“Quando gli adulti scrivono per gli adulti con voci di bambini, se ricordano cosa vuol dire essere bambini, se ne hanno una nostalgia non edulcorata ma reale, concreta, spietata anche, come sono le nostalgie quando non fermentano di passioni tristi ma rimangono sani dolori mai mortali, allora può anche capitare un miracolo. Può capitare che un libro scritto da un adulto con voce di bambino abbia la grazia che serve per creare l’incantesimo…”. Su ilLibraio.it la riflessione della scrittrice Ilaria Gaspari, che passa per testi come “Una bambina da non frequentare” di Irmgard Keun e “La vita davanti a sé” di Romain Gary

Libri salvati dai ragazzini

Ci sono libri scritti da adulti che parlano con voci di bambini: qualche volta, sono vocette che suonano a vuoto, sono pretestuose, contraffatte. Questo succede quando i grandi scimmiottano le voci dei bambini con la condiscendenza manierata che nasce da un fraintendimento diffuso di quello che è l’infanzia: dall’equazione fallace che la equipara all’innocenza, o a una spensieratezza immacolata e inerme.

Ma l’infanzia non è la pura età dell’oro che credono quelli che si sono scordati cosa voglia dire essere bambini, quelli che ai bambini parlano come se non capissero niente. Non c’è bisogno di fare le vocine, per parlare come bambini: i bambini non hanno il birignao, e non sono scemi. Vanno protetti, ma non preservati dal mondo: perché l’infanzia non è una malattia né uno stato di debolezza.

Non bisogna dimenticarsi, quando si parla ai bambini, quanto drammaticamente seria sia un’attività come giocare. E scrivere, in qualche modo, somiglia a giocare; è un’attività serissima e insieme esilarante, perfettamente inutile ed essenziale. È un passatempo che ferma il tempo, una fuga a gambe levate dalla realtà che permette di capire il mondo, che ti riconcilia con le schifezze, ti fa ridere, ti fa piangere, ti scompone e poi ti ricompone. Quando gli adulti scrivono per gli adulti con voci di bambini, se ricordano cosa vuol dire essere bambini, se ne hanno una nostalgia non edulcorata ma reale, concreta, spietata anche, come sono le nostalgie quando non fermentano di passioni tristi ma rimangono sani dolori mai mortali, allora può anche capitare un miracolo. Può capitare che un libro scritto da un adulto con voce di bambino abbia la grazia che serve per creare l’incantesimo. Per far entrare chi legge in un mondo infantile che è perfettamente sospeso alle spalle di quello dei grandi. 

Libri così scatenano in chi li legge un senso strano di libertà, addirittura di anarchia. Leggerli è come fare una corsa, infischiarsene di uno strappo nella calza, come perdere sangue dal naso e far finta di essere eroici e che sia una cosa bella, anziché fiondarsi a cercare su google le possibili malattie associate all’epistassi; è come dimenticarsi la morte sapendo che esiste, giocare ai pirati con la certezza che non ci sia nulla di irreparabile nello sguainare una sciabola immaginaria nel duello con l’acerrimo nemico. È come stare sotto il tavolo al pranzo di Natale, sentire i discorsi degli adulti che arrivano da una lontananza incredibile, oltre la tovaglia, oltre le briciole di panettone, e rimanersene lì, invisibili e sicuri, fra i piedi che calzano scarpe di numeri impensabili, fra i lacci i tacchi e le fibbie e le calze di nylon, di filo di Scozia, di lana e di pizzo, nella penombra che profuma di mandarini, e ignorare completamente i grandi, cogliendo solo qualche parola qua e là, distrattamente, come si colgono le ciliegie a giugno.

Ogni volta che inciampo in uno di questi libri, peraltro molto rari, mi domando quale sia il loro segreto: perché, è evidente, devono avere un segreto. Di recente mi è capitato con il libro di una scrittrice tedesca che amo molto, Irmgard Keun. In lei mi ero imbattuta la prima volta un annetto fa, leggendo la bella traduzione d’autore (Vins Gallico, che la curò per L’Orma, è a sua volta uno scrittore) di Doris, la ragazza misto seta, romanzo scintillante e spensierato che la consacrò al successo nella Germania del 1932, appena una manciata di mesi prima che quei barbari dei nazisti la bollassero come scrittrice degenerata di “letteratura nociva e inopportuna” e confiscassero i suoi libri.

