“Probabilmente i libri che scrivo, e in particolare questo, sono il mio modo di trasformare la mia vita nelle vite degli altri, per poi poterle guardare fino in fondo”. La scrittrice Elena Varvello, intervistata da ilLibraio.it parla dell’ultimo romanzo, “Solo un ragazzo”, e riflette sul suo rapporto con la lettura e con la narrativa contemporanea

Elena Varvello, poetessa e scrittrice torinese, docente della Scuola Holden, torna in libreria con il romanzo Solo un ragazzo (Einaudi). La storia è ambientata in un piccolo paese montano, che all’apparenza sembra essere caratterizzato da normalità e semplicità. Ma, come in ogni luogo, non mancano le tragedie, soprattutto quelle personali e familiari, che rendono uniche le persone che lo popolano, le quali vivono a loro modo il rapporto con l’amore, il perdono e la famiglia.

Un ragazzo adolescente, di cui non conosciamo il nome, è protagonista (a volte in assenza, a volte in presenza) di Solo un ragazzo, nel quale la vita dei componenti della sua famiglia viene stravolta per sempre dai fatti di una notte nella quale lui decide di rivelare aspetti di sé che ha sempre taciuto. Varvello, dopo il successo de La vita felice (Einaudi, 2016), una storia di formazione legata al rapporto tra padri e figli, che ha riscosso apprezzamenti anche in Gran Bretagna, torna a soffermarsi su temi universali nella loro collocazione più comune, che è anche quella in cui si manifestano con più intensità, cioè la famiglia.

Come in un gioco di specchi nel romanzo conosciamo un ragazzo e il mistero che lo avvolge tramite prospettive diverse, in un quadro di frammenti che non combaciano tra loro, e proprio per questo capaci di ricostruire la complessità dei rapporti umani che evolvono nei nuclei familiari.

ilLibraio.it ne ha parlato con l’autrice.

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solo un ragazzo elena varvello

Senza voler svelare i dettagli, in Solo un ragazzo protagonista è una famiglia che si trova a dover affrontare un comportamento che sembra porre il personaggio che lo compie al di là, o forse al di fuori, della società in cui vive. È forse una reazione a una comunità troppo piccola o troppo stretta, un atto di emancipazione?
“Penso che in realtà il ragazzo (un personaggio il cui nome non viene mai pronunciato, e che quindi è un mistero in ogni senso) stia solo cercando se stesso. Certo, fa cose incomprensibili, che lo spingono fuori dal mondo in cui vive. Ma è un adolescente, e in fondo l’adolescenza è sempre radicale, ovunque accada: è una rivoluzione, una ricerca, una lotta. Purtroppo a volte c’è chi perde. Erano questa rivoluzione, questa perdita e la sua eco quel che volevo raccontare. Sono convinta che ci sia comunque un senso, una risposta possibile alla domanda: ‘Chi sei?’, oppure: ‘Chi eri?’. In una piccola comunità come Cave, in cui vivono il ragazzo e la sua famiglia, è soltanto tutto più evidente”.

Sono molte le voci nel romanzo di cui possiamo esperire il punto di vista su una vicenda e su un periodo all’incirca coincidente. È stato complicato immedesimarsi in rappresentazioni diverse (filtrate da differenze di età, sesso, carattere, esperienze vissute)? Cosa ne pensa della tendenza di una certa narrativa contemporanea di concentrarsi su un’unica voce, spesso vicinissima all’esperienza dell’autore?
“No, è stato naturale. Credo che le storie facciano molte cose, ma soprattutto questa: estendono la nostra capacità di sentire le vite degli altri, senza giudicarle. Sto parlando di compassione. Per questo le voci di Solo un ragazzo sono arrivate con naturalezza. Probabilmente i libri che scrivo, e in particolare questo, sono il mio modo di trasformare la mia vita nelle vite degli altri, per poi poterle guardare fino in fondo. Con il passare degli anni mi sembra sempre più evidente che le nostre vite siano tutte mescolate, che siano un’unica, grande storia che continuiamo a raccontare, scrivendo di noi stessi in modo esplicito, oppure immaginando personaggi”.

