“Si parla spesso di come la mancanza di rappresentazione femminile in ambito scientifico renda questo mondo ostile alle ragazzine. Di rado, invece, si riflette su come lo stesso problema riguardi la lettura e la scrittura…”. Su ilLibraio.it, in occasione dell’uscita del romanzo “Quello che noi chiamiamo amore”, la riflessione di Loreta Minutilli sul “male gaze” e la naturalezza con cui si dà per inteso che sia il filtro più ovvio e accettabile con cui ritrarre la realtà nell’arte

Nel 2019 ero al cinema con un’amica e prima del film è stato proiettato il trailer di Ritratto della giovane in fiamme, di Céline Sciamma. In sovraimpressione, a un certo punto, è apparso il commento della rivista Variety: “Meraviglioso. Il mondo visto attraverso gli occhi di una donna“.

Io e la mia amica siamo scoppiate a ridere all’idea che lo sguardo femminile fosse tanto rivoluzionario da definire interamente un film, neanche si fosse trattato del mondo visto attraverso gli occhi di una balena. Subito dopo, tuttavia, siamo state costrette ad ammettere che la sensazionalità ricercata da quel commento non era ingiustificata: in un ambiente cinematografico in cui la regia è ancora quasi solo appannaggio maschile, soprattutto in termini di riconoscimenti e prestigio, quando il mondo viene visto attraverso gli occhi di una donna se ne accorgono tutti.

È successo mentre guardavo Bridgerton, la chiacchieratissima serie prodotta da Shonda Rhimes, insieme a un amico: lui ha subito notato, con un pizzico di fastidio, come nelle scene di sesso fossero presenti molti più nudi maschili che femminili. Io non avrei mai pensato di lamentarmi per il fenomeno opposto: sono talmente abituata a vedere corpi di donne nude ovunque che per molto tempo ho creduto che i genitali maschili fossero intrinsecamente più osceni di quelli femminili.

Che tutto questo si chiamasse male gaze e avesse una precisa ragione storica e sociale l’ho scoperto molto tardi nel mio percorso da femminista: la rappresentazione femminile tradizionale nel cinema e nella televisione è così ovvia e riconoscibile che neanche a me era venuto mai in mente di metterla in discussione.

Con i libri, invece, ho sempre fatto una selezione accuratissima, tanto che adesso capita molto raramente che io legga qualcosa che mi lascia insoddisfatta per il modo in cui vengono raccontati i personaggi femminili. Il motivo, facendo un’analisi sommaria delle mie letture, è piuttosto semplice: leggo prevalentemente libri scritti da donne.

La mia attenzione per le scrittrici mi è valsa diverse accuse di essere prevenuta e parziale, di non dare ascolto a entrambe le prospettive. Naturalmente non si tratta di una scelta assoluta: leggo molto, quindi gli autori hanno uno spazio più che dignitoso nella mia libreria. Quando devo scegliere un romanzo in cui immergermi per il puro piacere della lettura, tuttavia, le mie preferenze vanno sempre verso le autrici, meglio se scomode, controverse, dimenticate e inadatte alla propria epoca.

Leggere le donne, insomma, mi fa sentire a mio agio, e il motivo va al di là delle questioni di gusto: nella letteratura sono riuscita a trovare uno spazio in cui le donne e i loro corpi sono raccontati come sono, in maniera onesta e sincera, e non tramite il filtro di uno sguardo maschile.

Naturalmente, molte tra le mie eroine preferite sono state create da uomini: prima tra tutte, Emma Bovary. La tridimensionalità di questi personaggi è però legata alla grandezza dei loro autori, capaci di trascendere ogni personalismo per dare vita a qualcosa di universale, e non riflette un paradigma generale nella costruzione della donna come oggetto letterario.

Si parla spesso di come la mancanza di rappresentazione femminile in ambito scientifico renda questo mondo ostile alle ragazzine. Di rado, invece, si riflette su come lo stesso problema riguardi la lettura e la scrittura.

La letteratura classica mi ha abituata fin dal liceo a incontrare figure di donne terribili: Medea, assassina dei suoi figli; Elena, apparentemente causa di una guerra decennale; Fedra e Arianna, suicide per amore; Clitennestra, violenta e terribile. Mi affannavo tra le pagine dell’antologia di greco alla ricerca di Antigone, unica figura interamente positiva che mi ha fatto pensare con fierezza “Ecco, vorrei essere come lei”.

In letteratura italiana la situazione non è migliorata: sul mio libro di testo le autrici – anche i Premi Nobel come Grazia Deledda – erano tendenzialmente relegati in riquadri sulla voce delle donne, come se fosse un discorso a parte dal resto. Con la letteratura inglese le cose sono migliorate: ho scoperto le mie scrittrici preferite, prime tra tutte Jane Austen e Virginia Woolf.

Chi può biasimarmi se una volta scoperto questo mondo non ho più voluto uscirne?

In entrambi i contesti – i trailer sensazionalistici dei film diretti da registe e le domande sul genere dei miei scrittori preferiti – mi stupisce la naturalezza con cui si dà per inteso che il male gaze sia il filtro più ovvio e accettabile con cui ritrarre la realtà nell’arte, e che tutto ciò che da esso svincola sia, nel migliore dei casi, una raffinata stranezza.

L’accusa che le mie letture siano parziali nasce dall’implicita assunzione che le cosiddette questioni femminili sono una minima parte del reale e che, in fondo, sono interessanti solo per le donne. Il mondo si può guardare attraverso gli occhi di una donna una volta o due, per curiosità, ma poi, se si vuole essere presi sul serio, è il caso di tornare alla prospettiva dominante, quella normale.

Ma siamo sicuri che il mondo visto attraverso gli occhi di un uomo sia normale?

Quello che chiamiamo amore Loreta Minutilli

L’AUTRICE E IL LIBRO Loreta Minutilli (nella foto di Archivio Fondazione Il Campiello, ndr), nata a Bari nel 1995, è stata finalista al Premio Calvino e al Premio Campiello Giovani, vincitrice Premio Città di Como. Dopo il suo primo romanzo, Elena di Sparta (Baldini + Castoldi), torna in libreria con Quello che chiamiamo amore (La nave di Teseo), una storia di legami famigliari e scelte personali che cerca di rispondere a una domanda: è possibile amare davvero senza abbandonare i rigidi schemi imposti dai ruoli di genere?

Ettore, il protagonista e voce narrante, è un uomo, che racconta la sua vita attraverso la lente dell’amore per Elisa: prima sua vicina di casa, poi bella fidanzatina sedicenne e infine moglie e madre dei suoi figli. Ma Elisa è anche una donna molto diversa da lui, che proviene da un contesto degradato e non sopporta più l’amore morboso del marito, così scappa.

Lo rimprovera di non averla mai capita e dopo qualche insistenza promette di spiegare cosa è stato per lei il loro matrimonio: soffocante, proibitivo, morboso, ingiusto. Ma Ettore sarà davvero disposto ad ascoltarla e a reinterpretare il loro rapporto, i suoi comportamenti e la sua intera vita, secondo un nuovo punto di vista?

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