Ora, sempre per L’Orma (che nel 2016 ha pubblicato anche il primo romanzo di Keun, Gilgi, una di noi) esce Una bambina da non frequentare. È un libro incantevole, con una protagonista tanto nociva e inopportuna che fin dalle primissime pagine è impossibile non innamorarsi di lei: una bambina pestifera e insofferente all’autorità che vive a Colonia con mamma, papà, una zia zitella e, da un certo momento in poi, un fratellino nuovo di zecca, mentre al fronte, vicinissima e lontana come tutti i presagi davvero sinistri, infuria la prima Guerra mondiale. Questa bambina ribelle, insolente, disperatamente buona nelle intenzioni e pasticciona nelle azioni (proprio come Gian Burrasca) si presenta come una vera masnadiera, è amica dei monelli del quartiere: si potrebbe dire che è un maschiaccio se non fosse che sicuramente lei si indignerebbe, e a ragione, e con grande lucidità, di fronte a una definizione così riduttiva (“Le ragazze sono femmine. Dallo studio delle scienze so che gli animali che apportano qualcosa di importante sono sempre femmine. Sono le femmine a fare i cuccioli, ad allattare, a deporre le uova. I galli sono maschi e oltre a essere colorati, a fare chicchirichì e a strappare con cattiveria le piume alle galline non servono a niente. Insomma, tra gli animali funziona tutto molto meglio“.). Ha una nemica giurata che bersaglia di scherzi ma a cui in fondo vuole bene, la lingua biforcuta e un cuore pieno di slanci. 

Una bambina da non frequentare

Keun scrisse questo libro in un momento che posso solo immaginare amaro: dopo aver conosciuto un rapido successo con Gilgi e Doris, nel 1933 ad appena 28 anni era diventata lei la scrittrice da non frequentare, per colpa di una censura rozza e becera che si voleva edificante: si ritrovò esiliata prima ad Ostenda, in Belgio, poi in Olanda, e pubblicò infatti la sua Bambina presso un editore di Amsterdam specializzato in “letteratura d’esilio” germanofona. Avrebbe poi scritto altri libri negli anni del suo amore randagio con Joseph Roth, che li portò a Parigi, a Vilnius, a Vienna, a Bruxelles: fra cui uno, Nach Mitternacht (Dopo mezzanotte, uscito in italiano per Rizzoli oltre trent’anni fa), del 1937, che piacque molto ad Alfred Koestler, racconta esplicitamente il clima politico della Germania nazista.

Nel 1940, forse con l’aiuto di un ufficiale delle SS che, pare, sedotto da lei in Olanda, le avrebbe procurato dei documenti falsi, rientrò segretamente a Colonia; e quel che è curioso è che visse per cinque anni, fino alla fine della guerra, una vita segreta, protetta dal proprio necrologio. Era uscita infatti su vari giornali, fra cui il Daily Telegraph, la falsa notizia della sua morte suicida, e al riparo di quel macabro annuncio certo esagerato, dando prova di un certo humour nero o quantomeno di non essere troppo superstiziosa, Keun visse clandestinamente fino al ’45, nascosta dietro un’altra identità che le permettesse di ammettere di essere ancora viva. 

È una coincidenza bizzarra che un altro libro scritto da un adulto, e per gli adulti, con una voce di bambino altrettanto realistica e vivida di quella della ragazzina infrequentabile, sia opera di un autore che a lungo si nascose anche lui dietro un alter-ego, facendo allegramente cascare molti critici nei suoi tranelli e vincendo addirittura il più prestigioso premio letterario francese, il Goncourt, sotto falso nome. Anzi: lo vinse addirittura schermandosi dietro la figura di un parente, il quale permise che i giornalisti si esaltassero all’idea di aver finalmente scovato, in lui, la vera identità del misterioso autore che firmava Émile Ajar.

