Negli ultimi anni si sta imponendo una nuova generazione di intellettuali francesi impegnati. Tra i più noti ci sono Didier Eribon, Geoffory de Lagasnerie ed Edouard Louis. Louis, scrittore e sociologo, è diventato un caso letterario internazionale a soli ventun’anni con il romanzo autobiografico “Il caso Eddy Belleguele”, in cui ha scritto dell’omofobia e del razzismo della provincia francese. Ora, con “Chi ha ucciso mio padre” ha provato a vendicare la morte – e la vita – del padre operaio, della quale ritiene responsabile, nomi e cognomi alla mano, la politica – L’approfondimento

A più di cinquant’anni dal Sessantotto, a più di quaranta dal Settantasette, a trenta tondi dalla caduta del Muro di Berlino, a quasi venti dalle Torri Gemelle, entro più di dieci anni di una crisi sistemica senza luce in fondo al tunnel, cominciano a scarseggiare le persone che hanno avuto l’esperienza della politica come di una forma di intervento nel mondo sociale. Nessuno è convinto che la politica in qualche modo possa modificare le condizioni collettive. Certo, è il discorso su cui si fonda quanto viene chiamato antipolitica, cioè l’idea che tanto sono tutti uguali, che in ogni caso, destra e sinistra sono la stessa cosa e che, dunque, vada per la rottura totale, non importa come (infatti, “A Roma avresti vinto pure cor Gabibbo). È qualcosa di così radicato nel senso comune che si stratifica nei discorsi da bar, negli scambi di convenevoli al tabacchino, dal salumiere, dal panettiere, nei monologhi davanti alla tv, nelle parole a vanvera per colmare i silenzi.

In larga parte non è vero; se ne è accorto da subito chi vive in situazioni di difficoltà. Ma, camminando sul filo del rasoio, a un certo livello di analisi c’è una quota di verità nel fatto che l’agency, la possibilità di agire, si sia ridotta.

Chi di recente ha abbozzato una teoria anche solo parzialmente politica ci si è dovuto confrontare. Per Mark Fisher l’idea che non esistano alternative al sistema, che sia un ordine che si presenta come naturale e immodificabile, è la principale ideologia contemporanea – Fortini lo diceva nel 1960 concludendo “non sei disperato. Sei nella non-speranza. È tutta un’altra cosa”. Jodi Dean, polemica con certi modi di lavarsi di coscienza, scrive che a Goldman Sachs non frega nulla dei polli che allevi. James Bridle sostiene esista “una relazione concreta e causale tra la complessità dei sistemi che incontriamo ogni giorno; l’opacità con il quale la maggior parte di questi sistemi vengono costruiti o descritti e i fondamentali problemi globali di ineguaglianza, violenza, populismo e fondamentalismo”. Per il Comitato Invisibile lo spettacolo della politica sopravvive come spettacolo della sua decomposizione.

Emerge nella disperazione da metropoli di Kate Tempest (“Riots are tiny though systems are huge. Traffic keeps moving proving there’s nothing to do”) e nella rabbia di provincia di Massimo Pericolo, che dà fuoco alla sua tessera elettorale prima di far esplodere tutta la sua rabbia. Una rabbia sociale, di classe e generazionale, a pretesa di una vita decente; convinto, come gli elettori di mezzo mondo, che la vita in provincia, in povertà, senza orizzonti di mobilità sociale, sia il peggio (“e andiamo via da sto posto di merda. Qui alla lunga la vita fa schifo”) e sia senza futuro: “Voglio un futuro ma senza futuro, sul tuo mutuo del cazzo ci sputo”.

Non ci sono assalti al cielo all’orizzonte, se al massimo l’equatore taglia in due il cielo d’Europa – che è un cielo di “sogni marciti”, per Walter Siti – dal cielo di Dubai, che è “abitato da fantasmi”, come scrive Simon Sellars.

Una delle formulazioni più nitide di questo panorama viene da un testo del 2016, Manifesto per una controffensiva intellettuale e politica, apparso su Le Monde a firma di Geoffroy de Lagasnerie e Edouard Louis (vale la pena leggerlo, in Italia è stato tradotto da Annalisa Romani). Ci si legge che “la nostra generazione vive nel caos e nell’incubo, abbiamo toccato il fondo”, e soprattutto che “per la maggior parte di noi fare esperienza della politica significa ormai sperimentare l’impotenza”.

