Francisco Tario (Città Del Messico, 9 dicembre del 1911 – Madrid, 30 dicembre del 1977) è un vero e proprio esempio di mistero. Nella raccolta “Fra le tue dita gelate. Racconti fantastici”, per la prima volta pubblicata in Italia, dimostra un’attitudine ironica e metafisica che a nessun altro scrittore si accosta, se non, forse, al realismo magico di Juan Rulfo o alla produzione gotica di Edgar Allan Poe. L’autore ci sospinge alla lettura senza possibilità di resistenza alcuna, suggerendoci di abbandonarci a essa come farebbe un bambino di fronte al sonno, o magari al gioco

Quelli di Francisco Tario non sono racconti che parlano di fantasmi; semmai, sono i fantasmi di Francisco Tario – il lutto, la passione, il fallimento – a parlarci dell’autore quasi fosse, egli stesso, il più illustre di tutti loro. È d’altronde costui un vero e proprio esempio di mistero; nato a Città Del Messico il 9 dicembre del 1911 e deceduto a Madrid il 30 dicembre del 1977, se dell’uomo, al secolo Francisco Peláez, qualcosa infine si conosce, tipo la sua professione di calciatore o la sua predilezione per l’astronomia, è la sua carriera di scrittore a essere stata ingiustamente sacrificata nel corso dei decenni, tant’è che di tutta la sua vasta opera solo la raccolta Fra le tue dita gelate. Racconti fantastici, viene oggi pubblicata in Italia grazie a Safarà, nella traduzione di Raul Schenardi.

Fra le tue dita gelate. Racconti fantastici

Il motivo di una tale dimenticanza è presto detto: come la poetica di Francisco Tario non risulta aderire ad alcuna corrente letteraria, al contempo la sua intenzione non è certo quella di compiacere il grande pubblico, quanto piuttosto di stimolarne i riflessi attraverso una scrittura labirintica al limite del provocatorio.

Approcciare una lettura di Francisco Tario risulta, in tal senso, pari a perdere il filo del discorso; dove infatti, sul principio, ogni racconto appare logico e ben circoscritto, è nello svolgimento della trama che l’incognita del soprannaturale tutto avvolge di fantasia e grottesco, lasciando il lettore ammaliato e/o stupefatto di fronte a un epilogo inaspettato se non, alle volte, tronco.

“Qualcosa, in effetti, del tutto inatteso”, volendo citare Lo Uisititì, la novella che funge da apripista per l’intera raccolta, “ma così, di punto in bianco, non indovinai che cosa fosse”. Già, perché delle mille domande che il lettore è incentivato a porsi – La testa del bambino è divenuta una mongolfiera? ne Il balcone; Il banchiere è scomparso o è a tutt’oggi intrappolato dentro al quadro? in Assassinio in do diesis minore; Che fine facciamo quando nessuno si rammenta più di noi? in Verso la fine di settembre – nemmeno una è destinata alla risposta, rimanendo anzi sospesa in quella dimensione di totale smarrimento che sempre coglie colui il quale si interroghi circa i rapporti fra l’aldiquà e l’aldilà, o il finito e l’infinito, o il sogno e la veglia.

Ma non che, di tale confusione, rimangano insondabili le ragioni più profonde (anche se è impossibile un riassunto efficace delle storie): se l’intera raccolta è dedicata a “quel magico fantasma, quelle che furono le tue ultime letture”, allora è chiaro come la ragione poetica dell’autore sia da ricercarsi nella scomparsa di Carmen Farrell, sua compagna e musa letteraria che il maestro continua a ricordare in ogni testo da lui realizzato, e questo anche a scapito della sua stessa (in)comprensione.

Nessun dubbio, dunque, che dietro le caratterizzazioni ibride dei suoi personaggi – un cavallo che assomiglia a un principe, uno psicologo sotto falsa copertura, un leprecauno che suona una trombetta – e puranche attraverso le sue ambientazioni di transito – il cimitero, il mare in burrasca e quindi il buio della notte – Francisco Tario sintetizzi, in realtà, il profondo desiderio di sovvertire il razionale e da qui, come un punto di non ritorno, ricongiungersi all’amata oltre i limiti della narrazione.

“Subito dopo aveva preso a camminare, molto arrabbiata, ma io l’avevo rincorsa per dirle che l’adoravo”, così ci conferma l’autore in Fra le tue dita gelate, ultima novella dell’opera ma anche passaggio che dona il titolo alla raccolta “che non concepivo la vita senza di lei e che i nostri destini dovevano avere un marchio molto speciale”; quel genere di vocazione (l’amore eterno, insomma) che di certo parole umane non sono in grado di raccontare e che allora, tanto vale, sia l’ultraterreno a interpretare.

Con un’attitudine ironica e metafisica, che a nessun altro scrittore si accosta, se non, forse, al realismo magico di Juan Rulfo o alla produzione gotica di Edgar Allan Poe, Tario ci sospinge alla lettura senza possibilità di resistenza alcuna, suggerendoci di abbandonarci a essa come farebbe un bambino di fronte al sonno, o magari al gioco.

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Con un particolare merito alla grafica di copertina: appositamente realizzata dallo studio mimicocodesign quale collage di elementi fotografici e disegnati, l’illustrazione a corredo del testo riproduce con elegante contrasto quella sovrapposizione dei piani onirici ed esistenziali cui le microstorie ci abitueranno di pagina in pagina ma che ci lasceranno, comunque, in attesa di spiegazione. Ecco, dunque, sia lasciato ai fantasmi il diritto di parola.

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