Oltretutto, il burattinaio burlone, Romain Gary (che poi in realtà all’anagrafe aveva un terzo nome, Roman Kacew, giusto per aggiungere confusione alla confusione, ed ebbe in vita sua anche diversi altri noms de plume), prese tanto gusto alla baraonda di queste identità plurime da firmare come Émile Ajar un romanzo in cui quello che tutti credevano essere suo nipote, Paul Pavlowich, se la prendeva con uno zio insopportabile in cui era facile riconoscere lo stesso Gary, geniale detrattore dadaista di se stesso.

La vita davanti a sé, che per combinazione torna in libreria proprio in questi giorni per Neri Pozza con le bellissime illustrazioni di Manuele Fior, è il libro eccezionale di uno scrittore dalla vita picaresca. Gary nacque russo, poi fu polacco e poi francese; da soldato, fuggito in aereo da Bordeaux, arrivò a Casablanca e si imbarcò su un cargo fino a Glasgow per unirsi alla Resistenza; intraprese dopo la guerra la carriera diplomatica, e quando si ritrovò console di Francia a Los Angeles sul finire degli anni ’50, conobbe nientemeno che Jean Seberg, la quale era sposata con un altro, ma poco importava: più vecchio di 24 anni, lui la conquistò e la sposò. E quando lei morì suicida, nel ’79, già da un pezzo avevano divorziato; eppure, pochi mesi dopo, fu lui a uccidersi, lasciando uno strano biglietto, strano e commovente e tristissimo, in cui puntualizzava che i patiti di cuori infranti eran pregati di rivolgersi altrove, perché, diceva il biglietto, fra la sua morte e quella di Jean non c’era nessun rapporto.

La vita davanti a sé. Ediz. illustrata

Quello che è bizzarro è che un uomo con una conoscenza tanto intima e avventurosa della vita, uno che era stato soldato, partigiano, diplomatico, marito di una celebrità, e scrittore, col suo nome ma anche col nome di un altro, possa essere così vero, così poco manierato, quando parla con la voce di Momo, il ragazzino della Vita davanti a sé, che ha 14 anni ma crede di averne 10, perché così gli ha detto la vecchia Madame Rosa, grassissima signora che in un palazzo mezzo fatiscente di Belleville, in una strana allegria di sopravvissuti euforici e disperati, cresce una nidiata di bambini non suoi, figli di prostitute che non possono tenerli con sé.  

Io non credo che ci debbano essere per forza dei legami, fra la vita di uno scrittore e i suoi libri; Salgari dalla sua casa in Corso Casale, a Torino, nel suo Borneo magnifico ci arrivava in tram. La biblioteca civica centrale, fra mappe e racconti di viaggio, gli offriva tutto quel che gli serviva per costruire paesaggi lussureggianti, che per quanto non siano dipinti dal vero, non hanno niente di contraffatto. Eppure, mi dico, per quanto il legame fra vita e opera sia labile e restio alle equazioni più piatte, è curioso che Keun e Gary, che con voci di bambini seppero parlare così bene agli adulti, siano stati tutti e due capaci di custodire grossi segreti, che abbiano attraversato vite burrascose, che abbiano preso altre identità: che, in qualche modo, abbiano saputo dimostrare anche vivendo di essere dei guitti, anzi, degli ottimi attori.

Evidentemente, per scrivere da adulti per gli adulti, con voci di bambini non adulterate, aiuta aver visto la vita in faccia, e aver fatto una risata; aiuta sapersi mettere nei panni degli altri, e non guardarli dall’alto in basso con la scusa che sono innocenti e non capiscono. Non bisogna, insomma, cadere nella tentazione di sottovalutare l’infanzia con il pretesto di proteggerla e di esaltarla.

D’altra parte, come dice la bambina di Irmgard Keun, “è così stupido da parte degli adulti credere che i bambini non abbiano preoccupazioni. Dicono sempre: Ah, l’infanzia spensierata, non tornerà più. Ma un bambino ha di certo molte più preoccupazioni di un adulto“.

L’AUTRICE – Ilaria Gasparicollaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ora è la volta di un libro unico nel suo genere, Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno), in cui Gaspari mette in scena una storia d’amore. Ma non solo. Vuole anche, con l’aiuto di filosofi e romanzieri (da Montaigne a Flaubert, da Freud a Simone Weil), tentare di sciogliere i grandi nodi che fanno sembrare complicata la vita amorosa.

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