni ’60, ma anche l’amore per un famoso cantante rock che la conduce ad annullarsi.

Comencini sostiene che queste donne non sono vittime, ma eroine. “Le loro contraddizioni, i loro corpi, i loro pensieri, mi sono vicini e intimi. Io sono loro, non come diceva Flaubert di Madame Bovary, sono proprio la mia genealogia, la mia Storia, con la S maiuscola”.

Come ha recentemente affermato la giornalista turca Ece Temelkuran tutte le dittature hanno paura della parte femminile della natura umana. Per questo le donne sono le prime a ribellarsi e lo fanno dal duecento attraverso quella che è stata definita l’epidemia del ballo. Una danza di libertà, contro le ingiustizie.

Non è un caso che il primo racconto di Flashback si intitoli Le scarpette rosse: “Ballare per me è scrivere e non avere paura, anche se la vita privata si complica – sottolinea l’autrice -. Devi raccogliere le scarpette rosse, lo devi fare anche se resti sola”.

Perché la scrittura è una danza di libertà. E non può conoscere fine.

CRISTINA COMENCINI flashback

Interruzioni, momenti di assenza e di vuoto che fanno spazio alle storie delle sue quattro protagoniste. Cristina Comencini, di che materia sono fatti i suoi flashback?
“Sono dei frammenti. Gli psicanalisti parlerebbero di inconscio, ma a me non basta. Ho avuto realmente delle perdite di memoria, concentrate in un periodo complicato della mia esistenza. Momenti di assenza che però continuavano nella letteratura e nel romanzo. Ho deciso di seguire le figure di queste donne e di ricostruirne le vicende intrecciandole alla mia. E mi hanno cambiato la vita”.

Per questo definisce le loro storie “quattro immersioni”?
“Ho sempre avuto un forte rapporto con i personaggi dei miei libri. In questo caso ancora di più. Mi hanno letteralmente invaso”.

Possiamo definirle delle muse?
“Certamente. E finalmente. Sono donne normali, diventate le mie muse. Lo sono perché mi ispirano, mi corrispondono, mi sembrano altre me stesse sparse nella storia. Allo stesso tempo mi danno l’opportunità di raccontare la Storia capovolta, in un altro modo”.

Guai a chiederle quanto di autobiografico ci sia nei suoi personaggi. Lei vuole ribaltare la prospettiva: sono loro a influenzare la sua vita.
“È così. Lettore e scrittore sono accomunati proprio da questo. Per un periodo più o meno lungo sono abitati dai personaggi. Pagina dopo pagina li seguono e la loro vita ne resta condizionata. Non ho mai scritto dei libri direttamente autobiografici. Questo neanche lo è. Sono pezzi della mia vita legati a personaggi da me parzialmente inventati”.

Sono donne che lei definisce eroine, non vittime. Eppure a volte sembrerebbe il contrario.
“Perché la letteratura giudica. Le donne hanno sempre avuto, fino a un secolo fa, e talvolta ancora oggi, un ruolo fondamentale, ma non riconosciuto dalla società. Nel privato, nel rapporto con figli, mariti e persino amanti lo era, ma confinato lì. Ho sempre sentito che in questo mancato riconoscimento ci fosse un’esperienza gigantesca da raccontare”.

Da qui la componente eroica?
“Sì, lo è la loro vita e riportarla in primo piano. Queste donne non sono eroine nel senso tradizionale. Quando Sofia rimane incinta, non vuole diventare madre. Eppure nel momento in cui succede, se ne fa carico e ne fa un’esperienza di vita straordinaria. Così ci accorgiamo che lei ha capito più profondamente il senso della rivoluzione di quelli che la stanno facendo”.

Una rivoluzione che rischia però talvolta di restare un’illusione.
“Le rivoluzioni sono eventi della storia che spesso passano attraverso la guerra, un’esplosione che nel tempo si prepara. E non è evitabile. Possono portare a cambiamenti molto lenti o molto repentini. Il ruolo delle donne in tutto questo è ben sintetizzato dal regista David Wark Griffith: cullano il tempo”.

Cosa intende?
“Quello femminile è un tempo di intervento più lento, più profondo. È un lavoro di tessitura che non si esaurisce nell’istante e per questo non ne viene compresa l’effettiva portata”.

Come avviene con le sue protagoniste.
“Pensiamo alla cocotte e alla fotografa nella Comune di Parigi o a Sofia quando guarda dalla sua stanzetta in alto perché ha perso tutto, ma non se ne rammarica: ha un punto di vista che ci fa capire che nella rivoluzione c’è qualcosa di umano e di piccolo che viene travolto, ma che però resiste. Loro resistono. Ed è questo che arricchisce la storia delle rivoluzioni”.

