“Come ne ‘L’incredibile storia di Lavinia’, e come in ‘Principessa Laurentina’, anche al centro di ‘Ascolta il mio cuore’ ci sono i rapporti di potere: rapporti che si rivelano più ingiusti e violenti che mai, perché sono guardati dagli occhi delle protagoniste ragazzine che li denudano, grazie all’eccentricità del loro sguardo rispetto al compatto conformismo degli adulti”. Su ilLibraio.it la filosofa e scrittrice Ilaria Gaspari ripercorre alcune delle letture che hanno segnato la sua infanzia e adolescenza, firmate da Bianca Pitzorno: “E brucia un desiderio liberatorio di sbrindellarli, questi rapporti; di rivelarne l’ipocrisia, di uscire dal ricatto del perbenismo e vendicare chi ingiustamente è vittima della sua oppressione”

Quanti anni avevo? Forse dieci. Ascolta il mio cuore era uscito nel 1991 e aveva già fatto in tempo a diventare un classico. Lo so perché verso la fine delle elementari, quando a una mia compagna di scuola era nata una sorellina, l’avevano chiamata Prisca, e il nome l’aveva scelto proprio la mia amica ispirandosi al romanzo. Era un nome che ci piaceva molto.

Il libro mi arrivò in regalo per il compleanno, e aveva la forma di un biglietto d’auguri. Ricordo in copertina l’illustrazione di Quentin Blake – che già adoravo per come disegnava le storie di Roald Dahl pubblicate da Salani.

Ascolta il mio cuore Bianca Pitzorno Quentin Blake

La collana Mondadori junior in cui comparve il libro era divisa per fasce d’età, contrassegnate ciascuna da un colore: quella era la fascia rossa, 10+. Rivedo i caratteri lucidi in rilievo sullo sfondo bianco, la bambina bionda con grembiule e fiocco in piedi sul banco, lo stetoscopio che ausculta, ma in realtà ascolta, un grande cuore i cui contorni erano ritagliati nel cartoncino: sollevata la copertina, trovavi un’altra pagina, e su quella pagina era il cuore rosso, e una seconda bambina, sempre in grembiule e in piedi sul banco, ma bruna e con un sorriso più schivo, quasi segreto.

Quella bambina ero io, avrei scoperto: io che non avevo il coraggio risplendente di Prisca, la protagonista sfrontata, ma che avevo già, e avrei incontrato negli anni, molte amiche-Prische, libere come la mia timidezza non mi consentiva di essere, e le avrei sapute riconoscere, a ogni incontro, forse anche grazie a quel libro.

Non era il primo romanzo di Bianca Pitzorno che leggessi; anni prima, a un pigiama-party a casa di un’altra compagna di scuola che era figlia unica e diceva tantissime parolacce, ragione per me di grande meraviglia e ammirazione, avevo sentito raccontare di un libro che pareva un miraggio – un libro mirabolante fin dal titolo, L’incredibile storia di Lavinia, su un anello che trasforma qualsiasi cosa in cacca, nientemeno, e una scaltra piccola fiammiferaia milanese che non ha nessuna paura di usarlo.

L'incredibile storia di Lavinia Bianca Pitzorno

Ridevamo nei nostri pigiami dentro i sacchi a pelo, come si può ridere a sette anni di una storia simile. Bastava parlarne – bastava l’idea del libro – per farci scompisciare: una parola che non è proprio una parolaccia ma quasi, una bambina come noi che si trova in possesso di un anello con quel potere inconcepibile. Pensavamo a chi, a cosa, avremmo potuto trasformare, se solo la fantasticheria si fosse avverata, se avessimo avuto anche solo per un’ora l’anello magico tutto per noi.

