“Devo immaginare che immagine di me hanno gli altri, perché se non faccio questo sforzo di fantasia, tendo a custodire di me un’immagine scolorita, spenta. Il fatto di non vedere i colori mi induce a pensarmi a mia volta incolore; o peggio, stinto”. Luigi Manconi, in libreria con il memoir “La scomparsa dei colori” (in cui racconta la perdita della vista, soffondendo aneddoti, episodi, piccole epifanie, e ora disponibile anche in audiolibro, letto dall’autore stesso: “Scoprire gli audiolibri per me è stata una via di scampo dal rischio di perdere la letteratura”), si racconta intervistato da Ilaria Gaspari per ilLibraio.it: “Posso definirmi cieco, e vi chiedo di definirmi tale, perché non mi sento né sprezzato, né discriminato da questa definizione; ritengo, forse con un atto di superbia, di avere la forza per affermare la mia condizione senza che questo comporti un interdetto. Non solo: non sono ipovedente, sono cieco, sono proprio cieco. Non mi piace la definizione di non vedente, perché è raro che mi piacciano le definizioni in negativo. Voglio affermare la mia condizione, e a partire da questa condizione dichiarata, nominata, organizzare la mia vita. Il nome è frutto di un’autodeterminazione, il diritto al proprio nome è uno dei diritti fondamentali della persona. Questo è il punto cruciale. A partire dalla mia condizione di cieco voglio avere una relazione paritaria con l’altro…”. Spazio ai ricordi legati all’infanzia e alla giovinezza a Sassari (compresa l’amicizia con Bianca Piztorno), all’arrivo a Milano (“Incontrai Giovanni Raboni, che fu il mio primo datore di lavoro”), alla militanza (prima nel movimento studentesco della Cattolica e poi in Lotta Continua), e per le successive battaglie per i diritti (da anni l’autore si occupa di privazione della libertà, di persone incarcerate): “La mia autonomia, la mia indipendenza, non può fare a meno degli altri…”

Incontro Luigi Manconi nella sua casa romana, nei giorni in cui sta registrando per Salani l’audiolibro de La scomparsa dei colori (Garzanti), il memoir in cui racconta la perdita della vista soffondendo aneddoti, episodi, piccole epifanie, di un’ironia lieve e soave, come le parole che sceglie per raccontarmelo.

“Questa per me è una soddisfazione, – mi risponde Manconi quando gli dico che il libro mi ha colpita. – Anche in ragione della cecità, ma in realtà già da ben prima, ho acquisito una forma patologica, di culto della parola, orale e scritta. Tenevo infinitamente alla scrittura. Pensa che nella mia attività di editorialista per scrivere un articolo ci metto un’ora e mezzo, due: poi ne impiego altre tre o quattro per riscriverlo”.

luigi manconi la scomparsa dei colori

Per scrivere il libro avrà avuto bisogno di tantissimo tempo, quindi?
“L’ho iniziato molto tempo fa. Ho scritto un pezzo, poi ho interrotto per un anno e poi ho cominciato a metterlo a posto: e curiosamente ho notato che il libro segue un suo ordine, che è poi quello che avevo abbozzato all’inizio. Ogni parola, ogni avverbio è stato pesato, pensato. Patologicamente. Ormai questa è una mia caratteristica; anzi, lo ritengo un fatto positivo per me. Io in pubblico parlo come scrivo. Pesando ogni parola, sentendomi… sarà incredibile, ma ormai sono diventato un rèttore. Con due t”.

Alla sarda.
“Io sono un sardo milanese, non un sardo romano”.

Sassarese-milanese, come Bianca Pitzorno.
“Curioso che la citi. Il mio esordio teatrale avvenne con lei”.

Davvero?
“Lei è la più intima amica di mia sorella Paola, che ha 81 anni. Ma quindi lei conosce i suoi libri?”.

Sono cresciuta coi suoi libri, li adoro.
“Conosco un gran numero di signorine che sono cresciute con i suoi libri. Almeno la metà delle mie collaboratrici. Quando vengono a sapere che siamo amici, la vogliono tutte conoscere. Insomma, esordii con un suo testo teatrale che si chiamava Clorofilla”.