Il primo, Geoffroy De Lagasnerie (1981) è un sociologo, Edouard Louis (1992) invece, ha studiato sociologia, ma fa lo scrittore. Con Didier Eribon (1953) – sociologo e scrittore– formano un trio che ad Harvard si sono affrettati a definire (a brandizzare, volendo) come i nuovi intellettuali francesi.

Sono schierati a sinistra: a sinistra di quella che viene considerata sinistra – Eribon ha scritto D’une révolution conservatrice et de ses effets sur la gauche française; e del resto per De Lagasnerie, “non esistono intellettuali di destra”, Louis gli fa eco “sarebbe una contraddizione in termini”. Intervengono polemicamente nel dibattito pubblico (per citarne una, Louis ha dichiarato che il modo con cui vengono raccontati i Jilet Jaunes trasuda “disprezzo di classe”). A loro volta sono al centro di polemiche feroci (Louis, soprattutto, contro tutti).

edouard louis

Giocano, consapevolmente, con l’immaginario tutto francese dell’intellettuale engagé, sigarette, conversazioni notturne nei caffè e conversazioni radicali (basti guardare i loro profili Instagram; De Lagasnerie: “La teoria dovrebbe produrre gli stessi effetti di un concerto di Kendrick Lamar: che le persone si dovrebbero eccitare per la teoria, sentire quanto possa essere potente”).

Un mondo di petizioni, di marce (sono molto vicini al comitato Verité pour Adama; per Adama Traoré, morto a 24 anni dopo un controllo di polizia; de Lagasnerie ha scritto un libro insieme alla sorella Assa; Le combat Adama¸ 2019).

edouard louis

Hanno fatto luce su alcune questioni che sembrano definitivamente passate di moda, al netto di quel fenomeno che in sociologia viene chiamato “disidentificazione di classe”. Parlano delle condizioni di vita degli operai, dell’elettorato del Front National, dividono il mondo, senza sembrare ridicoli, i dominanti e dominati. Parlano in televisione di lotta di classe, una roba che non si sentiva più dal ’77: il tutto venendo – incredibilmente – letti, ascoltati e tradotti.

Vogliono – citiamo Edouard Louis – non una letteratura engagé, come da stereotipo, ma del confronto (“de la confrontation”): vogliono obbligare i lettori a confrontarsi con qualcosa che viene preventivamente respinto dai discorsi; obbligarli a non voltare lo sguardo; vogliono che i loro discorsi siano ricevuti, che abbiano un effetto sulla realtà.

Stanno rielaborando le care e vecchie questioni di classe riformulandole insieme alle istanze del movimento femminista, di quelli LGBT (sono tutti e tre omosessuali: e non è neanche il caso di dire quanto possano essere importanti delle figure che riarticolano l’immagine della lotta, di combattività, ancorata a un immaginario tutto maschile, da una prospettiva gay), e dei movimenti antirazzisti (anche in letteratura, con gli esempi di James Baldwin, di Toni Morrison, di Ta-Nehisi Coates sempre presenti) nell’ottica di una convergenza delle diverse istanze di questi movimenti.

Per Edouard Louis, per esempio, “l’identità di classe è un’identità sessuale, la lotta di classe è sempre una lotta di genere”. La gente a cui è stato tolto tutto costruisce un’ideologia su quello che gli rimane: il corpo, quindi la forza, la mascolinità: “non essere come la borghesia effeminata che mangia i piattini al ristorante, non incrociare le gambe”, “qualsiasi atto di virilità è prodotto dall’esclusione che lo precede”.

edouard louis

Proprio Edouard Louis è da manuale. Chi ha ucciso mio padre (Bompiani, trad. Annalisa Romani), comincia sostenendo che “il razzismo è l’esposizione di certe popolazioni a una morte prematura. Questa definizione vale anche per il dominio maschile, l’odio dell’omosessualità o i transgender, tutti i fenomeni di oppressione sociale e politica. […] Se consideriamo la politica come il governo dei viventi su altri viventi e come l’esistenza di individui all’interno di una comunità che non hanno scelto, allora la politica è la distinzione tra le popolazioni a cui è riservata una vita fatta di sostegno, incoraggiamento, protezione e quelle esposte alla morte, alla persecuzione, all’omicidio”.

In un’intervista diventata virale Louis ha sostenuto che le classi popolari hanno due scelte, morire o morire. Fatti noti in sociologia, sostiene: chi appartiene alle classi popolari ha il doppio di possibilità di morire prima dei sessantacinque anni. Tra queste persone c’era il padre di Louis (“appartieni alla categoria di uomini a cui la politica riserva una morte precoce”) che immancabilmente non è sfuggito a quelli che Didier Eribon (La societé comme verdict, 2013) chiama i verdetti, che abbattendosi su di lui “hanno reso certe vite, certe esperienze, certi sogni inaccessibili”.

