Da “Il padrino” di Francis Ford Coppola (“un film natalizio che si guarda tra un cannolo e l’altro”) ai Soprano, passando per Don DeLillo. Senza dimenticare Rudy Giuliani e Andrew Cuomo, e le polemiche su Cristoforo Colombo: su ilLibraio.it la riflessione della scrittrice Claudia Durastanti dal nuovo numero della rivista “Cose Spiegate bene”, dedicato alle elezioni presidenziali statunitensi

Nel 2022 Il padrino di Francis Ford Coppola ha fatto cinquant’anni, e anche se sono cambiate molte cose in chi si sente e riconosce come italoamericano, un fenomeno è rimasto indiscusso: nelle famiglie americane di origini italiane Il padrino è un film natalizio che si guarda tra un cannolo e l’altro. Una specie di Love Actually fatto di sparatorie invece che di tradimenti o ricongiungimenti romantici all’aeroporto.

Ho ribadito questo concetto davanti a un gruppo di studenti di Italian American Studies, una materia che resta vivace per la sua capacità di ibridarsi con altre discipline, dalla traduzione agli studi postcoloniali, a differenza di dipartimenti di Italianistica che negli Stati Uniti faticano a trovare iscritti. Loro mi hanno fissato alquanto smarriti. Ma è vero: per me, come per tante persone con cui mi sono confrontata negli anni per capire cosa è rimasto dei nostri accenti e della nostalgia verso un certo familismo romantico, Il padrino non è mai stato un capolavoro e neanche un film retorico, tossico e machista, ma una cosa che si guardava a Natale insieme ai nonni.

Il fatto è che pochi di quegli studenti provengono da famiglie italoamericane come la mia, oggi: sono ragazze e ragazzi di ascendenza latinoamericana o asiatica, e più che a Marlon Brando e a Mario Puzo pensano ad Antonio Gramsci e a Silvia Federici, quando decidono di iscriversi a Italian American Studies. Oppure a Ocean Vuong, che nel suo romanzo Brevemente risplendiamo sulla terra racconta di aver seguito un corso di Letteratura italoamericana al Brooklyn College e di essersi imbattuto in Cristo fra i muratori di Pietro Di Donato, un classico del 1939 incentrato sulla piccola epica operaia di alcuni migranti italiani.

Per chi appartiene a linee migratorie più recenti, l’arrivo degli italiani negli Stati Uniti rappresenta un mito fondativo in cui provare a riconoscersi, a furia di film e di romanzi. Sarà una storia che io e i miei simili ci siamo raccontati o ci siamo fatti raccontare per trovare un posto più comodo al mondo, ma sta di fatto che la migrazione degli italiani negli Stati Uniti ha lottato duramente contro quella irlandese per imporsi come la madre di tutte le migrazioni e alla fine ha vinto: perché più povera, più sporca, più romantica, ma anche più politicizzata e in fondo più sexy. Eppure anche da queste parti le cose non vanno più come prima e si abbattono le statue di un passato polveroso e patriarcale: oggi nessuno ha voglia di vantarsi che Cristoforo Colombo era italiano e neanche di ricordare quanto sia stato bravo il governatore Andrew Cuomo durante i giorni della pandemia, quando si è imposto come il vero presidente della nazione con i suoi dispacci giornalieri, mentre Donald Trump ci invitava a bere la candeggina. A dire il vero, mentre Colombo è stato pienamente abbattuto perché colonialista e razzista, Cuomo ha avuto qualche difensore in più dopo gli scandali legati al metoo che lo hanno destituito tra il 2020 e il 2021.

Una sera ero da Bamonte a Williamsburg, uno di quei ristoranti che provano a difendere un’idea di italianità rimasticata dai Soprano, dove i clienti fingono di ignorare i camerieri messicani per illudersi che sia un posto frequentato da allibratori e amici di Martin Scorsese, e ho sentito un signore a un tavolo accanto dichiarare con una certa spavalderia che Cuomo sarebbe tornato presto: non si poteva punire «un vecchio signore italiano solo perché era troppo affettuoso».

