“La prima pietra” di Pierre Jourde è un romanzo autobiografico che racconta il conflitto aperto tra uno scrittore e il villaggio di cui ha scelto di raccontare la storia. Una riflessione sul potere della letteratura, sul rapporto tra questa e le vite degli uomini e, insieme, un atto d’amore per un luogo ancestrale, lontano dalle nostre città e pieno di luci e ombre…

Uno scrittore racconta una storia, una storia che conosce da vicino. Scrive di un villaggio remoto in una Francia forse ancora un po’ preistorica, un paese dell’Alvernia dove lui è cresciuto e nel quale le vicende della sua famiglia si sono intrecciate alle altre del villaggio. Parla delle luci e delle ombre di quel luogo, delle vite così lontane da quelle della città, legate a un altro tempo, a un altro rapporto con gli spazi, i luoghi e le persone.

Lo scrittore ama quel villaggio visceralmente ma non fa sconti, non cerca la rappresentazione di una purezza incontaminata. Parla anche delle profonde solitudini e delle consuetudini ancestrali che governano il paese e i suoi abitanti; ma il suo è prima di tutto un omaggio, un atto d’amore. Racconta questa storia, la pubblica, e per quasi tutta la gente del luogo diventa un nemico. Il bugiardo, il profanatore, quello che ha gettato fango sul posto dove è cresciuto. L’uomo da odiare, da bandire per sempre. Com’è possibile?

La prima pietra Pierre Jourde

La prima pietra di Pierre Jourde, edito da Preistorica Editore e tradotto da Silvia Turato, è nello stesso momento il romanzo di una vicenda vissuta in prima persona dallo scrittore e una riflessione sulla letteratura, sul suo rapporto con la vita reale e, ancora una volta e nonostante tutto l’evocazione piena di affetto per lo stesso villaggio raccontato nel libro precedente, Paese perduto.

Tutto ruota intorno al tentativo di linciaggio che Jourde subisce quando, dopo l’uscita del libro, sfida l’ostilità degli abitanti del paesino e decide di tornarci per le vacanze. Quel giorno viene circondato, prima minacciato e poi aggredito con un lancio di pietre che feriscono anche il suo figlio più piccolo. Jourde risponde, colpendo a sua volta.

Ma se quell’episodio è il punto di partenza, il libro è nei fatti un tentativo di capire perché quegli uomini e quelle donne si siano sentiti così offesi e oltraggiati dal fatto che qualcuno abbia voluto raccontare le loro storie. Uno scavo nel quale l’autore, senza mai giustificare né perdonare ciò che ha subito, non risparmia però nemmeno se stesso. Lui non intendeva fare del male a nessuno. Ma quest’incomprensione ha dato frutti tanto crudeli, giungendo fino a un tribunale e separando un uomo da un luogo che sentiva e sente suo. Chi ha scagliato la prima pietra?

Rievocando atmosfere tanto affascinanti quanto a volte cupe e opprimenti, Jourde riflette anche sul potere della letteratura, che è tanto capace di “opporre, a qualsiasi finzione rudimentale, la complessità del reale” quanto di far parlare degli “io” che possono cristallizzare le persone reali in figure nelle quali queste non si riconoscono.

Gli uomini in carne e ossa finiscono per sentirsi deformati o ridicolizzati da un Soggetto onnipotente come lo scrittore. Per questo Jourde sceglie consapevolmente di fare una narrazione autobiografica utilizzando la seconda persona singolare, di parlare a sé stesso, mettendosi anche lui nella condizione di soggetto agito dal romanzo. “Il libro è questo nemico. Non lascia riserva. Tutto l’’io’ l’ha rubato, lo prende ai suoi personaggi per attribuirselo. (…) E l’autore, sulla soglia che da accesso a questa storia violenta, ha deciso di dirsi “tu”. L’ha deciso, proprio qui, nel momento di scrivere, poiché gli sembra troppo difficile portare ancora questa persona di cui non sa più come liberarsi”.

La prima pietra è però anche un romanzo sui segreti, sul peso che possono avere in una piccola comunità così chiusa e legata ai propri riti, a un collante antico che può diventare feroce. Segreti che non andavano detti o forse non così, non in un libro. Ma Jourde rifiuta anche ogni facile contrapposizione tra il cittadino colto e moderno e la brutalità grezza dei non-civilizzati. Non è ignoranza quella che ha portato gli uomini e le donne del suo paese a odiarlo, ma l’urto tra una differenza di codici di comportamento e di comunicazione. Un meccanismo che il romanzo cerca di indagare con una profonda partecipazione, quella di chi quei luoghi li ha abitati, li conosce, vi è legato indissolubilmente da radici forti. Senza perdere mai l’equilibrio e scivolare nella raffigurazione compiaciuta dei selvaggi, buoni o cattivi che siano.

E su tutto, in questo libro resta l’amore per quel paese sperduto dell’Alvernia le cui vite sembrano così distanti dalle nostre. Un amore sincero e proprio per questo tormentato, che sa vedere le oscurità di ciò che ama, che non ha timore di illuminarne le deformità. L’alcool, la solitudine, il dolore seppellito. Non c’è traccia di idillio nelle parole di Jourde, ma un trasporto sincero, reso ancora più doloroso dalla consapevolezza del fossato che, dopo la pubblicazione del primo libro, si è aperto tra lui e quella gente, che ora non lo considera più uno del posto, che dopo la violenza esplicita è passata ad isolarlo con indifferenza ostentata. Ma Pierre Jourde continua a tornare in quei luoghi, tanto fisicamente quanto con le parole, spinto dall’impellenza di raccontarli e da un richiamo potente. “A volte, nel tuo fantasticare, attraverserai la pietra, andrai a mischiarti ai corpi granulosi dei vecchi muri, ti mescolerai alla sostanza nodosa degli alberi (…) cercherai nella notte la luce dei lunghi pomeriggi senza fine, scenderai per i vicoli scoscesi, verso la chiesa, verso gli abbeveratosi, sarai sempre lì, loro malgrado, a casa tua“.

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