John Steinbeck (1902-1968), autore di “Furore” e “Uomini e topi” e vincitore del Premio Nobel, con i suoi romanzi e reportage ha raccontato la Grande Depressione e la vita dei lavoratori stagionali della California – L’approfondimento sui libri e la vita dello scrittore americano

Scrivere il “grande romanzo americano” è probabilmente il sogno di ogni autore statunitense e se ce n’è uno che lo ha raggiunto, quello è sicuramente John Steinbeck. Vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 1962, Steinbeck è l’autore di Furore, romanzo del 1939 in cui racconta la Grande Depressione attraverso l’epopea di una famiglia che dall’Oklahoma parte verso la California in cerca di lavoro. Una storia densa, articolata, e potente, che racchiude in seicento pagine lo spirito di un paese. In Italia, la vecchia traduzione, fortemente condizionata dalla censura fascista (il romanzo esce nel 1940 per Bompiani), è stata sostituita nel 2013 da quella più aderente all’originale di Sergio Claudio Perroni.

I primi romanzi di John Steinbeck

Ma torniamo al suo autore, John Steinbeck, che in quella California è cresciuto. Precisamente a Salinas, capoluogo di una vallata agricola che ogni anno vedeva il passaggio di centinaia e centinaia di lavoratori stagionali, e dove lo scrittore nasce nel 1902. Affezionato alla sua terra, ma desideroso di successo, Steinbeck si trasferisce per studiare a Stanford con la precisa idea di diventare uno scrittore. Prova a sfondare a New York ma il primo impatto con la città non è dei più fecondi, così si trova costretto a tornare in California. E chissà, forse per i posteri è stata una fortuna, che Steinbeck tornasse a respirare l’aria di casa.

Furore di John Steinbeck

A parte il suo primo romanzo, La santa Rossa (1929), avventura tipicamente stevensoniana di un pirata delle Indie Occidentali, già dai successivi testi diventa chiaro a cosa è rivolto l’interesse di John Steinbeck: gli ultimi della società, impegnati a lavorare la terra della sua California. Quelli raccontati in I pascoli del cielo, del 1932 e Al Dio sconosciuto, dell’anno successivo: non sono ancora i lavoratori stagionali che gli varranno la fortuna della maturità, ma famiglie di contadini, legate comunque da uno stesso tema, quello della rovina, sociale ed economica, causata dal furore della natura e da quello degli uomini.

Uomini e topi e lo studio sui braccianti agricoli

Questi libri, però, sono ancora lontani dal successo che gli verrà conferito da due romanzi brevi, prima, e dal suo grande capolavoro, Furore, poi. I due brevi sono Pian della Tortilla, del 1935, e il celeberrimo Uomini e topi, del 1937 (l’edizione italiana Bompiani vanta una recente traduzione di Michele Mari). Da sottolineare che tutti e tre i titoli sbarcano (e sbancano) a Hollywood sancendo la definitiva fama di Steinbeck anche di fronte a un pubblico più vasto.
Sia Pian della Tortilla sia Uomini e topi raccontano vicende di diseredati, nel primo, dallo stile picaresco, i protagonisti sono discendenti di migranti ispanici, nel secondo Steinbeck tocca finalmente quel tema che tanto lo impegnerà successivamente: la dura esistenza dei lavoratori stagionali, destinati a pellegrinare di piantagione in piantagione, ignoranti, bastonati dalla vita e sottomessi a padroni violenti e privi di qualsivoglia morale.

Michele Mari, Uomini e topi, Steinbeck

L’ambientazione di Uomini e topi e, successivamente, quella di Furore, nascono dallo studio sulle condizioni dei braccianti agricoli fatto da Steinbeck per una serie di articoli, che tuttavia verranno pubblicati solo molto tempo dopo. In questi brevi quadri Steinbeck racconta in modo nitido ma succinto la vita delle famiglie immigrate in California, costrette a vivere in alloggi raffazzonati in mezzo al fango, vittime di malattie, infezioni, denutrizione, e di un altissimo tasso di mortalità infantile. In Italia possiamo trovare questi saggi, accompagnati dalle fotografie di Dorothea Lange, nella raccolta I nomadi (il Saggiatore, 2015).