Il signore aveva torto, si poteva. Già, ma quante volte lo avevo fatto io? Prima di sviluppare una coscienza femminista e di ammettere che sì, Il padrino è pieno di problemi, i Soprano sono pieni di problemi, per non parlare della scena dello stupro in C’era una volta in America, non sono sicura di aver punito i vecchi signori che frequentavano la casa di mio nonno o tutti gli ambigui zii acquisiti per le loro battute inopportune e gli abbracci troppo calorosi. Era una cosa che veniva con la cultura. Andavano tollerati. E ammetto che persino dinanzi allo scandalo sulle molestie di Andrew Cuomo una parte di me ha avvertito una fastidiosa forma di protezione verso uomini come lui, che appartengono a una fascia anagrafica morente e sulla soglia della sparizione. Uomini con una spavalderia ridicola che non li ha salvati dalle malattie, dalla bancarotta o dall’essere dimenticati. Non l’ho mai detto ad alta voce o messo per iscritto, ma so che nel valutare l’operato di Cuomo non sono stata immune da una specie di indulgenza: è un piccolo obolo che verso per un mondo che non frequenterò mai più, che non è più statisticamente rilevante e che adesso somiglia più all’italianità residua e superficiale di Carmen Berzatto, lo chef quasi anaffettivo della serie The Bear. The Bear è l’ultima manifestazione di successo dell’italoamericanità, ma non ne fa un motivo centrale o identitario. C’è uno zio che presta dei soldi al protagonista per tenere in piedi un ristorante e ha degli ovvi legami criminali, ma è una circostanza bonaria, non preoccupante, un residuo di «intelligenza da strada» di cui quasi non c’è più bisogno: in The Bear si parla di fine dining, non di teste di cavallo da far trovare nei letti. E Carmen Berzatto dirà pure «brasciol’» con l’intonazione giusta, ma sembra pronto a perdere gli accenti.

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Questa diluizione di identità è quasi una salvezza, tanto da far sperare che i tempi siano maturi per superare un altro dei pilastri dell’identità italoamericana nella cultura di massa: e cioè l’idea che dopo aver tanto trafficato, guadagnato e risalito la scala sociale, la maggior parte degli italoamericani diventa inevitabilmente Repubblicana. Pure Andrew Cuomo, anche se in quota Democratica, era Repubblicano nella sua retorica da padre di famiglia col giubbotto di pelle ma dal cuore tenero. Bill de Blasio, il penultimo sindaco di New York, è di origini italiane quel tanto che basterebbe per parlarne sul palco del Festival di Sanremo, e non ha manifestato una grande personalità politica. Un italoamericano non Repubblicano era George Moscone, il sindaco di San Francisco che venne ucciso contemporaneamente all’attivista per i diritti degli omosessuali Harvey Milk nel 1978, ma il suo destino personale ne ha occultato quello politico. La lotta è stata impari ed è andata a vantaggio dei loschi figuri che rivendicano le proprie origini italiane come garanzia di autenticità e di attaccamento ai valori tradizionali, salvo dedicarsi ad attività di corruzione. Come Rudy Giuliani.

