Il finale di “The long night” è inaspettato a livello emotivo ma perfettamente logico dal punto di vista della sceneggiatura. Parafrasando Bran in una delle scene più drammatiche dell’episodio, “tutti i passi fatti, ti hanno condotto qui”. E proprio di drammaticità sono intrisi i momenti che concludono – in uno sforzo di coralità ammirabile – gli archi narrativi di alcuni personaggi solo apparentemente secondari: dall’eroismo dei vari Jamie, Verme Grigio e della piccola Mormont, alla morte di Jorah, fino alla più grande rivelazione della serie: Theon Greyjoyzbr

 Su ilLibraio.it un approfondimento sulla terza puntata dell’ottava stagione di “Game of Thrones”, che ha registrato ascolti da record e generando reazioni estremamente contrastanti – SPOILER ALERT

Sono tempi duri per chi non segue né il Marvel Cinematic Universe né il mondo crossmediale di Game of Thrones. Ha qualcosa di stupefacente la capacità di coinvolgimento di questi due franchise, in special modo se pensiamo che l’universo dell’intrattenimento in streaming si sta rivolgendo sempre di più a nicchie di mercato (serie tv prodotte e ideate per soddisfare pubblici contenuti ma specifici, molto targhettizzati). Al contrario mai come in questo momento per il MCU e GOT – e prima di loro forse solo con Star Wars ma in maniera diversa e sicuramente più lenta – stiamo assistendo a fenomeni di sincronia (e isteria) collettiva, di portata mondiale, paragonabili all’entusiasmo per i giochi olimpici e altre competizioni sportive. La loro popolarità si dispiega su più piattaforme (dagli schermi televisivi e cinematografici ai libri, dai fumetti ai videogiochi fino al merchandising) ma anche su più generazioni e in maniera trasversale attraversano i più disparati generi di pubblico. 

Questa capacità di “dividere e conquistare” è apparsa più che mai ovvia dopo la messa in onda dell’ultimo episodio di Game of Thrones, la terza puntata dell’ottava stagione, intitolata in maniera molto appropriata The long night, registrando ascolti da record e generando reazioni estremamente contrastanti. 

Ed è proprio la messa in scena di una lunghissima notte – quella della tanto attesa battaglia contro i non-morti, i White walkers, gli Estranei e il loro re, il Night King – quella che ci accompagna, ma sarebbe meglio dire, ci scorta, durante un’ora e mezza di tensione. 

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L’oscurità di The Long Night di cui si sono lamentati gli spettatori ha più di una giustificazione 

L’episodio è stato girato sfruttando la sola “luce” naturale, ovvero il buio. Quest’oscurità – voluta, cercata e difesa dalle critiche di molti spettatori – è una precisa scelta stilistica che si sposa perfettamente con la grammatica dell’episodio che si fonda sul doppio simbolismo tra luce (speranza e vita) e oscurità (morte e vuoto). Le fiamme che divampano si spengono quando i Dothraki sembrano letteralmente cadere nel baratro della morte, inghiottiti dalla marea montante dei non-morti in una delle scene iniziali che segnano immediatamente il tono dell’episodio: spaesamento e paura che colpiscono anche i personaggi più efferati come Clegane, il Mastino, paralizzato dal terrore e incapace di rimanere in combattimento. 

La Morte – perché è questo che rappresentano i nemici, per altro nominati pochissimo nei momenti prima della battaglia, a sottolineare il tabù che li avvolge – sembra destinata a ricoprire Grande Inverno. È il fuoco sputato dalle fauci dei draghi a riaccendere un barlume di speranza ma di nuovo prontamente, si scatena una bufera, ennesimo ostacolo che rende ancora più fosca la visione, anche per noi spettatori. Da questo momento in poi la battaglia è data per persa, la luce riesce a brillare solo in alcuni momenti epici: ora puntellano le pupille di Melisandre quando riesce ad accendere il fuoco che protegge l’ingresso a Grande Inverno, ora delle fiammate si mostrano alle spalle di Arya da una finestra dei corridoi del castello mentre riesce a scappare da un’orda di non-morti. 

Da un’assoluta e completa oscurità quindi qualche bagliore, fino al finale assolutamente imprevedibile e per molti versi anticlimatico. Un colpo di scena che si è rivelato una delle svolte narrative più divisive dell’intera storia. Arya uccide il Night King. 

