“I fratelli Karamazov” è il romanzo più poderoso, più maturo e più straziante dello scrittore russo Fëdor Dostoevskij (1821-1881), una “tragédie humaine” che ha per propulsore l’impeto costruttivo o distruttivo dei quattro figli di Fëdor Pavlovič: è infatti grazie al loro confronto dialettico e generazionale che l’autore ci suggerisce un affascinante spaccato dell’animo umano, la cui irresolutezza etica e filosofica ci permette di sentir battere i cuori dei personaggi a quasi due secoli di distanza…

Uno dei modi più conturbanti per mettersi in contatto con il caleidoscopio dell’animo umano l’ha trovato l’autore russo Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821-1881): scrivere di dilemmi etici, affrontare questioni esistenziali, rovesciare punti di vista e credenze, mettere in primo piano il rapporto con la religione, o più in generale con la spiritualità, e intervallare l’una e l’altra riflessione con puntini di sospensione, incubi, visioni, confessioni, dialoghi serrati o pagine di diario.

Un’operazione complessa e minuziosa, che se traspare già da opere quali Le notti bianche e La mite, per poi svilupparsi più compiutamente in Memorie dal sottosuolo, L’idiota, I demoni e Delitto e castigo, si sublima infine nel suo romanzo più poderoso, più maturo e più straziante, ovvero I fratelli Karamazov.

Copertina del libro I fratelli Karamazov

Parte di un progetto letterario più ampio, poi rimasto di fatto incompiuto e accantonato dall’autore, il romanzo è ora riportato in libreria da Einaudi, nella raffinata e disinvolta traduzione di Claudia Zonghetti che, sfoderando un’incessante pazienza e passione, dialoga con il pensiero di Dostoevskij e con la sua tragédie humaine, dal punto di partenza individuabile nella figura di Fëdor Karamazov fino ai tanti e imprevedibili punti di arrivo incarnati dai suoi quattro figli, nell’ordine Dimitrij, Ivan, Aleksej e Smerdjakov.

Da questo padre meschino, e dal loro omonimo padre putativo letterario, i personaggi prendono infatti le mosse per instaurare un legame sempre a sé stante con la morale, in cui si può rintracciare un gradatum affascinante: da Smerdjakov, incapace di separare il piano delle idee da quello delle azioni, e soprattutto di elevare la propria condotta al di là dell’oscuro disincanto che guida la sua vita, a Ivan, tormentato invece dal senso di giustizia e da un’innocenza infantile da preservare, ma per il quale il rapporto con Dio e con la sua controparte malefica resta conflittuale, assillante, insoluto.

Fino ad arrivare a Dmitrij, primogenito viscerale e passionale in ogni manifestazione della sua personalità, e in grado di schiudersi all’umiltà solo in extremis, solo quando intuisce quanto inutile sia continuare a bussare alle porte della vendetta e del rancore; per concludere poi con Aleksej, radioso nella sua fiducia tanto nell’umanità quanto in una divinità corretta e provvida, l’unico che fino all’ultimo riesca dunque a mantenersi aperto al perdono e consapevole delle possibilità di redenzione e felicità a portata degli esseri umani.

È attraverso la lente del loro confronto dialettico, e di quello generazionale con Fëdor Pavlovič, che si accede a uno spaccato mentale e interiore da brivido, a una vera e propria rassegna di azioni e reazioni, di sentimenti e di pensieri, naturalmente aggregati in un vortice di contraddizioni acute e di sfoghi comportamentali, peraltro sempre complicati dalle interazioni con dei personaggi all’apparenza secondari, eppure a loro volta cruciali per orientare (o disorientare) le scelte e le percezioni dei fratelli Karamazov.

I fratelli Karamazov

Il loro impeto, ereditario ma declinato in misure e direzioni differenti, è infatti il propulsore stesso dell’opera – e la loro lingua, contaminata dalla loro visione del mondo, spesso incerta e singhiozzante, insieme all’effetto che di conseguenza sortisce in chi legge, non può che intrecciare le condizioni specifiche del contesto sociopolitico nel quale è ambientata la storia con dei dubbi amletici mai davvero superati nel corso del tempo, nella storia della letteratura, nella produzione filosofica.

Ecco perché la leggenda del Grande Inquisitore, il suicidio di Smerdjakov o la redenzione di Dmitrij mantengono inalterati il loro potere magnetico e la loro spaccatura escatologica, suscitando commozione e stupore tra un “delirio euclideo” e un “tragico inno a Dio”, tanto di fronte al funerale di Iljuša quanto nelle ultime parole scambiate da Katerina e Grušenka, per non parlare della scena del sogno biblico di Aleksej sulla tomba dello starec Zosima – un girotondo viziato e salvifico che assomiglia al cammino compiuto da Dante Alighieri nella Commedia, o se vogliamo, al rovescio, alla parabola discendente de Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde.

E, se anche in conclusione non si riesce a sorridere senza prima aver patito, se anche il riscatto non è accessibile a chiunque, se anche le domande non si placano, e le risposte si infittiscono di deviazioni, curiosità e inciampi, se anche il romanzo non è stato portato a compimento e non svela quindi quale destino finale sarebbe stato riservato ai protagonisti, o quale ciascuno di loro si sarebbe cucito addosso con le sue stesse convinzioni, è proprio grazie alle questioni irrisolte e alle virtù messe in discussione che ci si sente coinvolti e chiamati in causa in prima persona, ed è proprio attraverso l’irresolutezza che si ascoltano battere i cuori dei personaggi a quasi due secoli di distanza.

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