La rivoluzione si consuma anche nell’intimità di queste giovani donne. E nella sua.
“Nel rapporto tra la cocotte Eloisa e l’amica fotografa si mischia qualcosa che apparteneva a un momento specifico della mia vita privata. Riporto nel libro un colloquio profondo che ebbi con mio marito su quello che stavo scrivendo. La figura della prostituta d’alto bordo sembrava così lontana da me e invece era vicinissima. Ed è questa la ragione per cui affermo: ‘Tutti piangiamo su Violetta’”.

Per esprimere il suo dissidio interiore e quello delle sue antenate parigine richiama l’Amor Sacro e l’Amor Profano di Tiziano.
“Sono due pulsioni tipicamente femminili. L’avere un corpo, nel caso della cocotte significa attrarre uomini a sé, mentre la fotografa, che è vergine, decide di sottrarsene completamente perché innamorata del padre. E forse lo ero anch’io. La loro ambivalenza, tuttavia, dà vita a una forte amicizia: il loro è un legame indissolubile come quello delle due figure nel dipinto”.

Nel romanzo troviamo un grande regista come Eisenstein, di cui Sofia si innamora, ma anche Tolstoj, autore prediletto da suo padre, Luigi. Una vera commistione.
“La commistione e la contaminazione sono l’essenza della cultura. È quello che ci rende ricchi. Quando leggiamo e quando scriviamo siamo fatti di tutta questa materia, delle cose che abbiamo vissuto, di pittura, cinema, immagini, rapporti con le persone amate. E allora ho voluto raccontare in un romanzo come tutto questo si tiene”.

E lo ha fatto dal punto di vista delle muse.
“Nel caso di Eisenstein e del cantante rock c’è l’idea che queste donne esistano in quanto muse di qualcuno, e non nella loro essenza. Io invece non sono più in alto di loro. Mi sento alla loro altezza, se non addirittura inferiore. Mi sento una loro erede”.

E questo fa la differenza?
“Sì, perché la storia è ricca di donne utilizzate dagli uomini come fonte di ispirazione, ma spesso negletta, come se fossero materiale umano amato sì, ma poi rigettato”.

Come nella raccolta di racconti e profili femminili, Musa e getta edito da Ponte alle Grazie. Lei sente di averle usate?
“No. La percezione che ho di queste donne è che sono come me, siamo parte della stessa genealogia. Solo che probabilmente loro non avevano la penna, come direbbe Virginia Wolf. Non avevano la possibilità di guardarsi”.

In che senso?
“Tutta la mia vita ho pensato a cosa accadrebbe se le donne, da oggetto di ispirazione, diventassero soggetto. O semplicemente si sottraessero a quello sguardo altrui e fossero loro per prime a osservare. Questa è la grande rivoluzione della scrittura e dell’arte oggi. Nel libro c’è un passaggio in cui la modella non è più davanti al pittore. C’è il vuoto davanti a lui”.

Ma come si colma questo vuoto?
“Nel porre questa contraddizione cerco di risolverla attraverso l’empatia e la contaminazione generale, per cui non esistono più l’artista e la musa. Esiste la donna – l’ex musa – che si contempla”.

A proposito dello sguardo della donna, c’è quello che lei pone sulla fotografia che ritrae un’altra sua protagonista, Elda, realmente esistita.
“L’immagine di questa giovane operaia friulana mi ha catturato. Nata durante il fascismo, non possiede nulla e non conosce la democrazia. Piano piano sono arrivata a questa fotografia, a come questa ignara ragazza sia stata usata. Mi sono messa nei suoi panni, nel non capire fino in fondo quali fossero le forze in gioco in quegli anni tra il ’43 e il ’45. Attraverso questa ragazza, vittima sacrificale, usata proprio per lo scopo, c’è l’idea dell’Italia. Delle contraddizioni di quella zona d’Italia, ma del Paese stesso. E ci restituisce quel senso di spaesamento che un eroe maschile della resistenza non avrebbe potuto consegnarci”.

Lo spaesamento che stiamo vivendo oggi, all’indomani del voto.
“Ma anche prima delle elezioni. L’Italia si porta dietro questa ferita profonda di divisione da decenni”.