Perché è Arya a uccidere il Night King

A livello emotivo siamo stati preparati a un percorso diverso. Per otto stagioni abbiamo assistito al percorso dell’eroe di Jon Snow, il figlio bastardo ma in realtà legittimo erede al trono che da nullatenente diventa re, eletto dai soldati, colui che ha illuminato il mondo con la verità, uno dei pochi sopravvissuti all’attacco degli Estranei, riportato in vita da Melisandre perché il prescelto, destinato a compiere un’impresa. Per come era stato costruito il suo arco narrativo, anche in maniera piuttosto canonica, era lui che doveva uccidere il Night King. In alternativa, anche Danaerys – da reietta venduta come una schiava in cambio di un esercito a madre di draghi e liberatrice di popoli – poteva essere un’ottima candidata all’uccisione del re della notte. Ma nessuno dei due riesce nell’impresa. E il perché è semplice: Jon Snow non ha alcuna possibilità contro il re della notte, essendo…un semplice soldato, senza abilità soprannaturali (per quanto redivivo) e al fuoco di Drogo il re della notte è immune. Le strategie politiche di Dany, ormai del tutto ubriaca di potere, non valgono a niente contro la Morte. E anche i suoi migliori consiglieri, infatti, sono nelle cripte, Tyrion e Varys sono inutili in questa battaglia. Così come Sansa.   

Anche se emotivamente siamo stati pilotati, in maniera piuttosto astuta dagli autori, a credere nel percorso “obbligato” del protagonista maschile vittorioso, in realtà a livello razionale, non possiamo che chiederci: chi altri poteva uccidere il Nemico più grande se non Arya? Non poteva che essere lei, addestrata ad agire nell’ombra, l’unica in grado di sfruttare non la forza ma l’abilità. E risulta chiaro che l’unico modo di battere il Night King sia quello di coglierlo di sorpresa, trafiggendolo – non in un punto a caso ma nello stesso punto in cui i Figli della Foresta lo trafissero per crearlo – con una daga in acciaio di Valyria che ha una storia molto lunga: è pura abilità narrativa quella che è riuscita a riportare il pugnale da cui tutto è iniziato, quello con cui doveva essere assassinato Bran, fino alla resa dei conti, facendo sì che sia lo stesso pugnale ora a salvare Bran. 

E di indizi che fosse Arya a farlo ce ne sono: dalla premonizione di Melisandre (3×06) all’addestramento a Bravoos (altrimenti inutile), fino alla consegna del pugnale da parte di Bran nella settima stagione (e che Sam ha più volte visto ritratto nei manoscritti consultati alla Cittadella). Non è stata una scelta casuale ma una tela intessuta silenziosamente, al contrario di altri percorsi sicuramente più scoppiettanti. Arya è l’anti-eroina che ha salvato Westeros, non solo una ragazzina che gioca a fare la vendicatrice. Arya non è innocua né rassicurante, anche se molti spettatori continuano a trattarla come una bambina non ancora cresciuta, tant’è vero che sono rimasti sconvolti dalla sua libertà sessuale mostrata nell’episodio precedente. 

Arya e la profezia di Azor Ahai

Molti lettori delle Cronache, si sono chiesti se questa svolta significa che Arya sia quindi il famigerato Azor Ahai, il Principe che venne promesso: secondo una leggenda, nominata nei libri, colui che avrebbe fermato la Lunga Notte e salvato l’umanità. Se non vi è familiare il nome, sicuramente lo sarà il concetto infatti Azor Ahai è venerato dai seguaci del signore della luce, tra cui Melisandre, il cui compito, da più o meno tutta la serie, è quello di portare a compimento questa profezia ovvero trovare un campione che fermi la lunga notte. Presumibilmente Melisandre ha seguito un percorso tortuoso che l’ha portata a scommettere sugli eroi “sbagliati”, credendo prima in Stannis, poi in Jon. Oppure semplicemente ha predetto che l’unico modo di arrivare ad Arya fosse prima passare per tutte le tappe intermedie. 

Ci sarebbero però delle incongruenze nell’identificare Arya con Azor Ahai, così come si cono tantissime altre incongruenze in moltissime teorie dei fan. Infatti se c’è una cosa che è importante sottolineare, è che le profezie – di cui pullulano le Cronache del ghiaccio e del fuoco – non sono attendibili. Spesso i fan basano le loro teorie e le loro aspettative su profezie che nella serie tv non sono mai state pronunciate oppure sono state soltanto accennate e quindi non possono essere un metro di giudizio valido per prevedere gli eventi. Fortunatamente visto che altrimenti sarebbe tutto scontato e deterministico. È un mistero il motivo per cui in una storia celebrata proprio per il suo realismo e le sue continue prove a sostegno della casualità della morte, faccia così affidamento sulle profezie.