Ma certo! Clorofilla dal cielo blu.
“Esatto. Che poi è stato un bestseller. Lei era autrice, regista e attrice, insieme a mia sorella e ad altre fanciulle. C’era bisogno di un uomo, e l’unico che poteva essere coinvolto ero io. Capito?”.

Tutti insieme in scena.
“Già… poi abbiamo avuto destini diversi. Il fulcro di tutto era il Liceo Domenico Alberto Azuni di Sassari. Frequentato da Enrica Bonaccorti ed Enrico Berlinguer, Palmiro Togliatti ed Elisabetta Canalis, Bianca Pitzorno e Luigi Manconi. Fummo scelti, Bianca e io, per far parte della Sezione giovani della giuria locale per il Festival di Sanremo, che all’epoca formulava la classifica attraverso giurie locali. A organizzare, a livello locale, era il più grande insegnante di liceo di tutti i tempi, il nostro professor Bregaglia. Personalità strepitosa, nella giuria voleva due giovani. Votammo insieme Caterina Caselli con Nessuno mi può giudicare”.

Quanti anni avevate?
“Eravamo ragazzini. Era il 1966. Lei ha l’età di mia sorella maggiore, che è ancora la sua migliore amica”.

Ma è bellissimo!
“Eh, ho delle storie che neanche s’immagina. Paola legge 70 libri all’anno. Compensa le medie di quelli che non leggono affatto. Ogni anno passo qualche giorno con lei ad agosto: è micidiale. Va al mare, a 81 anni guida tranquillamente. Poi torna a casa, pranza, il pomeriggio si siede in poltrona e legge fino alla cena delle 8:30. 70 libri contati. Si è organizzata così. Attivissima finché ha potuto, fino a qualche anno fa insegnava nel carcere di Bancali, vicino a Sassari”.

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audiolibro luigi manconi

 

Sua sorella legge 70 libri l’anno, lei ascolta audiolibri in gran quantità.
“La parola scritta è una parola fissa, immobile; non solo rigida, ma in qualche modo univoca. Mi sembra che la lettura a voce alta, tanto più se attoriale, dia la possibilità di cogliere, di quella parola, una molteplicità di tonalità e persino di accezioni. Non è solo questione di tono ma proprio di significati. Dopodiché, c’è poco da fare. Un conto è che questa esperienza sia il frutto di una libera scelta. E un conto è che, come nel mio caso, sia una scelta obbligata. Però scoprire gli audiolibri per me è stata una via di scampo dal rischio di perdere la letteratura. Pensare che per decenni ne ho ignorato l’esistenza! La scoperta degli audiolibri, per me, è avvenuta direi 15 anni fa. Anche se si ricollega in maniera bizzarra ma suggestiva alla mia passione adolescenziale per quei dischi in cui Arnoldo Foà e tanti altri leggevano poesia e teatro. Avevo tutti i libretti, sottili sottili, di quella magnifica collana teatrale di Einaudi che fu un grande fatto culturale nell’Italia di quegli anni. E contemporaneamente compravo questi dischi che erano a metà tra il 33 e il 45 giri, si chiamavano EP. Di dimensioni uguali al 45, ma contenevano un numero assai maggiore di testi. Lì ho ascoltato un indimenticabile García Lorca”.

Lo evoca nel libro, infatti. L’ha riascoltato su un supporto più moderno?
“Sì, in una versione nitida e pulita: non ha la stessa forza. Deve pensare a Sassari, una città di 100.000 abitanti, negli anni ‘60; noi eravamo una singolare élite, un gruppetto di ragazze e ragazzi, per le ragioni più diverse, molto attivi: facevamo tutto. Politica, sport, teatro. Io avevo persino un gruppo musicale. E in quel passaggio cruciale che fu la seconda metà degli anni ’60 eravamo trascinati da tutto ciò che avveniva nel mondo. Trascinati. Eravamo la periferia della periferia, perché l’Italia era a sua volta un paese marginale. Non a caso molti di noi appena concluso il liceo sono andati in continente, come si diceva. A Milano, Pisa, Genova, Bologna. In periferia in qualche modo arrivava tutto, ma era faticoso acquisirlo e faticoso coltivarlo. Quindi molti di noi sentirono il bisogno di cercare altrove, alcuni rimanendo poi in continente, altri tornando dopo la laurea in Sardegna”.

