Cosa manca a Milano che invece New York e Londra hanno? Tea Hacic-Vlahovic nel romanzo (con molti elementi autobiografici) “L’anima della festa” prova a “scrivere” il mito pop di una città incompresa, attraverso la storia di una giovane studentessa di moda, all’insegna di party sfrenati, sesso e droga. Intervistata da ilLibraio.it, la performer croata-americana parla del rapporto con l’Italia e con M¥SS KETA, della sua idea di femminismo, del rapporto con il sesso e di quello con la sua community (“Troie radicali”): “Sono sempre cresciuta come straniera e ciò mi ha dato la libertà di non preoccuparmi dell’opinione altrui… Ho sempre pensato che i confini dovrebbero essere aperti”

Arriva in Italia, per Fandango Libri e nella traduzione di Francesco Graziosi, L’anima della festa, il romanzo d’esordio di Tea Hacic-Vlahovic, performer croata-americana, adottata dall’Italia e da un nutrito gruppo di follower che seguono la sua caustica verve sui social.

Mia, la protagonista del libro, come l’autrice è una expat croata-americana che si divide tra lo studio, il lavoro logorante nelle pubbliche relazioni e gli infiniti party nella Milano dei primi anni Dieci: un mondo che inevitabilmente evoca l’immagine di una MILANO SUSHI & COCA che M¥SS KETA ha portato alla ribalta nella musica. Di glamour, però, ne resta poco, ma si ride molto, per fortuna.

L'anima della festa, Tea Hacic-Vlahovic

Hacic-Vlahovic ha raccontato a ilLibraio.it senza risparmiarsi la genesi di questo romanzo, che in futuro diventerà una serie tv di cui l’autrice stessa sarà executive producer e creative consultant.

Quella della protagonista Mia somiglia molto alla sua storia, e lo sa chi seguiva la sua rubrica Tea’s Tacos su Vice Italia anni fa, dove parlava di tutti i temi toccati nel libro. Quanto c’è di suo?
“Volevo evitare di scrivere un memoir, sono troppo giovane per scriverne uno, ma io e Mia siamo la stessa persona, a tutti gli effetti. Poi volevo proteggere l’identità delle altre persone presenti nel libro: in quanto party girl, le mie emozioni sono la verità, e ci sono ricordi più forti degli altri solo perché mi hanno spaccato il cuore. Non mi interessava scrivere una storia ‘corretta’… Diciamo che quella che ho raccontato in L’anima della festa è una storia vera”.

L’altra protagonista è indubbiamente Milano, con le sue feste, il mondo della moda e il sesso. Com’è stata accolto il suo libro dai lettori americani?
“Gli americani erano molto curiosi, mi chiedevano delle somiglianze con Parigi o con altre città europee. Lo dico sempre che a Milano manca il ‘myth’: ho vissuto a New York e anche un po’ a Londra e ognuno di questi posti mi ha deluso, perché tante persone scrivono di questi luoghi e dei legami con la pop culture: quando sono andata a vivere NY ho pensato che sarebbe stato come negli anni ‘70, il CBGB, lo Studio 54… ma non è così! So di non essere una persona abbastanza colta per gli standard italiani, ma sostengo che non ci siano abbastanza riferimenti alla pop culture su Milano. Per questo ho appositamente scelto di lavorare a un romanzo, per far vedere quanto è importante questa città. Gli italiani l’hanno capito subito, ma gli americani erano curiosi, perché non l’hanno mai vista. È raro che all’estero arrivi una storia senza i soliti cliché su Milano, in cui si occupano tutti o quasi di moda o di finanza. Nella realtà, gli artisti veri spesso scappano da questa città… quindi ho voluto scrivere la mia love letter“.

Le manca Milano?
“Tantissimo. Sono stata in tante relazioni ‘abusive’, ma la più distruttiva e romantica al tempo stesso è quella che ho con questa città. Ora sono a Los Angeles, ma so che un giorno tornerò. È come se fossi in un’orbita: Milano è il mio buco nero e ci giro attorno, qualche volta esco, ma mi tira sempre indietro. Per poter scrivere questo libro sono dovuta andarmene per osservarla meglio. Mi manca sempre ed è una città speciale. Sono sicura che torneranno ad esserci anche le feste, come nei roaring Twenties“.

Il mondo che racconta, ma anche lo stile, è molto affine quello delle canzoni di M¥SS KETA. In passato avete collaborato, ora che rapporto avete? Come spiega il vostro successo?
“Ora siamo amiche, ma ai tempi del libro non ci conoscevamo. So per certo, però, che partecipavamo alle stesse feste. Direi che abbiamo successo perché siamo tra le poche a parlare della Milano che conosciamo. È bello vivere il momento e, mentre tanti che erano presenti a quei party e a quelle situazioni, si sono limitati a vivere il momento, noi osservavamo e ricordavamo per poterlo condividere. Con Le ragazze di Porta Venezia – e tutto il suo manifesto – lei sta passando alle ragazze di oggi quello che ha vissuto allora. Abbiamo anche lavorato insieme, è bravissima, un genio. Sono contenta che lei sia in città adesso, so di lasciare Milano in buone mani, potrebbe fare la Sindaca”.