Perché il Night king muore così “facilmente”

Molti sono rimasti delusi dal fatto che il Night King, dopo anni di tribolazioni, sia uscito di scena così “facilmente” e soprattutto senza che venissero indagate più a fondo le sue motivazioni. È sicuramente una scelta forte quella di eliminare il pericolo che per anni è stato ripetuto come un mantra da esorcizzare: “l’inverno sta arrivando“. Allo stesso tempo, però, è una scelta assolutamente significativa e coerente con l’identità della serie, il cui titolo è, appunto, il gioco del trono e la trama fantapolitica è sempre stata il fulcro e il cuore della narrazione. Sugli estranei abbiamo avuto già delle risposte: sono stati creati dai Figli della Foresta per annientare gli uomini ma da meccanismo di difesa sono diventati una minaccia incontrollabile. Il Night King, per quante teorie fantasiose si vogliano cercare, non è altro che un Mostro che rappresenta la Morte. Non ha per forza bisogno di una psicologia e un approfondimento. I fan sognano spesso trame impossibili o storie infinite e forse questo è proprio il punto forte dell’universo creato da George Martin, però, è anche necessario ridimensionare le proprie aspettative per capire quando una storia debba andare in una precisa direzione per concludersi. Inoltre non è vero che questa è la prima volta che si affrontano i non morti, li abbiamo visti in scena più volte e Jon li ha già affrontati. Questo doveva essere ed è stato da sempre lo scontro finale e decisivo, non l’inizio di qualcosa. Lo abbiamo aspettato per otto stagioni, è stato preparato con lentezza, forse troppa in ben tre episodi, e abbiamo disperato con i personaggi per un’ora e mezza, pensando che tutto fosse perduto. Che altro ruolo si può pensare per la Morte, se non quella di terrorizzarci? Quale altra rivelazione si poteva pensare, quale altro futuro per gli estranei? Nessuno. Il loro potenziale è stato già esaurito. 

L’ultimo nemico da sconfiggere non è la Morte ma Cersei

Inoltre i non morti sono sempre stati un diversivo soprannaturale significativo, ma comunque una cornice, un espediente metaforico utile per una lezione più grande: sconfiggere la morte è spesso impossibile ma bisogna comunque combatterla. E ancora più a fondo, la Morte è la minaccia più grande ma alla fine il gioco del potere ha il sopravvento. L’umanità è stupida e cieca. Dobbiamo sconfiggere la morte ma per sopravvivere continuiamo a ignorarla fino all’ultimo. Il Re della Notte quindi esce di scena a metà stagione, per ovvi motivi frettolosa, per lasciare il posto a Cersei Lannister, una regina mortale, da sempre antagonista indiscussa della serie, con un arco narrativo incredibile, costellato da momenti in cui lo spettatore è portato a compatirla, odiarla, amarla e ammirarla nella sua follia. Ma davvero preferivate il Night King che non ha manco mai detto una sillaba? 

La vera domanda è sempre stata: “chi si siederà sul trono di spade?”

Questo finale è inaspettato a livello emotivo ma perfettamente logico dal punto di vista della sceneggiatura. Parafrasando Bran in una delle scene più drammatiche dell’episodio: “tutti i passi fatti, ti hanno condotto qui”. E proprio di drammaticità sono intrisi i momenti che concludono – in uno sforzo di coralità ammirabile – gli archi narrativi di alcuni personaggi solo apparentemente secondari: dall’eroismo dei vari Jamie, Verme Grigio (con il suo “protect the retreat”) e della piccola Mormont, alla morte di Jorah fino alla più grande rivelazione della serie: Theon Greyjoy. 

Potevano certamente sacrificare qualche personaggio in più, non perché il numero di personaggi morti (e conseguente quantità di lacrime versate) aumenta il valore di un episodio ma perché forse sarebbe stato più credibile vedere cadere in una battaglia così tremenda almeno i personaggi meno abili come Sam, o al contrario, in un estremo atto eroico, Brienne. Non sappiamo però cosa hanno in serbo per loro gli sceneggiatori, magari serviranno in seguito. Non è proprio questo che ci piace di GOT: la sua capacità di sorprenderci?   

La vera domanda che conta adesso ma che noi sappiamo aver sempre contato all’interno della serie è: chi si siederà sul trono di spade? E forse ancora più importante: il trono verrà distrutto o, citando Tomasi Di Lampedusa, tutto cambia perché niente cambi? 

L’AUTRICE – Qui tutti gli articoli e le recensioni di Ilenia Zodiaco per ilLibraio.it

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