Ha scelto di non tornare?
“Arrivato a Milano, mi innamorai di Milano. Perdutamente. C’ero arrivato con due libri nella valigia”.

Che libri erano?
“La capitale del nord di Giancarlo Majorino e Le case della Vetra di Giovanni Raboni. Difatti ho vissuto sempre in quelle zone. E addirittura incontrai Giovanni Raboni, che fu il mio primo datore di lavoro. C’è un dettaglio singolare, sconosciuto ai più, di cui sono orgogliosissimo: nel Meridiano di Raboni la cronologia della sua vita è fatta da vari autori, e uno di quegli autori sono io”.

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E quale fu questo primo lavoro?
“Lo incontrai in un circolo anarchico, lui aveva simpatie libertarie che condivideva con uno scrittore che si chiamava Giorgio Cesarano, che scrisse il più bel romanzo su quegli anni e dopo qualche tempo si tolse la vita. Il libro si chiama I giorni della rabbia, mi pare, ma non sono sicuro [in realtà si chiama I giorni del dissenso]. Ero stato appena espulso dall’università Cattolica; precipitavo nella povertà, perché avevo rotto con la famiglia a seguito di questa espulsione, inoltre avevo messo al mondo un figlio a ventun anni. Mi ero dato a due attività, la politica militante e il teatro d’avanguardia, per cui tutte le sere andavo in un teatrino tra i più sperduti, i più periferici, i più alternativi, dove ho visto tutto il teatro d’avanguardia di quel ’68, ’69, ‘70. Ed ero un militante, prima del movimento studentesco della Cattolica e poi di Lotta Continua. Un giorno vado a una riunione di un circolo anarchico in una traversa di corso di Porta Ticinese e vedo quest’uomo bellissimo, con la barba già bianca. Mi presentai: “Se io sono qui a Milano è merito, o colpa, del suo libro Le case della Vetra”. Lui rimase molto colpito, mi volle conoscere e poi mi diede un lavoro, la compilazione di voci per l’enciclopedia Garzanti. Un’incombenza che mi era congeniale. Studiavo e mettevo per iscritto capitoli, traducevo cose che leggevo su altre enciclopedie, libri e così via”.

Torniamo ai dischi, a Foà che legge García Lorca. Ora, il libro che ha scritto, lo legge lei per la versione audio…
“Qui c’è la notizia. Lo leggo. E come faccio a leggerlo, si chiederà? Allora, avviene così. Io sono seduto in poltrona, devo stare immobile, altrimenti si sente il rumore della poltrona nella registrazione. Ho un microfono davanti. La mia collaboratrice Chiara Tamburello legge, io l’ascolto negli auricolari e ripeto come per una traduzione simultanea”.

E che effetto le fa?
“Una fatica pazzesca, perché devo essere concentratissimo. Le sensazioni sono molto contrastanti. Anzi, sono proprio mortificate dall’impegno”.

Per fortuna ha una certa esperienza teatrale.
“E questa voce… stentorea. Ma ora dobbiamo fare l’intervista. Mi dica cosa vuol sapere”.

 

