La storia di Simone Veil, prima di essere impegno politico per un’Europa unita e in difesa dei diritti delle donne, è quella di una ragazza costretta a vivere sulla sua pelle gli orrori della deportazione. Come racconta il libro-confidenza “Simone Veil, alba a Birkenau”, nato dalle registrazioni del documentarista David Teboul. Una lettura intima, che ci restituisce i moti più nascosti della deportazione che la sedicenne Simone ha dovuto affrontare insime a tutta la sua famiglia – L’approfondimento

“L’esperienza dei campi lascia un’impronta, qualcosa di sensoriale, di indelebile, di istintivo, che è molto difficile raccontare. Per tanto tempo ho avuto paura a entrare in un commissariato, paura di imbattermi in un’uniforme, di attraversare una frontiera. Come se avessi qualcosa da nascondere”.

Simone Veil (Nizza, 13 luglio 1927 – Parigi, 30 giugno 2017) è stata una delle madri fondatrici d’Europa, è infatti lei a ricoprire per prima la carica di presidentessa del parlamento europeo nel 1979, strenuamente convinta che solo dopo aver raccolto i cocci del dopoguerra e aver riconciliato gli animi dei superstiti della Shoah, si sarebbero potute stendere le basi per un futuro europeo in cui riconoscersi e sentirsi uniti.

Già famosa in Francia per essere stata la ministra della sanità nel primo governo Jacques Chirac, Veil si è sempre battuta per migliorare la condizione di vita delle donne, ed è a suo nome la legge del 1975 per la legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza. Ed è sempre sotto la sua presidenza che nacque la prima commissione d’inchiesta femminile in Europa, da cui poi si sviluppò la commissione permanente per i diritti delle donne e le pari opportunità.

Ma così come per tutte le persone sopravvissute ai campi di sterminio della seconda guerra mondiale, anche per Simone Veil c’è un prima e un dopo la Shoah. La sua storia, prima di essere impegno politico per un’Europa unita e in difesa dei diritti delle donne, è quella di una ragazza costretta a vivere sulla sua pelle gli orrori della deportazione.

Ad alcuni anni dalla sua scomparsa è possibile ripercorrere questo capitolo doloroso del suo passato grazie al libro-confidenza Simone Veil, alba a Birkenau, pubblicato da Guanda e tradotto da Silvia Sichel, nato dalle registrazioni del documentarista David Teboul. Una lettura intima che ci restituisce i moti più nascosti della deportazione che la sedicenne Simone ha dovuto affrontare insieme a tutta la sua famiglia.

Strutturato come un film documentario, il libro è un alternarsi di ricordi, foto d’archivio e scambi intimi di conversazione con la sorella Denise e gli amici Marceline e Paul, amicizie nate in un contesto estremo, quello dei campi di concentramento, e che diventano quindi legami profondi di un’intera vita.

Il libro nasce da un incontro folgorante tra Simone e l’autore, che a 12 anni la vide per la prima volta in tv durante un dibattito dopo la soap opera Olocausto, rimanendone abbagliato. Qualche anno dopo diventerà non solo un amico per Simone, ma anche la persona a cui per cinque anni confiderà la sofferenza della deportazione, il dolore dell’assenza e la difficile ricostruzione del dopo la Shoah.

L’esperienza del campo ha trasformato radicalmente le vite di chi è sopravvissuto. Simone, ripensando alla sua vita precedente si descrive come una ragazza frivola che aveva voglia solo di divertirsi, ma dopo quell’incubo è tornata per sempre cambiata. Fatica a descrivere i giorni subito dopo la fine di quell’orrore, intrisi di tante paure da non riuscire più a vivere una vita normale. Aveva perso l’abitudine a dormire in un letto, di mangiare a un tavolo, di esprimersi e di riuscire a leggere, perché le uniche cose che aveva ormai imparato a fare erano legate a necessità immediate.

“Sono convinta che non siamo mai ridiventate normali. In apparenza abbiamo vissuto come tutti, ma le nostre reazioni intime sono rimaste diverse”, dice di sé e di sua sorella.

Simone Veil, alba a Birkenau è un libro anche politico che consente di ripercorrere non solo la storia di Simone e di tanti ebrei come lei, ma anche la storia della Francia prima, durante e dopo l’occupazione tedesca. Parlando con l’amico Paul Simone affronta con lui il tema del cosa rimane di quell’esperienza per chi non l’ha vissuta sulla propria pelle.

“Oggi si pensa che consistesse in un misto di fatica, lavoro, botte, fame e freddo. S’immaginano la vita nel campo di concentramento come un insieme di tutte queste cose. Ciò che non riescono a percepire è l’assoluta umiliazione, l’incoerenza a cui eravamo sottoposti. Non sapevamo mai cos ci si aspettasse da noi. Non c’erano regole certe”.

Quello che è accaduto in quegli anni è stata una completa disumanizzazione delle persone e un regime psicologico di terrore non solo rintracciabile negli espliciti gesti di violenza, ma soprattutto nell’apprensione che da un momento all’altro poteva accadere il peggio, anche attraverso un piccolo gesto di umiliazione, come la sottrazione di una ciotola o di un cucchiaio per mangiare, gli unici beni materiali consentiti.

Paul racconta di quel fenomeno di incomprensione che si è verificato subito dopo la liberazione, per cui era difficile trasmettere l’esperienza vissuta perché tutti facevano fatica a credere che certe violenze potessero essere vere, nonostante gli evidenti segni sul corpo dei deportati che a malapena si reggevano in piedi.

Simone e Paul parlano a lungo della paura che quello che è successo in quegli anni muoia con chi l’ha vissuto, perché oggi le persone vanno a Birkenau e Auschwitz, ma non è vedendo una distesa di baracche che si può immaginare cosa è stato.

Una riflessione che, in qualche modo, ricorda Austerlitz, il documentario del 2016 con cui il regista Sergei Loznitsa mette fortemente l’accento sul cosa rimane della memoria dei lager oggi. Per 90 minuti ci mostra masse di turisti che, con smartphone e bastoni da selfie, si muovono in un indistinto magma nella realtà museale di un campo di concentramento che, in quasi nulla ricorda gli orrori che ha ospitato. Nel film lo smartphone e le continue fotografie scattate diventano il simbolo di questa incapacità di poter comprendere fino in fondo.

La paura di Paul è che un prezzo così alto non sia servito a rendere l’umanità migliore e più pacifica e chiede sconfortato all’amica che cosa si è depositato nella memoria di chi non l’ha vissuto in prima persona. Ed è qui che Simone, nonostante tutto, lascia intravedere un po’ di quella tenacia che nel dopoguerra l’ha portata a essere in prima linea nella costruzione di un’Europa senza divisioni: “quando voglio essere ottimista, mi dico che almeno è servita da lezione agli europei nelle loro relazioni reciproche“.

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