In un’intervista a SulRomanzo riguardo a La vita felice, il suo libro precedente, lei ha detto: “Mi pare di star lavorando a una sorta di trilogia, che ha a che fare con il perdono, con la compassione, con l’amore come mescolanza di queste due qualità umane”; e in effetti in Solo un ragazzo ritroviamo alcuni elementi de La vita felice (ritornano la città di Ponte, il cotonificio chiuso da tempo, la storia di un bambino ritrovato morto nei boschi…). Ci troviamo quindi al secondo passo della trilogia?
“È possibile. C’è qualcosa di struggente nel pensare di rimanere per tanto tempo dentro lo stesso universo narrativo, lungo le stesse strade. Amo gli scrittori che lo fanno. Quello che so per certo è che continuerò a esplorare le luci che si accendono nell’oscurità, e ce ne sono così tante: il perdono, la nostra capacità di sopravvivere al dolore, la persistenza dell’amore in tutte le sue forme, il conforto che siamo in grado di offrire l’un l’altro. Per quanto mi riguarda non avrebbe senso scrivere, altrimenti. Forse ritornerò di nuovo a Ponte e a Cave: ci sono ancora molte storie da raccontare, là”.

Protagonisti di Solo un ragazzo sono persone che potremmo definire “comuni”, nel senso che offrono un ampio spazio per identificarsi in loro. In un suo articolo per ilLibraio.it, lei ha scritto: “Nessuno di noi è comune, se per comune intendiamo l’opposto di eccezionale. Ciascuno è eccezionale, perché ciascuno conosce a suo modo l’amore e la sofferenza, il bene e il male, e tutti sfioriamo il mistero che ogni esistenza racchiude.” Questo tipo di personaggi a suo avviso offrono una porta più ampia con cui indagare grandi temi universali, come la crescita e i rapporti familiari?
“Penso proprio che sia così. Nessuno di noi è comune, non ho alcun dubbio, e quindi nessun personaggio lo è, neppure quelli a cui da principio potremmo non riconoscere alcuna eccezionalità. I personaggi apparentemente comuni sono invece meravigliose porte aperte, a volte magari solo schiuse, sulle grandi questioni della vita, sempre le stesse. Flannery O’Connor parlava del mistero della nostra posizione sulla terra: è un mistero che appartiene a ciascuno di noi, che ci attraversa tutti, nessuno escluso”.

Il suo nuovo romanzo riesce a farsi contaminare, arricchendosene, da elementi di diversi generi narrativi, senza volersi necessariamente identificare in uno di questi. È una caratteristica che rispecchia letture molto diverse tra loro, o ha dei filoni letterari che sente più vicini?
“Entrambe le cose: da un lato letture molto diverse tra loro, dall’altro, però, la rilettura costante degli stessi autori, soprattutto quelli che hanno guardato ai lati e non al centro, quelli che si sono fermati nelle province dove pare che non succeda nulla e invece no, succede ogni cosa, nel bene come nel male”.

I suoi libri sono pubblicati e apprezzati all’estero (il suo La vita felice, nel 2018, è stato nella classifica dei libri più venduti in Gran Bretagna) e lei è una docente della Holden: quali sono le tendenze che più la incuriosiscono, colpiscono, nella narrativa contemporanea?
“Il racconto di esperienze personali nella sua espressione più alta, e cioè più letteraria e insieme umanamente toccante. Penso a certi libri di Emmanuel Carrère, a I colpevoli di Andrea Pomella, a L’educazione di Tara Westover. Ma soprattutto, in questo momento, l’eccezionale vitalità della letteratura italiana, con le storie che ci scorrono dentro: Paolo Giordano, Rosella Postorino, Marco Missiroli, Nadia Terranova, Teresa Ciabatti, Claudia Durastanti… C’è davvero molto da festeggiare”.

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