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In realtà la stiamo già facendo. Ma voglio chiederle della chiusa del libro, dove cita Elena Stancanelli che le ha detto: Il tuo libro non mi piace perché non c’è rabbia. Non c’è rabbia, effettivamente, in questo libro che pure tocca una perdita dolorosa. E allora cosa c’è?
“Non c’è rabbia perché ho un’irriducibile tendenza alla razionalizzazione, quindi anche questo evento della perdita della vista lo razionalizzo attraverso una strategia di successivi adattamenti. In questi quindici anni sono passato da una fase a un’altra adeguando le mie mosse, i miei passi, tutti i miei gesti alle nuove condizioni. Ho commisurato la mia vita a queste ristrettezze, e passaggio dopo passaggio, pur nel progressivo impoverimento, ho notato che non si arrivava all’esaurimento totale delle risorse; anzi cautamente, lentamente, emergevano risorse impreviste. Attenzione: nessuna consolazione, però, nessun conforto. Tengo moltissimo a precisarlo. La mia situazione, la situazione dei ciechi, è una situazione tragica. Non vedere il mondo è una disgrazia. La privazione che la cecità produce è una privazione inconsolabile. Perdi tutto, dai volti dei tuoi figli al gioco di Sinner. Non posso vedere nessun nuovo gesto atletico. Ma, per seguire l’esempio, in questa situazione di miseria puoi scoprire che le radiocronache delle Olimpiadi, così come quelle delle partite di calcio, ti danno del piacere. È fondamentale, il piacere. Però vorrei che il mio libro venisse letto con due avvertenze. Primo: che la cecità, appunto, è una tragedia irreparabile. Secondo, che io sono un cieco privilegiato. Una persona benestante, con un sistema di relazioni ampio e articolato, che mi ha soccorso e mi ha permesso, tuttora mi permette, di fare una vita decorosa”.

Nel libro ci sono pagine molto belle, in cui riesce a rendere conto della sua esperienza del mondo anche a chi fatica a immaginarsela perché non ha sperimentato la privazione tremenda di cui parla. Ad esempio quelle in cui racconta la sensazione specifica del calore del sole…
“Io sono privo di quella sintonia, quella sorta di corrispondenza amorosa col paesaggio, che molte persone hanno naturalmente… non ce l’ho. Con qualche eccezione. All’angolo tra via Piave e via XX Settembre, qui a Roma, c’è un punto in cui, molti mesi l’anno, arriva un raggio di sole. Ora, da cieco è difficile avere una percezione precisa di cosa sia un raggio di sole. Ma io ce l’ho grazie al fatto che in quell’angolo, così come in alcuni punti dei Bastioni di Alghero, così come in piazza Farnese, dove una volta andavo all’inizio della bella stagione a pranzare all’aperto… ecco, lì sento proprio il calore dei raggi del sole e lo sento come qualcosa che ha a che fare con le mie emozioni più intime. È una situazione che mette in rapporto il mio animo con la natura, e io questa corrispondenza ora, oggi, in questa condizione, la avverto come mai mi era capitato in passato. Questo contatto con quel tipo di sole, con quel tipo di calore, con quel tipo di luce, appunto, che non posso più vedere ma che sento, tra via Piave e via XX settembre, suscita in me un’emozione molto carnale, molto corporea, quindi molto correlata alla mia struttura fisica, che allo stesso tempo mi dà una sorta di apertura, una sorta di sensibilità nuova, più ricca”.

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Passando da quella strada spesso senza farci caso penso al mare… forse è per la ragione che mi indica lei. Un’altra cosa che mi ha colpito del libro è il discorso sulle parole. Per definirsi usa la parola cieco perché ha una “brutalità rassicurante”, che si contrappone agli eufemismi un po’ goffi di chi cerca di minimizzare.
“La premessa è che io mi ritengo l’ultimo rimasto in Italia a sostenere l’alto significato morale del politicamente corretto, al di là delle sue degenerazioni. E allora perché mi definisco cieco? Intanto perché voglio affermare che questa parola non deve necessariamente avere un significato discriminatorio e spregiativo. In qualche modo posso definirmi cieco, e vi chiedo di definirmi tale, perché non mi sento né sprezzato, né discriminato da questa definizione; ritengo, forse con un atto di superbia, di avere la forza per affermare la mia condizione senza che questo comporti un interdetto. Non solo: io non sono ipovedente, sono cieco, sono proprio cieco. Non mi piace la definizione di non vedente, perché è raro che mi piacciano le definizioni in negativo. Voglio affermare la mia condizione, e a partire da questa condizione dichiarata, nominata, organizzare la mia vita. Il nome è frutto di un’autodeterminazione, il diritto al proprio nome è uno dei diritti fondamentali della persona. Questo è il punto cruciale. A partire dalla mia condizione di cieco voglio avere una relazione paritaria con l’altro. Non voglio affermare prioritariamente il mio deficit. Non mettere l’accento sul fatto che non dispongo di qualcosa che l’altro possiede, bensì sul fatto che ho delle risorse che con l’altro mi permettono di misurarmi e eventualmente di confliggere”.

