Negli Usa Ron Rash è considerato un classico della letteratura del Sud. “Il custode” inizia come un grande romanzo di guerra, ma quest’ultima è solo un pretesto narrativo per intavolare una trama che ci parla di una feroce dinamica famigliare nell’America profonda. L’autore rifugge il discorso “alto” e quello dei sentimenti o delle passioni dispiegate, e scava in una declinazione del linguaggio cifrata e minimale…

Le prime pagine sono da grande romanzo di guerra, con un duello feroce tra il soldato Jacob e un incursore nordcoreano, di notte, su un fiume ghiacciato: un incipit fulmineo, un duello tra due uomini che forse non vorrebbero combattere ma sono costretti a farlo: soprattutto Jacob (l’avversario è una sorta di fantasma senza volto), che alla fine uccide e si salva con grande difficoltà, rientrando al reparto quando già i compagni lo credono disperso o morto.

Siamo nell’ultimo libro dell’americano Ron Rash, Il custode, edito nella bella traduzione di Tommaso Pincio da La Nuova Frontiera, che già in passato aveva proposto questo autore molto stimato in patria ma che da noi suona ancora come la possibilità di una sorpresa o magari di una rivelazione.

Pare un libro lontano; già nella costruzione narrativa si avvale di un tema dimenticato come appunto la guerra di Corea, nel 1957. Ma non è una storia “archeologica”, e tantomeno un romanzo storico. La guerra è un pretesto narrativo, per intavolare una trama che ci parla di una feroce dinamica famigliare nell’America profonda.

Il custode di Ron Rash

La terribile avventura di Jacob sarà infatti per i suoi genitori, in un paese della Nord Carolina, lo strumento per mettere in atto un piano demoniaco, ossia cancellare il suo recente matrimonio, cui si erano opposti fieramente, facendo credere alla sposa – minorenne, bellissima, ingenua, povera e in attesa in un figlio, ed ora trasferitasi nel Tennessee a casa del padre, in una fattoria isolata – che lui è morto in combattimento; e nello stesso tempo, quando Jacob fa ritorno dopo una lunga degenza in ospedale, facendo credere a lui che Naomi è morta insieme alla creatura ancora in grembo, a causa di un aborto spontaneo.

È questo l’aspetto demoniaco che Rash riesce a evocare magistralmente (lo lascia apparire, più che nominarlo, lo porta in primo piano come se fosse normale); e lo fa cona un passo decisamente faulkneriano – o se si preferisce alla Hemingway, anche se e a molti ricorderà, quanto a un certa icasticità stilistica, il McCarthy, poniamo, di Suttree, con la sua retorica molto americana delle poche parole, dei dialoghi brevi e scanditi, la solennità di certe affermazioni espresse però a una sorta di grado zero della scrittura.

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Jacob, che pure ai genitori si è ribellato con ogni mezzo, è totalmente indifeso davanti alla trappola che gli è stata preparata e in cui cade, con diffuse e silenziose complicità in un villaggio dove loro hanno una posizione economica e quindi anche sociale di tutto rilievo, e soprattutto sono considerati persone buone e altruiste. C’è però almeno una persona che pensa a lui, un amico vero; ed è un personaggio, questo sì, indimenticabile: Blackburn, un coetaneo di Jacob dal fisico imponente se pure minato dalla poliomielite che gli ha rovinato la faccia, costringendolo a una certa marginalità sociale. E’ il custode di un piccolo cimitero; solitario e compassionevole, incarna la figura del giusto. Sarà lui, che pure ritiene sulle prime almeno di aver personalmente seppellito la povera ragazza (la bara era invece riempita di sabbia) a sbrogliare lentamente e cocciutamente la matassa. E’ l’unico che ama davvero come fratelli sia Jacob sia Naomi, e a tutto dire che ama la vita e ritiene che ognuno abbia diritto a un po’ di rispetto. I morti, certamente; e anche i vivi.

Il suo lavoro fra le tombe, esatto come una forma di preghiera, ne potrebbe fare un erede letterario di quel suo collega nel cimitero ebraico di Philip Roth in Everyman, officiante della precisione e filosofo delle fosse; ma la sua ostinazione nel proteggere i due sfortunati amici dalle dinamiche feroci di genitori mostruosamente in buona fede ne fa anche l’eroe di un elegiaco romano famigliare, dove non c’è ricomposizione ma una sorta di ripartenza, di ricostruzione di famiglie diverse. In qualche modo ce ne sarà una anche per lui, e del tutto imprevedibile perché nascerà dal rifiutarsi a un gesto che lo attrae ma gli pare ingiusto e disonesto proprio nei confronti di chi ama e vuole difendere e accudire.

Il tema della protezione è una sorta di basso continuo. Blackburn ne è l’interprete, nel suo lavoro (anche i morti vanno protetti) e oltre, come quando capisce all’improvviso, come per epifania, quale sia il suo compito nell’intricata situazione. E’ uno snodo topico del romanzo. Lui è nella chiesa del cimitero, prega, proprio lui “che non aveva pregato molto da bambino”. E gli pare a poco a poco che l’angelo “dal volto gentile” dipinto sulla vetrata, le ali spiegate come per abbracciarlo, gli voglia affidare una sorta di missione: “Sì, sussurrò, esci da qui e va’ a proteggerli. Risalì la navata. E mentre lui spegneva una luce del santuario e poi un’altra, a poco a poco l’angelo svanì”. L’esempio è interessante per quanto riguarda la scrittura di Rash, fra discorso libero indiretto e piccole pennellate metaforiche (oltre all’ambiguità su chi dei due sussurri).

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Si direbbe infatti che Il custode funzioni per riduzione; rifugge il discorso “alto” e quello dei sentimenti o delle passioni dispiegate. Scava in una declinazione del linguaggio cifrata e minimale, ad esempio quando Jacob torna a casa dall’ospedale militare, non prima di essere andato sulla (presunta) tomba di Naomi, e i genitori lo accolgono “raggianti”. Non ha motivo di dubitare, in quel momento, della versione che gli è stata fornita. Eppure si chiede, ricordando episodi precedenti e un’amica, Veronica, che gli si voleva far sposare: “Quando mai erano stati così? La sera in cui lui e Veronica si erano agghindati per il ballo di fine anno? Il suo primo giorno di università? No, non in quei momenti. Il giorno in cui gli era giunta la notizia della morte di Naomi. Sì, pensò Jacob, probabilmente allora”. Nell’avverbio c’è già tutto il romanzo.

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Fotografia header: Ron Rash, ©MaryanHarrington

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