“Prendi la mia mano” scava in un episodio buio della storia americana. In questo romanzo d’esordio si parla infatti di ingiustizia riproduttiva, per la quale migliaia di donne povere e di colore sono state sterilizzate perché “inadatte alla maternità”: la penna di Dolen Perkins-Valdez racconta la straordinaria lotta di una donna per i diritti di tutte le donne indifese. Un monito contro i pericoli del razzismo, della demagogia e del paternalismo. Perché ciò che la storia dimentica è destinato a ripetersi…

Ora hai l’età che avevo io allora, e spero che saprai imparare dai nostri errori”.

È una storia di rimorsi, di giustizia e di amore quella che Civil Townsend, 67 anni, racconta alla sua figlia adottiva.

Montgomery, Alabama, 1973: Civil si è appena diplomata infermiera ed è assunta nel consultorio della città, che si occupa del programma di aiuto alle donne. Civil ha 23 anni, appartiene all’élite nera della sua città, padre medico, madre artista: è idealista, piena di buone intenzioni, convinta di poter dare un contributo come infermiera, sicura di poter fare del bene.

Prendi la mia mano di Dolen Perkins-Valdez

L’incontro con le sorelle Williams la mette di fronte a una realtà molto diversa da quella in cui lei è cresciuta: poco più che bambine, orfane di madre, vivono in una baracca fatiscente, con la nonna e il padre, in mezzo a sporcizia e degrado. Sono due ragazzine di tredici e undici anni, e viene loro somministrata una cura anticoncezionale: non hanno mai avuto rapporti, e la più piccola, India, non ha ancora il ciclo.

Nonostante questo, le iniezioni di Depo-Provera vengono viste dal sistema sanitario come una forma necessaria di prevenzione, nella convinzione che i poveri siano inadatti alla maternità: si tratta di un programma governativo violento e ingiusto, che parte dal presupposto che le giovani nere e indigenti non siano in grado di occuparsi di se stesse e del loro corpo.

La povertà era il motore di gran parte della criminalità. Disperazione. Razzismo. Mancanza di opportunità. Non stavamo solo aiutando delle famiglie. Il nostro era un servizio sociale. Un tentativo d’impedire che le cose peggiorassero. Dando alle nostre pazienti accesso alla contraccezione, le stavamo salvando da scelte peggiori”.

Civil si prende a cuore la situazione dei Williams, più di quello che il suo ruolo prevede, convinta di poter aiutare la famiglia, a cui trova una casa, compra cibo, oggetti, vestiti: nel suo candore, travalica ogni confine, e fa delle due sorelle la sua famiglia. Dimostrare che Dio esiste: la generosità non è altro che questa e Civil crede fermamente che le lotte contro le iniquità siano lotte di ognuno, e ha la convinzione che gli anni ’70 siano quelli della giustizia sociale. “Venivamo da un inferno: gli anni ’70 dovevano per forza essere migliori”.

Quando Civil scopre che le due ragazze sono state ricoverate e sono state sottoposte a sterilizzazione forzata, senza consenso informato e consapevole della famiglia, si ribella contro il sistema, che ha negato loro per sempre la possibilità di essere madri, e inizia una battaglia che non è solo per i diritti morali, ma è per la libertà. È anche un suo percorso di consapevolezza sulle conseguenze delle proprie azioni, e sul senso della responsabilità verso gli altri.

Prendi la mia mano di Dolen Perkins-Valdez (Nord, traduzione di Barbara Ronca) è ispirato a fatti realmente accaduti, il caso Relf contro Weinberger, ed è un esordio commovente e profondo, perché scava in un episodio della storia americana, una pagina sociale buia, per metterci di fronte a problemi e riflessioni attualissime, toccando le nostre coscienze.

L’ingiustizia riproduttiva, per la quale migliaia di donne povere e di colore negli Stati Uniti sono state sterilizzate perché “inadatte alla maternità”, è una realtà terribile e ancora irrisolta, che pone tanti interrogativi morali e etici, e uno degli aspetti più vergognosi di una politica macchiata di razzismo, dove le vite nere non contano affatto, tanto più se umili.

Quello era il nostro corpo e avevamo il diritto di decidere cosa farne. Era come se ce lo stessero portando via, come se non appartenessimo più nemmeno a noi stesse”.

Dolen Perkins-Valdez racconta i fatti con un resoconto accurato e vivido di razzismo sistemico, ma sposta il punto di osservazione sul lato più intimo della vicenda, immaginando la vita delle infermiere coinvolte nel programma, il loro percorso interiore, la presa di coscienza di far parte di un orrore. Al centro c’è Civil, una ragazza alle prese con la sua idea di amore: Prendi la mia mano è prima di tutto una storia di emozioni ingarbugliate, di generosità e colpe, di donne che scoprono l’ingiustizia.

Le sorelle Williams hanno rappresentato per Civil due dei più grandi amori della sua vita, quanto di più simile a una famiglia, e insieme il suo più grande dispiacere: Dolen Perkins-Valdez riesce a comunicarci il peso della contraddizione, ci fa commuovere e ci fa arrabbiare, perché la maternità deve essere una scelta individuale, per ogni donna.

Cosa significa amare troppo e perdersi nel dolore degli altri? Prendi la mia mano pone tante domande, sul confine tra bene e male, e sulla complessità delle decisioni: è una storia che ci spinge a interrogarci sulle conseguenze, anche delle buone intenzioni, sulla necessità di ascoltare i bisogni degli altri, senza arrogarci il diritto di sapere cosa è meglio per loro, senza prevaricare.

Forse il mio è solo un cammino penitenziale”. A Civil adulta non resta che fare pace con se stessa, con il suo bisogno di fare, di dare, di considerare sua la cura di altri, di imporre il bene, a tutti i costi, non considerando l’impatto dei propri gesti.

Prendi la mia mano ci mette in mano una matassa di sentimento, di tematiche dolorose, di speranze e di condanne: la penna di Dolen Perkins-Valdez fa vivere nelle pagine i rumori, gli odori, la luce delle giornate, fa vibrare gli anni ’70 con la precisione dei piccoli dettagli, e lavorando su linee temporali alternate, ci sbatte anche in faccia, togliendoci il respiro, che quarant’anni sono passati, e di strada verso la dignità sociale ne abbiamo fatta davvero poca.

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