Figlio di operai, il padre di Louis era a sua volta operaio. A 35 anni in fabbrica si è spezzato la schiena, da lì in poi sussidi, lavoretti e umiliazioni. “La tua vita”, azzarda Louis rivolgendosi a lui, “è stata, malgrado te e proprio contro di te, un’esistenza negativa. Non hai avuto soldi, non hai potuto studiare, non hai potuto viaggiare, non hai potuto realizzare i tuoi sogni. Nel linguaggio ci sono quasi solo negazioni per esprimere la tua vita”.

Edoaurd Louis scrive per protestare questa condizione, il fatto crudo e semplice che possa anche solo esistere. Ha fatto sua una formula in origine di Annie Ernaux: scrive per vendicare la sua razza, con tutti i paradossi (la honte, la vergogna, della Ernaux) della posizione di transfuga di classe (“ero certa del tuo amore e di questa ingiustizia, vendeva patate e latte da mattina a sera per permettermi di stare seduta in un’aula universitaria a sentir parlare di Platone”, scrive Ernaux).

Infatti per lui è andata diversamente. Se Eribon, pur provenendo da un ambiente popolare (è da leggere il suo bellissimo saggio autobiografico Ritorno a Reims, per Ernaux una forma di autoanalisi radicale) ormai è un professore conosciuto in tutto il mondo per i suoi studi, amico di Foucault e di Pierre Bourdieu, e se de Lagasnerie si definisce borghese, quello di Louis, nato Eddy Belleguele, e proveniente a sua volta da un ambiente popolare, è stato uno di quegli esordi che gli editori si ricordano negli anni.

edouard louis

A 21 anni – prima di cambiare legalmente nome – ha scritto Il caso Eddy Belleguele (Bompiani, trad. F. Ascari), un romanzo a carattere autobiografico, in cui raccontava la sua infanzia ad Hallencourt, tra miseria, povertà, razzismo, alcolismo, tra i sottoprodotti dell’esclusione sociale. Un paesino nella provincia francese in cui la metà delle persone votano il Front National. È stato un caso internazionale.

Il New Yorker lo ha definito “la voce di chi non ha voce”. Allo stesso modo si è anche attirato critiche feroci: è stato accusato di prolofobia, paura dei proletari, per esserci andato giù troppo pesante nel denunciare il razzismo e l’omofobia della provincia francese. Quanto di fatto, afferma lo abbia salvato, “la mancanza d’amore” – il romanzo si apre con i compagni che gli sputano in faccia perché effeminato – “mi ha salvato la vita. Senza di quella non avrei avuto voglia di fuggire”. Nei termini di Bourdieu e di Eribon (qui come teorico di Réflexion sur la question Gay, 1999) attraverso l’esclusione degli altri, l’insulto ha rivelato, producendola quella distinzione che poi ha causato a sua volta lo studio, la voglia di scrivere, da cui a sua volta è risultato il salto di classe Louis.

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Il suo secondo libro Histoire de la Violence (Bompiani, trad. F. Ascari) racconta l’esperienza autobiografica di Louis, stuprato la notte di Natale del 2012 da un ragazzo algerino. Quando ha letto il verbale della polizia non ha riconosciuto la sua esperienza “perché era filtrata dal linguaggio della polizia; razzista e omofobo”: era diventata la storia del biondino stuprato dall’arabo cattivo. Voleva riottenere il controllo sulla sua storia, con una forza, con un’empatia a tratti devastante; arriva in alcune pagine quasi a difendere il suo stupratore, perché la sua violenza è stata a sua volta il prodotto di violenza ed esclusione (“Il ragazzo che mi ha attaccato ne La storia della mia violenza è gay e cresciuto in un paese omofobo: la Francia. È qualcuno che detesta il suo desiderio. E il desiderio è molto potente, e se lo odi, può produrre una forma di follia”).

Louis così ha voluto fare luce su una dicotomia che si è completamente persa e che gli fa attirare le antipatie di molti (chi fa imbarazzanti strali contro gli ignoranti, che è un modo per dire poveri, che votano male e sono causa di ogni problema): che l’amore e la politica abbiano vagamente a che fare l’uno con l’altro: “la difesa dei dominati non deve essere condizionata dal fatto che i dominati siano o meno amabili; ci si deve battere contro la dominazione, punto”. In questo modo si trova costantemente a denunciare e contemporaneamente a difendere l’ambiente da cui proviene, l’unico atteggiamento possibile, probabilmente, ma che sembra non andare bene a nessuno.