La rivendicazione di una posizione precisa, quindi?
“E di un’autonomia”.

Questo è l’altro tema importante. Lei si occupa da tempo di privazione della libertà, di persone incarcerate. Nel libro parla molto della posizione di chi è vulnerabile. Come si concilia con le istanze di autonomia?
“Penso che l’autonomia e l’indipendenza siano tutt’altra cosa dall’autosufficienza. La mia autonomia, la mia indipendenza, non può fare a meno degli altri. Senza bisogno di citare Lévinas, la mia autonomia ha una relazione strettissima con gli altri, con la relazione. Nel momento in cui io dichiaro la mia condizione e ho un rapporto onesto, equo, vero, non voglio in alcun modo rinunciare a ciò che gli altri possono fare per me”.

Certo.
“Ma non sto parlando soltanto del mondo degli affetti familiari. Sto parlando, ad esempio, di un tassista che, se ne avverto il bisogno, voglio che mi aiuti, sulla base del fatto che siamo dentro un sistema di relazioni in cui io sono titolare di diritti e di doveri. Dunque, la mia indipendenza nel corso di questi tre lustri è andata di pari passo con una naturale disponibilità all’aiuto degli altri, al dipendere dagli altri. Quando questa dipendenza è invece l’esito o di un ordine gerarchico intangibile o di una disparità di potere tra chi possiede tutte le informazioni (scientifiche, mediche, sanitarie), e te che non ne hai nemmeno mezza, ecco, in questi casi la dipendenza è insopportabile. Non a caso, come racconto nel libro, mi si è manifestata in una situazione di ricovero ospedaliero, attraverso i gesti di un medico che mi accarezzava la mandibola. Una situazione clamorosa. Io disteso sul letto, quattro medici intorno, e questo che mi accarezzava la mandibola. Dicevo: che faccio, lo mordo?”.

Di questo racconto, e di quello, speculare, dell’infermiera offesa perché non rideva alle sue battute, mi colpisce che sono due situazioni in cui spesso si trovano le donne. Lo sconosciuto che fa la battuta e se non ridi dice che non sei una ragazza di spirito. O quello che, appunto, prende una libertà fisica col tuo corpo pensando che sia un suo diritto. Capita alle donne, a ogni età. Un modo di sottolineare un’ingiustificata, falsa disparità?
“Penso che questa vicenda mi abbia insegnato molto di cosa sono le relazioni umane in generale. La possibilità di dichiarare la propria indipendenza non nel deserto dell’assenza, ma nel pieno delle relazioni, sulla base di un rapporto di reciprocità. In un contesto in cui l’affidamento di chi, per esempio, è cieco, non è qualcosa di diverso dall’affidamento di chi è totalmente sano ma ha una struttura psicologica più fragile. La mia debolezza fisica si integra in un sistema di rapporti in cui incontro altri normodotati perfettamente sani, ma che comunque un atteggiamento di affidamento lo possono avere nei miei confronti, di persona con disabilità. Capire questo è stata un’acquisizione importante”.

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Nel libro parla degli occhiali, che a un certo punto le è stato fatto notare che non le servivano. E del suo telefono Nokia… cosa si aspetta dal progresso tecnologico, dagli sviluppi futuri delle simulazioni di realtà?
“Penso che posso, potrò, fare tutto tranne vedere”.

