Pubblicato originariamente nel 1929, torna in libreria “Il figlio di due madri” di Massimo Bontempelli (1878 – 1960), a tutti gli effetti un romanzo sulla maternità, in cui l’elemento fantastico serve quasi a supplire la reticenza all’analisi psicologica. Un racconto delle origini o forse, meglio, della fine

Nel Libro dei Re si racconta la storia del dilemma di Salomone, la vicenda è nota: due donne si presentano davanti al re entrambe sostenendo di essere la madre di un bambino. Per scoprire chi delle due dica la verità, Salomone propone di tagliare in due il figlio, sapendo che solo la vera madre si sarebbe tirata indietro, rinunciando alla propria maternità pur di salvarlo.

La Bibbia è un grande deposito di storie, di nuclei a cui spessissimo la narrativa ha attinto per creare le proprie trame, e il dilemma di Salomone non fa eccezione: dalla detective story, alla serialità televisiva, al teatro (basti ricordare Il cerchio di gesso del Caucaso di Bertolt Brecht). E si potrebbe leggere Il figlio di due madri di Massimo Bontempelli (riedito da Utopia Editore) come una originale rielaborazione proprio di questa storia.

Copertina del libro Il figlio di due madri

Il figlio di due madri viene pubblicato originariamente nel 1929, nello stesso anno in cui terminano le uscite della rivista 900, luogo di elaborazione principale della poetica di Bontempelli e di una politica culturale europeista, sperimentale e antitradizionale: è su quelle pagine che si mette a punto quell’idea ambigua e spesso male interpretata di “realismo magico” che informa un po’ tutta la produzione bontempelliana – dunque non stupisce che Il figlio di due madri sia posto a suggello terminale di quell’esperienza.

Si tratta di una storia, per certi versi, di détours: un classico interno alto-borghese da tradizionale romanzo realista, in cui è collocato un grigio quadretto familiare, quello di Mariano Parigi, presentato fin dalle prime righe in relazione al suo ruolo di padre (anzi di pater familias) e di status economico, di Arianna detta Anna, e di loro figlio Mario che viene sgridato perché raccoglie le briciole del dolce dalla tavola.

Ma l’incipit è un inganno: questa prima immagine, quasi una natura morta, viene presto invasa dalla luce innaturale del racconto fantastico (e gli effetti di luce sono uno dei tratti stilistici principali di questo libro, a fare spesso da contraltare alla narrazione o da controcampo alle precise descrizioni dei quartieri romani): Mario Parigi a un certo punto perde coscienza della propria identità e dice di essere (e di fatto è) Ramiro, il figlio morto di Luciana Stirner.

Due madri, dunque, e un bambino: ma qui il racconto biblico si complica, perché non c’è una verità da scoprire, il caso giudiziario è impossibile e non risolutivo, la storia si fa una storia paradossale del doppio che però convive in un unico corpo. In questo modo Il figlio di due madri diventa soprattutto un’indagine, mediata dalla presenza perturbante del bambino, di una relazione triangolare fra le due donne, che incarnano parabole differenti: se sul graduale appassimento del corpo di Arianna possiamo vedere l’acuirsi del malessere per la difficoltà sempre crescente di riconoscere suo figlio nel corpo del bambino che ha davanti a sé, nel rifiorire di Luciana troviamo piuttosto la possibilità di una vita riscattata; la prima si fa sempre più una figura grigia, del freddo realismo della sua classe sociale, mentre la seconda abbraccia la vitalità rinata del suo quartiere popolare, la logica impossibile del sogno, la possibilità del fantastico.

Ma l’aspetto più riuscito del romanzo non sta tanto in questa didascalica opposizione, ma piuttosto nei punti di détour, appunto, in cui le due parabole si incrociano, delineando una complessa relazione basata su un condiviso sentimento di maternità che si nutre però di dinamiche contrastanti: “le due donne si volevano bene”, “ma diffidavano l’una dell’altra”. Entrambe, in ogni caso, delineate per opposizione all’autoritaria presenza di Mariano Parigi, figura della ragione, della legge, del controllo e della gestione anche dei corpi altrui – e che tuttavia si troverà a infrangersi di continui contro il muro invisibile dell’elemento magico della narrazione.

A dispetto del titolo, infatti, che mette l’accento sul figlio, quello di Bontempelli è a tutti gli effetti un romanzo sulla maternità, in cui l’elemento fantastico serve quasi a supplire la reticenza all’analisi psicologica: giustamente Marinella Mascia Galateria nella prefazione all’edizione Utopia parla di linguaggio cinematografico, le vicende sono raccontate per l’appunto come se fossero delle scene visive in cui sono soprattutto i giochi di luce a creare le ambientazioni e approfondire nella dimensione del sogno le dettagliate descrizioni dei quartieri romani – e non a caso sono stati tratti due film dal romanzo di Bontempelli: da Ottavio Spadaro nel 1976 e da Raúl Ruiz nel 2000.

Questa narrazione poco intrusiva, ambientata nell’anno-simbolo 1900, riesce, tuttavia, attraverso i gesti, la prossemica, gli sguardi, gli effetti uditivi, tattili, la modulazione della voce dei personaggi a dar vita a un’analisi delle relazioni e delle possibilità della maternità primo-novecentesca – facendone quasi un racconto delle origini o forse, meglio, della fine.

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