Di quale rivoluzione sono portavoce le donne in questa fase storica?
“La più grande rivoluzione avviene nei nostri Paesi e non è sanguinaria, sebbene adesso in Iran lo è, eccome. Basti pensare a quanto sta accadendo con la morte di Masha Amini. È una rivoluzione che si sta facendo strada piano, con la lentezza tipica del lavoro profondo che fanno le donne e non senza grandi sacrifici umani, come quelli delle giovani iraniane”.

Cosa fare allora per sostenerle in questa rivoluzione che è anche la nostra?
“Sono impegnata politicamente a favore delle donne, ma quando scrivo, attraverso la narrazione voglio portare all’attenzione di tutti il racconto di figure femminili dal loro punto di vista. E questo può aiutare a guardare il mondo con occhi diversi, con i loro occhi. Nel libro ci sono quattro momenti di rivoluzione vissuti da quattro protagoniste. Ed è una rivoluzione nella rivoluzione”.

Anche la legge 194 è figlia di una rivoluzione che tocca il corpo delle donne. Metterla in discussione che conseguenze può avere?
“Intanto una legge deve essere applicata. Tutte le donne devono poter abortire in modo sicuro, assistito e in condizioni igieniche adeguate. E se ci sono degli obiettori di coscienza, lo Stato deve provvedere. Gli aborti stanno diminuendo, ma non sono totalmente garantiti. C’è poi un altro problema gigantesco, ovvero che non nascono bambini”.

Però fare figli o non farli resta una scelta.
“È evidente che quando le donne entrano in società portano con sé il proprio corpo. E il loro corpo ha la possibilità – e per fortuna oggi è una scelta – di condurle alla maternità. Tutte le questioni legate alla nascita sono questioni che le donne pongono oggi alla società per la prima volta. Non come un fatto privato loro, ma come un fatto sociale, politico, di tutti”.

A proposito di politica, Nicola Lagioia aveva invitato a parlare di cultura in campagna elettorale. Invito disatteso, anche adesso nella formazione del governo. Cosa dobbiamo auspicarci?
“L’Italia è il Paese della cultura e dell’arte. Il fatto è che i numeri non corrispondano a questo, perché la frequentazione di eventi culturali e di musei è ancora bassa e nella lettura, a confronto coi francesi, i paragoni sono impietosi. E tutto parte dalla scuola”.

Come rimediare?
“Credo che la scuola italiana vada riformata e finanziata perché è uno dei centri della società. Da lì viene tutto il resto: la promozione della cultura, il cinema, il teatro. È come se avessimo abbandonato – e non solo adesso che c’è un governo di centrodestra, ma da anni – un aspetto fondante dell’Italia. Poi ci sono eccellenze incredibili che nessun altro può vantare, al fianco però di imperdonabili carenze. C’è molto lavoro da fare”.

Nemmeno gli intellettuali pare però ci riescano secondo lo scrittore Antonio Manzini. Di raccontare il nostro tempo per lui solo Chiara Ferragni è capace.
“Non sono d’accordo con questa provocazione. Credo che sia qualcosa di legato soprattutto al centrosinistra. Sebbene il termine intellettuale non mi piaccia molto, è come se si fosse creato un distacco tra gli intellettuali e il Paese e rispecchia il distacco tra i progressisti e il Paese. È una scissione che non ha fatto che acuirsi con il crollo delle utopie e del mondo bipolare. In questo senso secondo me le donne sono favorite nel colmare questa distanza”.

In quanto regista, lei patisce il fatto che con la pandemia il cinema venga fruito poco nelle sale?
“Certo, è il grosso problema che abbiamo davanti. Dobbiamo lavorarci, anche se non sarà mai più come prima. Tuttavia può essere anche una fase stimolante, come si è dimostrato con il teatro. C’è il desiderio di uscire fuori di casa e di condividere la visione con una collettività. Magari i numeri saranno sempre meno, ma può esserci una inedita sopravvivenza. Il cinema, come la cultura, è la cosa più italiana che c’è”.

A proposito delle elezioni politiche il risultato di suo figlio, Carlo Calenda, come l’ha vissuto?
“Abbiamo vissuto tutto in prima linea. Mi interessa molto quello che sta facendo, anche se non fosse mio figlio. Il suo è un lavoro importante: ricreare una forza riformista in Italia, forte, programmatica e di onestà politica, mettendo al centro questioni come la scuola e la sanità pubblica. La sua con Italia Viva è la formazione più giovane che si è presentata alle elezioni. Direi che il risultato, con un solo mese di vita, è stato molto buono. Ecco, io auguro a tutti loro di andare avanti e di riuscire a creare questa grande forza politica di cui l’Italia ha bisogno”.

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