Dedicato “Ai miei nonni, che sanno ballare”, il nuovo romanzo di Davide Mosca, “Amare una volta”, è una dichiarazione d’amore alla terra, un inno di lotta e libertà, una storia ambientata nell’immediato dopoguerra tra le Langhe, un mare di vigne e colline, fondovalle e viottoli di campagna. In questi luoghi, che nascondono una bellezza che non è priva di malinconia, nasce il sentimento tra Italo e Virginia, in una magica sospensione dove i morti non sono mai del tutto separati dai vivi e dove le colline accolgono, e sono una casa – L’approfondimento

La vicenda di Italo e Virginia, ambientata nell’immediato dopoguerra, è più di una storia d’amore: è una storia di terra e libertà. La guerra è ancora presente, nelle ferite lasciate, negli occhi di chi è rimasto pieno di paure e di disillusioni, di chi è tornato eroe e di chi si è nascosto e adesso si vergogna. I Costamagna hanno perso tanto, il figlio Beppe, perduto due volte, quando ha tradito diventando un partigiano e poi quando è morto, ucciso dai fascisti, e le terre, vendute un pezzo alla volta, perché del patrimonio non è rimasto nulla. Ai Costamagna non è rimasto nemmeno il nome perché adesso sono solo “quelli della Pia”, l’unica cascina che hanno mantenuto, proprio loro che erano riveriti da tutti.

Una famiglia piegata, perché la guerra fa così, alcuni diventano più ricchi, altri si impoveriscono, caricano una gerla sulle spalle della figlia e la mandano a consegnare merce. Virginia “Ginia” cammina svelta, da Pia a Rocchetta a Mango: la protagonista di Amare una volta di Davide Mosca (Salani) si muove sicura, con tutto un mondo a disposizione, le Langhe, un mare di vigne e colline, fondovalle e viottoli di campagna.

Copertina del libro Amare una volta

“Io a piedi avevo fatto il giro del mondo, eppure non mi ero mai allontanata da casa per più di una giornata intera”.

In questi spazi aperti ma vicini, tra la cascina dei Costamagna, i boschi e i sentieri tra i gelsi, i pomeriggi assolati e storditi di insetti, Ginia è cresciuta con un sentimento grato di abbandono: è in questa terra che si sente viva, si sente nel suo posto.
Le Langhe non si perdono“, scriveva Cesare Pavese, rimangono indissolubilmente legate al proprio essere, segnano il percorso della loro gente: nella sua Langa, Ginia è libera di correre, salire sugli alberi, buttarsi nel fieno e ballare, è un flusso che la lega al suolo con pura sensazione di appartenenza, serena e ribelle.

Ginia cammina e balla, tutt’uno con la sua terra, e al diavolo tutto il resto. Il suo è uno spirito indipendente che ha imparato dal fratello partigiano Beppe, “la libertà non è fare ciò che vuoi, ma diventare ciò che sei”, ma soprattutto ha assorbito dalla madre, una donna silenziosa ma completa, moderna nel suo essere risolta, e complice. Con una coperta, una bottiglia e due bicchieri, Ginia e la madre condividono i loro momenti di solitudine serena, la sera, quando tutto è stato fatto, e gli altri dormono.

“Quando balli o cammini nessuno può legarti, Ginia. Non serve essere una tigre, impara dai gatti che non ruggiscono, eppure non si lasciano mai domare”.

Sotto una grande magnolia la libertà di Ginia incontra quella di un forestiero venuto dalla guerra, che pare sbarcato da un altro mondo, con le sue lunghe gambe e il bell’italiano musicale: Italo ha viaggiato, il suo spirito è figlio delle esperienze, non dei legami, della cultura e non della terra, perché lui parla le lingue dei popoli e non quella della magia dei bachi e del tempo paziente della vendemmia. Ma Italo e Ginia si riconoscono, senza compromessi, senza imbarazzi: la loro è una musica che risuona delle note partigiane di Fischia il vento, ed è un inno di lotta e di amore.

Foto dell'autore Davide Mosca

Davide Mosca

Italo suona, Ginia balla, sono liberi: insieme vivono la loro Itaca, il posto del cuore, e dell’eterno ritorno, si muovono al suo ritmo, tra onde, pendenze e silenzi, scoprendo, lui, un senso vivo dell’arcaico, riconoscendosi, lei, semplicemente a casa. In questa primordiale semplicità, l’amore, verde e pieno di musica, è assoluto, non passa mai e passa su tutto, perché se hai amato una volta hai amato per sempre.

Ma Italo è forestiero, e anche se feriti, gli uomini non si stufano mai di fare la guerra, anche contro un ragazzo dinoccolato e affamato, armato di chitarra.

Dedicato Ai miei nonni, che sanno ballare, il romanzo di Davide Mosca è una dichiarazione d’amore alla terra, senziente e pulsante, che non ha bisogno di spiegazioni, è capace di conservare il passato e di conoscere il futuro, basta ascoltarne il respiro. In questa terra, bizzarra e incantata, le isole boschive della Langa nascondono una bellezza che non è priva di malinconia, in una magica sospensione dove i morti non sono mai del tutto separati dai vivi e dove le colline accolgono, e sono una casa.

Amare una volta è anche una celebrazione delle donne, personaggi forti, ognuna a modo suo: donne che sanno farsi sentire anche coi silenzi, che sanno godere di attimi infiniti di felicità, solide nel presente e sovversive nel sapersi svincolare dai ruoli di sempre, consapevoli di se stesse, guardiane della serenità altrui ma capaci di atti di grande indipendenza, fertili e dure, come la loro terra.

“«Non mi sono confessata» le bisbigliai a metà navata.
«Lo facciamo ogni giorno» mi rassicurò lei”.

Dopo Breve storia amorosa dei vasi comunicanti, Davide Mosca guarda indietro, e in un dopoguerra che aveva divorato il tempo commemora l’eredità dei nostri avi, che sono stati capaci di vivere tutt’uno con le loro radici, che facevano di un prato il loro mondo, e dei boschi le loro chiese, conoscevano il valore della pazienza, che è quello che insegna la terra, con i suoi tempi e i suoi miracoli, i suoi sentieri sempre nuovi, ogni giorno da riscoprire. In questa semplicità primitiva e ostinata, si consuma la vera essenza dell’amore, dove fischia il vento della libertà con la sua musica di istinto e di ribellione.

“«Com’è successo?»
«Lui ha suonato e io ho ballato»
Schioccò le dita. «Così?»
«Così»”.

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