Perché leggere Luigi Pirandello oggi? Perché negli spazi chiusi entro i quali si muovono i suoi personaggi, nei rapporti d’amore (in senso lato) che intrattengono e nei loro comportamenti, tra la dimensione umoristica e quella grottesca, c’è un ritratto vivido e attuale della società e delle individualità dei nostri giorni – L’approfondimento dedicato ai temi delle sue opere, a 100 anni dal debutto a teatro di “Sei personaggi in cerca d’autore”

Non solo Boccaccio e Manzoni: c’è almeno un terzo scrittore italiano la cui prosa sembra descrivere nel dettaglio questi tempi durante i quali navighiamo a vista, ed è il “gigante della montagna” Luigi Pirandello (Agrigento, 28 giugno 1867 – Roma, 10 dicembre 1936), premio Nobel per la letteratura 1934.

Il primo motivo è presto detto: le sue storie, proprio come le nostre di “ordinaria follia”, si svolgono al chiuso. Chiese, case, uffici, fattorie, palazzi… Al di là di poche scene di passaggio, i personaggi si muovono in spazi geometrici e ben recintati, quasi per la paura del loro creatore che scappino sopraffatti da un dilemma, da un sogno o dallo sgomento per la piega presa giorno dopo giorno dalla loro vita.

Può sembrare una coincidenza, un vezzo o una comodità creativa, ma la questione diventa più interessante se consideriamo che i drammi raccontati da Pirandello (come già quelli di Ibsen, di Čechov, e poi di Ionesco) sono, per lo più, di denuncia sociale. Sotto i riflettori, insomma, ci sono singoli individui che crollano davanti al sistema, o che si agitano, o che si oppongono, e il cui destino personale resta abbracciato in ogni momento a convenzioni collettive, imperativi morali e norme “politiche”, intese in senso lato.

Alcuni di loro impazziscono, come accade a Enrico IV, altri rinsaviscono, come ne Il treno ha fischiato, e altri ancora, vedi Mattia Pascal, provano a dare un taglio netto alla loro esistenza, per non parlare di chi si prostituisce, si ammala, muore o spara un colpo di pistola fatale per altri, come succede in Sei personaggi in cerca d’autore, che il 9 maggio di cento anni fa debuttò al Teatro Valle di Roma davanti a una platea indignata e pronta a urlare: “Manicomio! Manicomio!”.

La casa, quindi, smette di essere il luogo della protezione e diventa quello della persecuzione: la dimensione pubblica si insinua e si impone, facendosi specchio deformante davanti al quale ogni volto appare come una maschera. L’interno in Pirandello non è sinonimo di interiorità, piuttosto di perenne palcoscenico, nel quale volenti o nolenti si finisce per mettersi a nudo davanti a un’intera società, poco importa che sia incarnata da una moglie, da un vicino di casa o da uno, nessuno e centomila altri.

E non è tutto, perché dire Pirandello è anche dire amore, ancora una volta nel senso più ampio del termine: i rapporti interpersonali che si compongono e rompono tra le sue pagine, non per niente, di solito hanno alla base un attaccamento affettivo, sia esso sano o morboso, di sangue o matrimoniale, amicale o dettato da tornaconti ed etichette.

Lo vediamo ne La favola del figlio cambiato, ne L’uomo, la bestia o la virtù o ne L’esclusa, giusto per citarne tre. O meglio: della pulsione umana per eccellenza, di nuovo, vediamo le storture, le declinazioni più surreali, le impalcature frivole contrapposte ai castelli di desiderio che sono in grado di costruire i personaggi legati davvero a chi li circonda.

Come succede a noi a distanza di un secolo, infatti, anche loro secondo Pirandello vivono in bilico tra la virtualità e l’autenticità, tra l’orizzontalità (e il piattume) di certi dialoghi e la profondità verticalizzante di sentimenti pericolosi, che proprio perché intensi e spontanei rischiano di apparire astrusi, bucando con le loro caratteristiche la schematica e prevedibile superficie della civiltà moderna.

Per dirla con due marmi di Michelangelo, insomma, lo schiavo ribelle di cui sopra si avvicina sempre di più a uno schiavo morente, cacciato fuori dal gioco delle parti a causa della sua genuina ingenuità. C’è un modo per evitare lo schianto, una volta percepito questo avvertimento del contrario?

La risposta di Pirandello sembra risiedere nell’umorismo stesso, nell’elemento grottesco capace di svelare “l’anello che non tiene” di montaliana memoria, nell’estremizzazione di un disagio tanto più diffuso quanto più inenarrabile, e impossibile anche da seppellire o camuffare.

Esaltata e ostentata, infatti, ogni anomalia smette di essere una spada di Damocle e per incanto inizia a somigliare a Excalibur, cioè a un’arma vantaggiosa e sopraffina, contro la quale nulla possono gli strepiti e i mormorii di un pubblico contrariato, che si stia recitando in teatro o che ci si trovi in tutto e per tutto nel mezzo del cammin di nostra vita, circondati da amici e conoscenti con gli occhi sbarrati.

È ciò che si verifica ne La giara o ne La patente, per esempio, ma anche in Questa sera si recita a soggetto. E poco importa se qualcuno griderà allo scandalo o all’offesa: a venir meno, appena si abbandona la condizione di personaggio/schiavo esclamando che il re è nudo, per Pirandello è solo la fiducia in una verità univoca e assiomatica, no di certo la dignità personale o la propria capacità di sopravvivenza, anzi.

Una simile liberazione dai risvolti psicanalitici e sociologici, ci ricorda Pirandello, riguarda a sua volta da vicino ciascuno di noi, dal momento che ancora oggi “nulla è più complicato della sincerità” e che per chi vuole stare al mondo il copione così è, sì, ma dopotutto solo se vi pare.

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