A metà strada fra un romanzo di formazione ribaltato e una storia corale, sulla scia della grande tradizione americana, Michael Bible con “L’ultima cosa bella sulla faccia della terra” racconta la storia di un giovane maledetto e di una tragedia che segna la vita di una piccola comunità…

Un esordio che non può passare inosservato quest’anno è quello dell’americano Michael Bible, il cui romanzo, L’ultima cosa bella sulla faccia della terra è in libreria per le edizioni Adelphi con la traduzione di Martina Testa.

Ad Harmony, piccola e tranquilla cittadina nel Sud degli Stati Uniti, non si è mai verificato nulla di eclatante, fino a una domenica d’estate, quando un incendio divampa all’interno della chiesa, durante una celebrazione, causando la morte di venticinque persone.

A provocare l’incendio è un giovane, Iggy, che aveva intenzione di darsi fuoco con un fiammifero senza voler fare del male a nessun altro, come atto di ribellione o resa nei confronti della società, dell’esistenza, e che, per ironia della sorte, sopravvive all’incidente. Sarà comunque destinato a morire, a causa della condanna alla pena capitale, alcuni anni dopo.

Sarebbe già questa una trama coinvolgente, mentre invece si tratta solo dell’antefatto, o meglio della cornice all’interno della quale Bible costruisce sapientemente un dramma polifonico intenso ed equilibrato al tempo stesso, che rinnova, continuandola, la grande tradizione americana.

Fin dalle prime pagine si coglie infatti la volontà dell’autore di restituire mediante il montaggio una molteplicità di prospettive attraverso le quali osservare, raccontare e interpretare la tragedia dell’incendio.

A prendere la voce per primo è un compagno di scuola di Iggy che, ponendo il lettore in medias res, comunica l’angoscia e il disorientamento di chi non avrebbe mai immaginato che una persona vicina potesse tentare il suicidio.

Di sezione in sezione si incontrano individualità differenti la cui esistenza è stata irrimediabilmente sconvolta dal tragico episodio dell’incendio e che arrivano a comporre una coralità forse memore di un testo cardine della letteratura americana come l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters.

Ma, in un modo o in un altro, è su di lui, Iggy, involontario artefice del destino di tutti, che si focalizza la narrazione. E lo fa anche in questo caso con una struttura originale in cui la sua storia e la sua giovinezza, trascorsa tra alcol, droghe, amicizie e amori viscerali (sulla scia de Il giovane Holden di J.D. Salinger) viene offerta al lettore solo a posteriori, ovvero nel racconto degli ultimi giorni del protagonista prima di essere giustiziato.

A fare da filtro prospettico e letterario in tutto il libro il senso di sconforto nei confronti di ciò che è imperturbabile, indipendente dalla volontà del singolo, il destino cieco che distribuisce vita e morte, gioia e dolore senza mai permettere all’uomo di toccare la verità.

È proprio questa ricerca di una verità tangibile dell’esistenza a guidare in maniera romantica, ma infine decadente, maledetta, il protagonista, così come le due principali figure cui Iggy si lega, Cleo, sua amante, e Paul, l’amico scomparso. Alcol, droghe, passioni selvagge e relazioni prive di confini e definizioni, tutto viene vissuto dai tre giovani in maniera estrema, nello spirito di ricerca di un sentimento che viene definito da Cleo la “Costante”, un misto di dolore, malinconia e piena percezione delle cose.

Ciò che alla fine resterà a Iggy è un senso di irrisolto, di non raggiunto, e così dalla cella in cui è rinchiuso in attesa della pena capitale solo la vista di un corniolo vale a ricordargli il senso del tempo e delle stagioni e a spingerlo a immaginare la vita che avrebbe potuto avere, e che non potrà più avere.

Questa peculiare e calibrata costruzione del testo – a metà fra romanzo corale e raccolta di racconti – viene declinata all’interno di uno stile conciso, basato su quella brevitas americana che Bible ha probabilmente imparato da maestri del racconto come William Faulkner, cui forse si ispira anche e soprattutto nella struttura, se si pensa a un libro come Palme selvagge.

Dunque, a partire dalle fondamenta di una ricca tradizione letteraria, sfruttata a favore di una poetica personale ben individuabile, l’autore riesce a esprimersi con una voce matura e a imprimere già nel suo primo libro una vibrante forza lirica, combinando in circa centotrenta pagina ambientazioni suggestive, individualità prismatiche, drammi collettivi ed esistenziali, con una forma al tempo stesso conturbante e delicata, cruda e poetica.

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