“La versione di Barney” di Mordecai Richler è un irriverente viaggio tra i ricordi di uno dei personaggi più iconici della letteratura contemporanea, che ha fatto della sua “scorrettezza” un vero e proprio marchio di fabbrica. Ripercorriamo la vita e gli scritti del “linguacciuto ebreo canadese”, che ritroviamo nelle prime pagine intento a impugnare con fervore la sua penna per difendersi da un’accusa di omicidio…

“Tutta colpa di Terry. È lui il mio sassolino nella scarpa. E se proprio devo essere sincero, è per togliermelo che ho deciso di cacciarmi in questo casino, cioè di raccontare la vera storia della mia vita dissipata”.

Raccontare tutta la verità, solo e soltanto la verità, come un improbabile e inoppugnabile fact checker della propria caotica e dissoluta esistenza. Questo il ferreo intento – esplicitato a lettrici e lettori già dall’incipit riportato qui sopra – di Barney Panofsky, insofferente protagonista de La versione di Barney, romanzo dello scrittore canadese Mordecai Richler (1931-2001) pubblicato nel 1997 ed edito in Italia da Adelphi, con la traduzione di Matteo Codignola (e da cui è stato tratto un film del 2010 con Dustin Hoffman e Paul Giamatti).

Un irriverente viaggio tra i ricordi di uno dei personaggi più iconici della letteratura contemporanea, che ha fatto della “scorrettezza” un marchio di fabbrica.

La versione di Barney di Mordecai Richler

Il “linguacciuto ebreo canadese” – tra un buon whisky e un Montecristo – esordisce nelle prime pagine del romanzo impugnando con fervore la sua penna/spada per difendersi da un’accusa di omicidio, vera e propria “ciliegina sulla torta” dopo una lunga serie di calunnie diffuse – a detta sua – dall’arcinemico Terry McIver.

Ormai più che sessantenne, il protagonista decide infatti di scrivere sotto forma di racconto autobiografico tutta la sua vita, dai disordinati primordi alla sua versione dei fatti in merito alla morte del chiassoso amico Bernard “Boogie” Moscovitch, additatagli ferocemente dallo scrittore (ed ex compagno di uscite parigine) McIver nel libro Il tempo, le febbri.

Barney rivanga così nel proprio dissoluto passato: dal quartiere ebraico di Montreal alla Parigi dei primi anni Cinquanta (dove voleva incarnare il ruolo del fascinoso scrittore americano in terra europea). Poi nuovamente il Canada, dove le idee per un business di successo, sogno ad occhi aperti di una sconclusionata giovinezza, si realizzano sotto forma di sitcom tanto popolari quanto redditizie, grazie anche a una società di produzione che si chiama – con un immancabile piglio ironico e a tratti demenziale – Totally Unnecessary Productions.

E tra le avventure mondane del nostro scorretto protagonista non possono di certo mancare le vampe amorose. Il romanzo, infatti, si presenta con una struttura tripartita, dove ogni sezione identifica la relazione del narratore con una delle tre mogli. Dalla bella e lunatica pittrice Clara, evanescente artista morta suicida nella capitale francese, alla ciarliera e rumorosa “seconda signora Panofsky”, un’ereditiera senza nome che il narratore sposa senza troppa convinzione…

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Fino ad arrivare alla sagace Miriam, vero grande amore di Barney, “musa” che al momento del racconto lo ha appena lasciato e con la quale ha avuto tre figli: Michael, lavoratore pragmatico che redige ordinatamente le memorie del padre (il primogenito multimiliardario, “ricco da far schifo”); Saul, giovane ribelle con l’allure dell’artista maledetto (“perennemente insoddisfatto, acido e caustico”); Kate, la cocca di papà, sempre pronta a ricevere un’insofferente chiamata di Barney nel cuore della notte.

Un viaggio a ritroso nella vita del “collezionista di rancori” (così come la stessa Miriam lo aveva definito). Un ebbro memoir (in linea dunque con la morning routine del beone Panofsky, tutt’altro che instagrammabile: “Ebbro? Intendi sbronzo? Ovvio che sono sbronzo. Sono le quattro del mattino”) che ad ogni pagina diventa sempre più confuso, intrecciando presente e passato in un miscuglio spesso e volentieri senza capo né coda.

Barney, portando avanti la sua versione più o meno distorta della realtà, incarna per lettrici e lettori il ruolo di narratore inaffidabile, raccontando una storia in bilico tra verità e menzogna, in maniera non sempre consapevole.

Una serie di flashback disordinati (e talvolta disorientati) raccolti in un apposito volume di memorie postume, corredato da note a piè pagina e correzioni del figlio Mike, oltre che da un ricco poscritto che svela il grande male che aveva corrotto definitivamente i ricordi e la scrittura del protagonista: la malattia di Alzheimer. Un morbo che obnubila il lavoro dell’autore, vero e proprio quadro impressionista che, nonostante da lontano appaia coeso e coerente, da distanza ravvicinata svela gli immancabili punti d’ombra di una vita dissoluta.

Ed è proprio in queste macchie che lettrici e lettori possono ritrovare la grandezza di un personaggio ferocemente e perfettamente umano, capace di mettere a nudo abietti istinti e pensieri repulsivi. Un uomo che non si maschera dietro a vuote manifestazioni di virtù, che “spara a zero” senza troppe reticenze per dire la sua su un mondo che a bruttura e meschinità se la gioca tanto quanto lui.

Ma non dipingiamo il nostro eroe (o antieroe) in maniera più turpe e spregevole di quello che effettivamente è. Del resto, a raccontare la sua vita ci riesce in maniera impeccabilmente claudicante anche da solo e, in mezzo a questa cloaca di scorrettezza e noncuranza, ci tiene anche a segnalare i sani valori che lo animano: “Ho anch’io i miei principi. Non ho mai venduto armi, droga o cibi dietetici”.

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