Non si sfugge al Kitsch, scriveva Gillo Dorfles (1910-2018) nel 1968, e non si sfugge oggi più che mai. Rileggere la sua “Antologia del cattivo gusto” fa ripensare a “Fratelli d’Italia” di Alberto Arbasino (nessun’altra opera, del resto, mette quella nuova borghesia che sguazza nel cattivo gusto) e fa riflettere sulla difficoltà di definire, ieri come oggi, questa “non-arte”, “sub-arte”, “pseudo-arte” che caratterizzava il “pasto” della borghesia trionfante…
A sfogliare molte pagine di Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino si incontrano spesso personaggi in visita a mostre, esposizioni, palazzi, in cui le donne (le “gentildonne dal profilo canino o cavallino”) si chiamano tutte Fiammetta o Ginevra o Nicolina, indossano tutte “gioielli falsi uso Dior comprati dal tabaccaio”, si muovono, insieme con gli uomini che non fanno eccezione, fra gran bazar di accozzaglie, dove fra un “Michelangelo giovane, magari neanche vero” e vagonate di Fragonard, si trovano “lacche, lezii, graziette, servette, cuffiette, reverenze, mani sui fianchi cornici dorate, vetri soffiati, lustres che sberlùccicano, divani da pòrtego, ciàcole, conterie, cicciccì e Bucintori…”.
Forse in nessun’opera di quegli anni – forse in nessuna opera – si trova così tanto Kitsch come in quella di Arbasino, in nessuna se ne fa così tanto esperienza, mettendo in scena quella nuova borghesia (la classe agiata di cui parlava Veblen e che, in fondo, aveva già raccontato Proust) che sguazza nel Kitsch.
Negli stessi anni in cui esce la prima versione di Fratelli d’Italia, quasi a voler creare una galleria visiva di tante immagini arbasiniane, Gillo Dorfles pubblica Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto (appena riedita in una nuova veste da Bompiani), che farà storia in Italia e determinerà la fortuna di un termine pressoché ignoto fuori dai paesi di lingua tedesca.
Quella di Dorfles è una grande, e fondamentale, ricognizione del Kitsch, di cui, attraverso anche i saggi di importanti studiosi sul tema (come, tra gli altri, Hermann Broch, Clement Greenberg, John McHale), se ne indagano le declinazioni e le cause storiche nel grande bacino di quella che oggi diremmo la cultura visuale della modernità.
Dorfles organizza questa vasta antologia in sezione tematiche, che davvero coprono le grandi questioni della vita moderna: il mito, i monumenti, gli adattamenti, la politica, la famiglia, la morte, il turismo, la religione, il cinema, il porno, l’architettura e la tradizione. E, tuttavia, a sfogliare questo museo in formato libro, in vano si troverebbe una definizione di Kitsch: il Kitsch è il cattivo gusto, certo, è una specie “non-arte”, “sub-arte”, “pseudo-arte” che caratterizzava il “pasto” della borghesia trionfante, complica la distinzione fra artistico e non-artistico, esonda nella sfera etica in quanto “forma di cattivo gusto che non colpisce tanto la creazione artistica quanto il costume e l’atteggiamento morale, ma che necessariamente viene a ‘stringere’ anche su tutto ciò che di artistico o pseudoartistico gli si affianchi”. Il Kitsch è il sentimentalismo, non il sentimento. E tuttavia una definizione di Kitsch non è data: il Kitsch si fa e, soprattutto, si vede, ma apparentemente non si dice.
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Questa apparente reticenza è data dalla difficoltà di inquadrare un fenomeno così complesso e stratificato e, soprattutto, effimero, in continuo cambiamento e non ancorato e dei dettagli stabili: un oggetto può diventare Kitsch, anche se non nasce come tale: se i nanetti da giardino (che per fortuna non vediamo più così spesso) nascono Kitsch, la Monna Lisa lo diventa, da quanto inizia a essere stampata sulle tende da doccia, sulle confezioni di formaggio, sui grembiuli.
Questo processo, lo mostra bene Dorfles, non investe solo l’arte, ma ogni aspetto della vita di quello che Broch definiva l’“uomo-Kitsch”: dalla politica alla vita quotidiana in famiglia, i rapporti più “sacri”, scrive Dorfles, sono ridotti “il più delle volte a dei rituali aberranti.
Dall’albero di Natale al Presepio da St. Nikolaus a Halloween, alla Befana, è tutto un rosario di festività legate a un corteo d’immagini che raramente si salvano dalla morsa del Kitsch” – e tutto questo, oggi, impallidisce davanti all’altare nostro contemporaneo del Kitsch: il Gender Reveal Party. Neanche la morte sfugge a questo processo, e viene così addomesticata, mimetizzata, contraffatta, kitschizzata: e davvero basti fare una passeggiata al Cimitero Monumentale di Milano per notare quanto inconsapevolmente comico il Kitsch funebre può essere.
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È evidente, leggendo le pagine di questa Antologia del cattivo gusto, il giudizio negativo che emerge dalle pagine di Dorfles, ma se il grembiule con il corpo del David di Michelangelo è irredimibile, e di certo Kitsch vorremo felicemente sbarazzarci, a sfogliare oggi Il Kitsch, con un sottofondo di quella “retromania” (per riprendere il titolo di un fortunato saggio di Simon Reynolds) che così tanto caratterizza la nostra epoca, si ha l’impressione di avere fra le mani una vera Wunderkammer, di immagini certamente non artistiche in senso tradizionale, non belle, ma assolutamente affascinanti.
Un museo, più che un antologia, che continuiamo, oggi, a attraversare con meraviglia. Perché il Kitsch dei nostri anni è un altro, e quello del passato rientra dalla finestra musealizzato, idealizzato, rivalorizzato in quanto perduto: non si sfugge al Kitsch, scriveva Dorfles nel 1968, e non si sfugge oggi più che mai.
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