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Da anni Rudy Giuliani è diventato una nemesi per la parte di me che coltiva la fantasia di scrivere il ritratto romanzesco di una figura politica di spicco. Una fantasia sostenuta da un mio amico convinto che io debba scrivere la mia brutta copia di Libra, il capolavoro di Don DeLillo dedicato a Lee Oswald e all’assassinio di JFK, basandomi completamente su Rudy Giuliani, come figura chiave per raccontare cosa diamine è successo agli Stati Uniti dagli anni Novanta in poi. La storia c’è tutta: il ripulitore delle strade dal crimine, l’indipendente diventato Repubblicano più o meno favorevole all’aborto, il padre della nazione e uomo dell’anno in seguito all’11 settembre, il declino come avvocato di Trump, le frequentazioni ambigue, la tinta dei capelli che gli cola sul viso, la disastrosa conferenza stampa davanti a un negozio di giardinaggio il giorno in cui la gang di Trump ha perso le elezioni. Le credenziali le avrei tutte, in teoria: un po’ italoamericana, femminista, pronta a prendere congedo da tutto quello che veniva con una cultura e a sbarazzarmi della mia fastidiosa indulgenza. Per ogni autrice o autore che si vuole «fingere» italoamericano (ormai si tratta quasi solo di finzione, per me) o continuare a raccontare i sogni sbiaditi di quella identità, c’è un romanziere che invece vuole affrancarsene: nel mondo letterario è nota la riluttanza di Don DeLillo a farsi ascrivere alla piccola comunità degli autori italoamericani. DeLillo ha sempre sostenuto di essere un romanziere americano senza troppe contaminazioni etniche o preoccupazioni parrocchiali. Nel mondo letterario si sa anche che DeLillo non ama rilasciare interviste o fare presentazioni dei suoi libri, ma all’epoca dell’uscita l’editore gli versò un anticipo stellare per Underworld e lo costrinse a fare qualche evento. DeLillo si prestò alla cosa, ma disse che avrebbe letto e basta. E quali pagine di Underworld scelse per l’occasione? Solo quelle che parlavano della sua infanzia italoamericana nel Bronx, ovviamente.

L’ultima volta che ho festeggiato il Natale negli Stati Uniti non ho visto Il padrino, ma sono andata a fare hot yoga dopo essermi mangiata un cannolo da due chili, e mentre sudavo e faticavo a tenere la posizione mi sono messa a ridere e ho pensato che se fossi una delle protagoniste dei Soprano oggi morirei così: non per un crimine o un atto passionale, ma per un semplice, comune e banale infarto americano.

COSE Spiegate bene elezioni usa

IL NUOVO NUMERO LIBRO-RIVISTA  – Cose Spiegate bene è la rivista di carta del Post, il giornale online nato nel 2010, realizzata in collaborazione con Iperborea. Ogni numero è dedicato a un argomento, per raccontare come funziona, di cosa si parla, quali sono le Cose da sapere e che spesso vengono date per scontate. L’ultimo numero, dal titolo Ogni quattro anni, è dedicato alle elezioni presidenziali statunitensi: mezzo mondo comincia a parlarne mesi e mesi prima, ripetendo regole e procedure che non si capiscono mai abbastanza, e descrivendo contesti che cambiano di continuo. Ci sono quindi molte cose utili da conoscere, perché si tratta ancora, piaccia o no, dell’elezione del leader più potente del mondo nel paese più potente del mondo. Ma si tratta anche di storie, vite, questioni, che ci sono culturalmente vicinissime anche con un oceano in mezzo: di cui leggiamo sui giornali italiani, ma ormai anche su quelli americani così accessibili, e che vediamo raccontate nei film e nelle serie tv. Con testi di Lucia Annunziata, Marco Cassini, Linus e della redazione del Post.

Missitalia di Claudia Durastanti

L’AUTRICE – A cinque anni dall’acclamato memoir La straniera, Claudia Durastanti – autrice della riflessione tratta dal nuovo numero di Cose, è da poco tornata in libreria, sempre con La Nave di Teseo, con un’opera di fantasia, il romanzo Missitalia: un’avventura di eroine, viaggiatrici audaci dalla Lucania alla Luna e ritorno. L’autrice porta il suo racconto attraverso duecento anni di storia, e lo fa volare mescolandone le prospettive, con una lingua densa. Scrittrice e traduttrice, è anche curatrice editoriale della casa editrice La Tartaruga.

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Fotografia header: Claudia Durastanti, credit: Lorenzo Poli

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