Nel libro il sesso è sempre raccontato in modo crudo e senza gioia – solo alla fine cambia, quando Mia diventa spogliarellista e riacquisisce potere. Cosa significa?
“Fino a 24 anni per Mia il sesso è un modo per stare vicina agli uomini: ha capito che hanno il potere e che loro possono divertirsi e fare quello che vogliono. Il modo per avere la loro compagnia è fare sesso: non era mai per il piacere, ma per evitare problemi e abusi. Quando non sai parlare la lingua del posto, beh, apri la bocca in un altro modo. Il sesso è un modo di vivere, capire e fare esperienze. Mia si dice che va tutto bene, e anche se essere usata è una sua scelta femminista, percepisce il trauma. Se fai qualcosa con il tuo corpo, ma non ne trai piacere, è strano”.

Poi cosa accade?
“Quando comincia a fare la spogliarellista, non capisce cosa le accade: prova degli orgasmi con gli uomini per la prima volta. Il primo momento in cui riesce a sentirsi potente come donna, in modo sessuale, è quando si esibisce davanti a uomini seduti che la pagano. Si tratta di una rivoluzione: non sta più sulla schiena ad aspettare in silenzio. Secondo me tante donne, pur senza voler generalizzare, per secoli hanno imparato a essere passive. Quindi, da questo punto di vista, è una questione di potere: lei capisce che non deve essere sottomessa, e che invece può dire ciò che vuole”.

Nel libro Mia è sola contro tutte le donne che la circondano: manca la solidarietà femminile. Nella realtà, lei oggi hai fondato le Troie radicali, la sua community.
“Spesso le mie troie mi scrivono e mi dicono: ‘Vorrei potessimo essere amici’. Ma quando stavo a Milano nessuna ragazza voleva esserlo. Non è colpa loro: se sei amica di quella che balla nuda per terra, sei considerata come lei. Avevo la libertà di essere straniera, la ragazza americana-croata stupida: non avevo qui dei genitori che mi avrebbero potuto vedere, potevo fare schifo. Io e la mia coinquilina italiana parliamo ancora e siamo amiche, ma ai tempi non potevamo essere amiche in pubblico, perché le donne italiane hanno sulle spalle la pressione della famiglia. Gli uomini sono retrogradi e io avevo questa mentalità distruttiva, camminavo per strada incurante del fatto che mi potessero ammazzare. In realtà non dovremmo fare quella scelta. Le donne si proteggevano da me, ma non mi sentivo mai contro di loro. Sapevo solo che nessuna poteva seguirmi in questa strada”.

Qual è la sua idea di femminismo?
“Il mio femminismo? Ogni donna dovrebbe fare quello che vuole. Per carità, ci sono comunque donne che fanno scelte che disapprovo. Tra sante e puttane, sono stata inserita in quest’ultima categoria, purtroppo per le altre donne in Italia. Prima Milano era un mondo all’antica. Non so perché, ma quando sono lì da voi mi sembra sempre tutto troppo vicino. Ora che ne sono fuori ho potuto creare la community Troie radicali. Sono molto fortunata, perché i follower mi hanno accettato così. Volevo che le ragazze o i gay kids che si sentono tagliati fuori da tutto avessero una comunità in cui poter trovare persone come loro. Talvolta in passato mi sono sentita davvero molto sola e Tumblr mi ha salvato la vita: avere almeno una community online è molto importante”.

Quanto ha influito la sua identità “apolide” sulla sua vita?
“Ora la vedo come un grande potere. Le cose che mi fanno sembrare speciale non le ho scelte. Sono sempre cresciuta come straniera e ciò mi ha dato la libertà di non preoccuparmi dell’opinione altrui”.

Perché?
“Penso sempre di poter scappare. Sono fuggita negli Usa a 4 anni perché c’era la guerra in Croazia, lì ero straniera, così in Italia, poi ancora quando sono tornata… Non ho un posto, però il mio posto è Milano. Mi sento italiana, per davvero. Mio marito è veneto. Ho sempre pensato che i confini dovrebbero essere aperti, ogni popolo è diverso, ma ti puoi identificare nel paese che vuoi, come per i pronomi di genere: il mio pronome è ‘lei’ e la mia nazionalità è italiana”.

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Nel libro ci sono tanti riferimenti specifici che può cogliere solo chi vive a Milano. Com’è andata la traduzione, l’ha seguita?
“Per rispondere devo raccontare la vera storia di questo libro: volevo scriverlo da tanto, ma non ero mai pronta. Una sera ero in un autogrill tra Verona e Milano, e ho trovato il volantino di un concorso letterario. Ho scritto un capitolo alla settimana e l’ho fatto tradurre in italiano per poterlo inviare al concorso, ma non mi hanno presa… Perciò ho provato a proporlo prima qui in America e solo dopo Fandango ha deciso di tradurlo. Francesco Graziosi ha fatto un lavoro certosino, anche se ovviamente alcune cose non possono essere tradotte perfettamente. È come se mi avesse fatto un lifting: sono un po’ diversa, ma sto bene lo stesso”.

A volte leggere questo libro fa male, per l’odio che la protagonista rivolge verso se stessa, ma si ride anche molto. Che importanza ha per lei l’umorismo?
“Il mio umorismo sicuramente dipende dall’essere croata: ogni croato che conosco, persino nella situazione più squallida, ti fa ridere sempre. È simile anche in Italia, dove la stand-up comedy è terribile e la televisione pure, ma il barista che ti fa il caffè sa strapparti un sorriso. Non ho scelta, ridere è il mio modo di sopravvivere!”.

Fotografia header: Tea Hacic-Vlahovic - L'anima della festa

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