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Il vicolo cieco in cui si è trovata molta della riflessione politica contemporanea (quella più mainstream) è di diagnosticare l’impossibilità immaginare un’alternativa al sistema e contemporaneamente di prescrivere come soluzione proprio di immaginare un’alternativa; pensare un’utopia. Un paradosso in cui la diagnosi nega a priori la soluzione e che, infatti, spesso sfocia nel monito sofferto a ripristinare le condizioni per cui sia possibile immaginare un pensiero utopico. Edouard Louis se ne svincola perché parte da premesse completamente diverse, se non addirittura opposte: in un’intervista cita Deleuze, “nel maggio ’68, si parlava dell’emergere dell’utopia. Ma il filosofo Deleuze disse che no, era proprio l’opposto: era l’emergere della realtà, delle persone che dicevano fatti reali come ‘io voglio amare chi voglio’”.

“Tutti i grandi movimenti del ventesimo secolo: il marxismo, il movimento LGBT, il movimento antirazzista, il movimento femminista, partivano dalla violenza, da quello che non va”, e solo a partire da questo che hanno potuto creare della bellezza o della libertà. Per questo lui vuole diventare lo “scrittore della violenza“.

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Non si preoccupa di immaginare un’alternativa. Ribalta il vecchio assunto per cui il personale è politico: è il politico a essere personale. Non si chiede come la vita possa cambiare tramite la politica, non si preoccupa dell’agency, ma al contrario, nel suo testo più esplicitamente teorico si preoccupa dell’effetto della politica (“Cosa fa la vita alla politica?”, trad. Giuseppe Carrara, in origine nel volume Pierre Bourdieu. L’insoumission en héritage). Louis sostiene che la politica abbia degli effetti differenziali sulla vita perché l’accumulazione di capitale culturale, economico, simbolico protegge a diversi livelli dagli effetti della politica. Su questa riflessione si basa tutto l’impianto di Chi ha ucciso mio padre, “i dominanti possono lamentarsi di un governo di sinistra, possono lamentarsi di un governo di destra, ma un governo non gli causa mai problemi di digestione, un governo non gli spacca la schiena, un governo non li spinge mai verso il mare. La politica non cambia la loro vita, o così poco. Anche questo è strano, fanno la politica e la politica non ha quasi nessun effetto sulla loro vita. Per i dominanti la politica è nella maggior parte dei casi une questione estetica: un modo di pensarsi, un modo di vedere il mondo, di costruire la propria persona. Per noi, era questione di vita o di morte”.

Edouard Louis alla violenza oppone la rabbia. Una rabbia che bisogna essere veramente ciechi per non vedere ovunque: “Senza la rabbia”, sostiene, “non si può dire la verità sul mondo. Perché ci sono tutto un insieme di violenze che si riproducono in modo così meccanico e sistematico, attraverso le generazioni, i corpi, gli individui che abbiamo finito per pensarle evidenti, per non vederle più, dunque la rabbia è uno strumento di conoscenza del mondo”. Chi ha ucciso suo padre? La sua risposta è una vendetta; e rende Chi ha ucciso mio padre una denuncia che accusa la politica; Louis fa i nomi: Jacques Chirac, scrive rivolgendosi al padre, “ha distrutto il tuo intestino” cancellando i sussidi sui medicinali, Nicholas Sarzoky, lo ha umiliato con una campagna contro gli assistiti, e lui e Martin Hirsch, con le loro riforme “ti hanno spaccato la schiena”, e ancora François Hollande ed El Kohmri “ti hanno asfissiato”, Emmanuel Macron “ti ha levato il pane dalla bocca”.

Vero o meno non è il caso di stabilirlo; di certo è raro trovare un libro così potente (in sessanta pagine!). Ed è anche vero che a un inverno che non ha fatto altro che bruciare – in California, in Francia – è seguita una primavera in cui bruciano, così si dice, i simboli dell’Europa, e se c’è un autore, d’accordo con lui o meno, che vale la pena leggere in questi tempi tormentati dal fuoco, quantomeno per capirci qualcosa, è chi scrive così “non ho paura di ripetermi perché quello che scrivo, quello che dico, non risponde alle esigenze della letteratura ma a quelle della necessità e dell’urgenza, a quelle del fuoco”.


 

(nota: la foto dell’autore è tratta dal suo profilo Facebook)

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