Furore e la denuncia sociale

Non è dunque mistero che, impressionato dalle condizioni di vita dei suoi concittadini, trattati come bestie e sfruttati fino all’ultimo centesimo, Steinbeck abbia scritto Furore in soli cinque mesi. Si tratta di un’opera monumentale, che sul piano narrativo gioca sulla pura descrizione realista e riuscendo, forse per questo in modo ancora più potente, a muovere la pietà del lettore fin dalle primissime righe. Opera indubbiamente di denuncia, la narrazione di Steinbeck è però fatta di personaggi, quelli della famiglia Joad, a cui si affianca il predicatore Casy, Connie, viscido marito della sorella del protagonista Tom, e una serie di braccianti, proprietari terrieri, poliziotti, e personaggi minori che contribuiscono a un affresco profondamente vivo e veritiero. Furore, sottolinea bene il documentario della BBC John Steinbeck: Voice of America, è un romanzo di mani. Mani che lavorano la terra, mani che costruiscono alloggi e che riparano carri, mani che cucinano, preparano il caffè, mani che picchiano, mani che cullano bambini morenti. E, d’altronde, un grande romanzo sul lavoro non potrebbe che parlare di questo: di mani.

I nomati articoli di Steinbeck, il Saggiatore

Da sottolineare come, in questi stessi anni, esca anche un alto breve romanzo, La battaglia (1936), in cui Steinbeck descrive un disperato sciopero di lavoratori stagionali. Il testo è interessante perché va a toccare un grande rimosso della cultura americana: unico rimasto a difendere la dignità lavorativa dei braccianti è il Partito Comunista (del 2016 è il film, diretto da James Franco, tratto dal romanzo). Forse per questo motivo Steinbeck è sempre stato vittima di un grande malinteso: amico di Roosevelt e favorevole al New Deal, Steinbeck descrive però le dure condizioni di vita degli ultimi. Questo porta a un incessante dibattito sulla sua opera, screditata ora da chi la ritiene eccessivamente ideologica, ora da chi al contrario lo accusa di essere troppo “pop”.

Steinbeck: un ragazzo della “lost generation”

Steinbeck, che affianca all’attività di scrittore quella giornalistica, fa parte, non dimentichiamolo, di quella famosa lost generation dell’entre-deux-guerre. Reporter durante gli anni terribili della Seconda guerra mondiale, Steinbeck è in Europa nel 1943 come inviato del New York Herald Tribune. Un’attitudine a raccontare quanto lo circonda che Steinbeck ha sempre avuto e che viene esplicitata nelle pagine di un altro testo, Diario Russo (sempre Bompiani), resoconto godibilissimo e velatamente ironico del viaggio in Unione Sovietica fatto in compagnia del fotografo Robert Capa. Per esempio quando Steinbeck racconta l’incontro di lui e Capa con Karaganov, funzionario del VOKS, l’ente che si occupava dei rapporti tra gli operatori culturali sovietici e quelli stranieri. Qui, i due americani ribadiscono che non vogliono dare una visione politica della Russia ma, semplicemente, raccontare quello che vedono, nel modo più sincero possibile. Certo, esprimendo anche accordo o disaccordo, ma solo in relazione a quanto sperimentato personalmente.

Diario Russo, di Steinbeck con Robert Capa

Certo ormai Steinbeck può permettersi il lusso di dire tutto quello che pensa sia della Russia comunista, sia della società americana. Cosa che, peraltro, ha sempre fatto anche quando sembrava un azzardo. Su questa linea si assestano anche le opere dell’ultimo periodo della sua vita, dalla Valle dell’Eden, del 1952, in cui Steinbeck torna al grande affresco umano e famigliare (anche da questo romanzo è stato tratto un film, in questo caso con James Dean protagonista), a L’inverno del nostro scontento (1961), espressione di una profonda disillusione nei confronti della contemporaneità.

Steinbeck muore relativamente giovane, nel 1968, dopo aver vissuto la vita piena della generazione perduta, così profondamente radicata nella grande Storia, ed esserne stato uno degli assoluti cantori. E se c’è una cosa che l’opera di Steinbeck insegna, forse, è proprio questa: l’insopprimibile legame tra l’uomo e i processi storici ed economici di cui è al contempo il primo fautore e la prima vittima.

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