Qualche tempo dopo, invece, mi sarei imbattuta in un altro romanzo, della collana Gaia Junior di Mondadori, quella con la cornice lilla pensata per ragazzine che si affacciavano all’adolescenza: anche di quello, se chiudo gli occhi rivedo la copertina come se l’avessi ora davanti a me, con il suo disegno iperrealistico-manierista – una bebè a dire il vero stortignaccola, con una corona in testa, in braccio a una ragazza in giacca di jeans dall’aria triste – che un po’ mi ipnotizzava, un po’ mi spaventava. Principessa Laurentina era il seguito di un altro libro, Speciale Violante, ma li avevo letti in ordine inverso, non saprei ricostruire per quale ragione, sicuramente per una di quelle ragioni casuali che guidano le nostre storie con i libri (nel mio caso, per una forma di pigrizia che si combina con la curiosità, tendo a cominciare subito quel che mi capita sottomano per vedere dove mi porta); comunque, forse per via della cronologia di lettura, forse per qualche altro motivo, Principessa Laurentina mi rimase impresso nei pensieri per molto, molto tempo. Anzi, qualcosa di più che nei pensieri: è uno di quei libri di cui conservo una traccia emotiva molto più forte di quella di tanti romanzi che ho poi amato, o che ho trovato particolarmente arguti e ingegnosi.

Il fatto è che quel libro, come pochi altri, ha saputo parlarmi, in quel momento fra i dodici e i tredici in cui pare che nessuno ci sappia parlare senza farci la morale.

Era la storia di un’adolescente in difficoltà, e raccontava cose che in molti romanzi non comparivano nemmeno, ma che per me, a dodici-tredici anni, riempivano tutto lo spazio dell’esperienza, tutto il mio orizzonte, tutti i momenti di silenzio prima di dormire. Così si è stampato, come un’orma, fra le emozioni di un’età in cui la vita emotiva è ingestibile, e un attimo di felicità precipita in un crepaccio di angoscia senza che ci si possa far caso.

Quel libro – la storia di Barbara, che il secondo matrimonio della madre costringeva a trasferirsi nella città in cui io stavo crescendo, Milano, che mi pareva violenta e superficiale proprio quanto lo appariva a Barbara, la quale (proprio come me allora) andava a scuola infagottata in certi vestitacci che facevano alzare un sopracciglio alle compagne che con naturalezza si erano saputo adattare alle regole non scritte dell’apparire, degli oggetti imprescindibili, delle mode crudeli dei dodicenni consumisti di fine anni Novanta – in una fase in cui davo per scontato che nessuno potesse capirmi, mi capiva; e lo sento ancora, anche nel senso di vago pudore che incontro nello scriverne, un attrito selvatico che risale a quel tempo lontano in cui mi vergognavo di tutto, eppure iniziavo a esistere, e la via di uscita dalla vergogna, dalla fatica e da tutto quanto, molto spesso aveva la forma di un libro.

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Quei libri con la cornice viola credo siano stati preziosi per molte altre ragazzine nelle mie condizioni, mi dico oggi, che vedo bene quello che allora mi pareva impossibile: se avessimo osato parlare, avremmo scoperto forse che ci capivano anche le compagne di scuola che sembravano avere tutto, avremmo probabilmente saputo che pure loro, a volte, si sentivano come noi infagottate nei vestiti sbagliati, perché quell’età che avevamo prendeva solo sfumature diverse a seconda della prospettiva.

Solo che per orgoglio non parlavamo, e per fortuna allora abbiamo avuto i libri: libri che ci parlavano, ci dicevano cose di noi. E Principessa Laurentina, a me, ha parlato parecchio.

Ma quando ho letto Ascolta il mio cuore per la prima volta, questa esperienza così peculiare che sarebbe stata Principessa Laurentina ancora non l’avevo vissuta. Mi torna alla mente adesso: del resto, le letture della nostra vita dentro di noi si stratificano, come accade a quelle città antichissime di cui gli scavi riportano alla luce fasi diverse, i pavimenti di case arcaiche su cui poi sono sorte altre case, cosicché il suolo si è innalzato a ogni nuova ricostruzione, di metri e metri: quello che succede anche dentro di noi, con le letture che si sommano, e ogni tanto salta fuori un piccolo vaso, o una piastrella, e non si può dire, di primo acchito, se venga dalla casa più antica o da quella più nuova – bisogna soffermarsi a analizzare il reperto, ma la prima impressione, generica, è che appartenga a un passato che pareva rimosso, fino a quando non lo si è scavato fuori.