Il suo rapporto con la tecnologia è di fiducia, di sfiducia, di speranza?
“È cocciutamente soggettivo. Quando ho cominciato a perdere la vista ero editorialista della Stampa, avevo il mio computer, scrivevo e inviavo i miei articoli al giornale. Con la perdita della vista è insorta una grande pigrizia di fronte al dilemma: dedicare ore all’apprendimento dei vari sistemi Dragon (si chiamano ancora così, credo) oppure fare altro? È come se non avessi mai trovato il tempo, e dunque la voglia, per studiare l’informatica, perché sarebbe stato un apprendimento ex novo. E io vivevo già dentro un sistema di rapporti molto intenso, che peraltro faceva capo a me. L’associazione A buon diritto esiste dal 2001, quindi ha attraversato tutto questo tempo; il ruolo di parlamentare, non si può negare che offra ulteriori risorse. Ho scelto il fattore umano, dal primo momento, probabilmente facendo un errore che però non ritengo capitale. Ho preferito lavorare con altri piuttosto che affinare le mie competenze con un apprendimento tutto nuovo. Bisogna tenere presente, oltre alla questione dei privilegi, che sono diventato cieco da adulto. Il discorso è diverso per chi nasce cieco, e impara negli anni della formazione direttamente il sistema Dragon, che permette di dettare l’articolo al computer che lo registra, lo rimanda alla persona che lo ascolta, lo corregge, lo rimanda ancora e così via. Tutto questo io lo faccio con i miei collaboratori e le mie collaboratrici”.

Questa scelta ha a che vedere anche con la natura del lavoro?
“Sì, è un lavoro comune. Un lavoro politico, un lavoro militante. E c’è un aspetto molto bello: queste persone forniscono un contributo creativo. Io dico: le mie collaboratrici marxianamente sono dattilografe perché il loro compito è quello di battere ciò che ho detto. In realtà, sono coautrici”.

Nel libro scrive di una giacca che ricordava di un colore e poi scopre essere di un altro. Ma è davvero importante di che colore era veramente, o è più importante la percezione che ne ha?
“Io devo immaginare che immagine di me hanno gli altri, perché se non faccio questo sforzo di fantasia, tendo a custodire di me un’immagine scolorita, spenta. Il fatto di non vedere i colori mi induce a pensarmi a mia volta incolore; o peggio, stinto. Ad esempio, adesso ho una Lacoste rossa, credo”.

Sì… bordeaux.
“Sono stato ingannato. Ne ho una rossa e una bordeaux. Tengo molto a queste cose, mi interessa come sono abbigliato, so che trasmetto con l’abbigliamento e con i colori dell’abbigliamento un’idea di me. La giacca azzurra era la negazione dell’uniformità grigio antracite dei completi che intorno a me altri 314 senatori indossavano, come anche i ministri e così via. Ma non solo. Il colore della cravatta o della giacca – lo dice anche Benjamin – è parte del colore del mondo. Una polo rossa aiuta a comporre la tavolozza del mondo, come la facciata ocra di una casa o la tonalità di verde di un albero, di un cespuglio. Nel momento in cui perdo l’esperienza del colore, vorrei tuttavia stare dentro al colore del mondo, almeno per come lo vedono gli altri. Quindi la mia giacca azzurra è importante. Per non parlare delle mie cravatte. Ho un numero di cravatte imbarazzante. E certo, la consapevolezza di quello che si comunica con l’abbigliamento è una faccenda vecchia di secoli: io l’ho compresa proprio nel momento in cui ne perdevo l’esperienza”.

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, scrittrice, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Dal 2015 collaboratrice di ilLibraio.it, scrive per diverse testate e collabora con radio, tv e scuole di scrittura. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno), Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi) e, sempre con Einaudi, Vita segreta delle emozioni. Nel 2022 per Giulio Perrone editore è uscito A Berlino – Con Ingeborg Bachmann nella città divisa. Con Emons, (e con il sostegno dell’Institut Français Italia), sempre nel 2022, ha curato e condotto il podcast Chez Proust.  Per la collana digitale Quanti di Einaudi ha inoltre pubblicato il saggio breve Cenerentole e sorellastre – Una botanica della bellezza. Guanda a marzo 2024 ha pubblicato il suo secondo romanzo, La reputazione, in cui la scrittrice affronta temi stringenti della nostra contemporaneità, e lo fa in una prosa capace al tempo stesso di profondità e leggerezza. Con La reputazione Gaspari indaga sul rapporto tra apparenza e identità, sul peso della maldicenza e sulla difficile conquista ­della maturità. Cosa succede quando la diffidenza in­quina lo sguardo, quando i confini fra le colpe e i pettegolezzi si fanno labili, quando fidarsi significa rischiare?

 

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