Come nell’Incredibile storia di Lavinia, e come in Principessa Laurentina, anche al centro di Ascolta il mio cuore che rileggo adesso a distanza di molti anni e di molti altri libri letti – una prospettiva che mi permette di azzardarmi a riconoscere certe costanti nella poetica della sua autrice – ci sono i rapporti di potere: rapporti che si rivelano più ingiusti e violenti che mai, perché sono guardati dagli occhi delle protagoniste ragazzine che li denudano, grazie all’eccentricità del loro sguardo rispetto al compatto conformismo degli adulti, della patina dell’abitudine e della convenzione, che maschererebbe le asperità più inaccettabili.

E brucia, anche qui, un desiderio liberatorio di sbrindellarli, questi rapporti; di rivelarne l’ipocrisia, di uscire dal ricatto del perbenismo e vendicare chi ingiustamente è vittima della sua oppressione. Ma c’è di più, e in questo è il vero colpo di genio di Bianca Pitzorno, che rende questo libro così speciale anche a tanti anni dalla sua uscita: leggere Ascolta il mio cuore non significa indignarsi astrattamente per la malvagità della maestra Argia Sforza, per i suoi contorcimenti melliflui e tartufeschi di fronte a chi le pare forte, ai danni di chi forte non è; leggendo il romanzo, davanti a questi soprusi succede una cosa che da molti anni non ricordavo, almeno da quando non sono più una bambina dell’età di Elisa e di Prisca. Succede che davvero ti senti bruciare le guance come accade nell’infanzia, per quel senso di indignazione indomita che si prova allora al cospetto dell’ingiustizia, e che pare quasi soverchiante, la cosa più intensa del mondo, una questione di vita o di morte.

La maestra Argia Sforza è l’opposto speculare del maestro di Cuore di De Amicis: che pure è a suo modo sadico, per come manipola il desiderio di eroismo degli allievi con le abilissime parabole lacrimevoli dei piccoli valorosi italiani, ma inattaccabile: perché sta esplicitamente dalla parte dei buoni. Argia Sforza invece è servile e vigliacca; non ha il coraggio di prendersi la responsabilità delle sue angherie, eppure le perpetra, e le reitera, solo perché pensa di essere immune alle conseguenze.

Usa il suo piccolo potere con tutta la grettezza di cui essere umano è capace; forse, sospetto, rileggendolo ora, non per puro sadismo, come pensavo da bambina, ma perché ha introiettato un modello crudele al punto da ritenerlo l’unico possibile. Forse, penso ora, crede di avere ragione, di essere “nel giusto”, convinzione granitica che conduce al disastro non solo nei romanzi.

Ma non tiene conto del cuore indomito di queste bambine sarde dei primi anni Cinquanta, che vivono in un mondo che oggi ci pare lontano – un mondo anche romantico, di zii fascinosi, di delusioni cocenti e precoci da cui rialzarsi, di diseguaglianze evidenti, di sogni liberatori – ma somigliano, per gli slanci sghembi e per le amicizie asimmetriche e perciò perfette, alle bambine che nei decenni continuano a regalarsi questo libro.

Queste bambine, al contrario dei piccoli piemontesi di Cuore, ricattati emotivamente dal loro troppo buon maestro e dunque anestetizzati dall’imperativo di comportarsi bene, con le sole opposte eccezioni di Franti e Garrone, sono riottose all’idea stessa di quel conformismo che ha modellato l’aggressività della maestra, e le reagiscono: in questo più fortunate dei ragazzini di De Amicis, direi, perché hanno la possibilità di opporsi a qualcosa di meno mellifluo e convincente.

Bianca Pitzorno ha avuto l’ottima intuizione di creare una cattiva maestra; indispensabile per permettere alle bambine sue allieve di esercitare la loro grandezza, la loro emancipazione generosa e temeraria, appassionata e sognante, che conosce la paura in un cuore che batte troppo forte, e la sfida; perché così fanno le bambine.

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, scrittrice e collaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne.
Scrive per diverse testate e collabora con radio, tv e scuole di scrittura. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno), Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi) e, sempre con Einaudi, Vita segreta delle emozioni. Nel 2022 per Giulio Perrone editore è uscito A Berlino – Con Ingeborg Bachmann nella città divisa. Con Emons, (e con il sostegno dell’Institut Français Italia), sempre nel 2022, ha curato e condotto il podcast Chez Proust.  Per la collana digitale Quanti di Einaudi ha inoltre pubblicato il saggio breve Cenerentole e sorellastre – Una botanica della bellezza.

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