Se osservate da vicino, le canzoni di Francesco Guccini (nato il 14 giugno 1940) assomigliano a quelle dei cantastorie e degli aedi: parlano di Appennini e di Resistenza, di Bob Dylan e di Pàvana, di osterie in cui si gioca a carte e di un Dio che è morto, di addii e di università, ma soprattutto di dignità umana, spaziando tra i riferimenti a Omero e a Dante Alighieri, a Edmond Rostand e a Miguel de Cervantes, fino ad arrivare a Gustave Flaubert, a Eugenio Montale e a tanti altri grandi nomi della letteratura di ieri e di oggi…
“Da ragazzino avevo l’idea che da grande avrei fatto lo scrittore. Ho sempre scritto in mille modi, prima con delle penne, poi con la macchina da scrivere”: magari non si direbbe, ma a raccontarsi così a Giancarlo Susanna nel dicembre del 2003, in un’intervista pubblicata su Rai Cultura, era Francesco Guccini.
Scrittore, certo, e di numerosi apprezzati libri, fra cui Cròniche epafániche, Vacca d’un cane, Icaro, Non so che viso avesse, Dizionario delle cose perdute, Un matrimonio, un funerale, per non parlar del gatto, Tralummescuro, Tre cene (l’ultima invero è un pranzo), la fortunata serie di noir creata a quattro mani con Loriano Macchiavelli (qui la sua riflessione su ilLibraio.it in occasione dell’uscita di Tempo da elfi) e perfino un vocabolario pavanese-italiano.
Nonché attore e docente con due lauree honoris causa, ma anche e soprattutto cantautore, il modenese classe 1940 che il 14 giugno di quest’anno compirà quindi 85 anni, e che fin da piccolo avrebbe avuto un rapporto particolarmente intimo con le parole.

Il cantautore Francesco Guccini (GettyEditorial)
Non per una vera e propria spinta familiare – la zia più “studiata”, riferisce sempre nella stessa intervista (che prenderemo a riferimento in questa sede per il suo taglio particolarmente libresco) aveva fatto la cameriera a Genova, portando però con sé una serie di romanzi d’appendice che il giovane nipote avrebbe divorato fino all’ultima pagina (“Leggere è sempre stata la mia passione più grossa“) – quanto piuttosto per un’inclinazione naturale che gli aveva fatto imparare ben prima di andare a scuola a scrivere e a leggere (soprattutto Pinocchio, a cinque anni), e che da ragazzo lo avrebbe portato a fare per due anni il cronista per la Gazzetta di Modena.
Gaoletta, però, fu proprio quell’esperienza, che nell’aprile 1960 lo vide intervistare Domenico Modugno, fresco di vittoria al Festival di Sanremo per il secondo anno di seguito, e trovare grazie a quello scambio l’ispirazione per scrivere il suo primo brano musicale, ovvero L’antisociale.
Scopri le nostre Newsletter

Notizie, approfondimenti e curiosità su libri, autori ed editori, selezionate dalla redazione de ilLibraio.it

Che la sua sia una lingua ponderata, agile, a tratti anche molto alta, risulta subito evidente; ed è la conseguenza dei numerosi altri libri di cui Francesco Guccini si è sempre circondato: dai fumetti di Tex alle opere di Jorge Luis Borges (1899-1986), fino ad arrivare a L’uomo senza qualità (Newton Compton, a cura di M. Latini) di Robert Musil (1880-1942).
Basti pensare a un pezzo come Eskimo (1978), che più che una canzone ricorda una poesia, con i suoi oltre 8 minuti di quartine in rima quasi sempre baciata, o a un brano lacerante e indimenticabile come Auschwitz (1967), che suona come un vero e proprio racconto in miniatura, di quelli che solo una six word story alla Ernest Hemingway (1899-1961) potrebbe eguagliare (For sale: baby shoes, never worn, scriveva l’autore americano).
Auschwitz che, peraltro, nacque a seguito della lettura da parte di Guccini del saggio Il flagello della svastica (Pgreco) di Edward Russell (1895-1981) e del romanzo autobiografico Tu passerai per il camino (Mursia) di Vincenzo Pappalettera (1919-1998), a riprova della sua versatile fame di cultura.
Può interessarti anche
“Sostengo che la lettura, oltre che essere un grande piacere – ma questa è una teoria mia – a volte può costare anche un po’ di fatica, un piccolo sforzo”, è quanto ha avuto da dire Guccini stesso al riguardo, e del suo sforzo in effetti resta una nobile impronta nella sua cura del lessico, nelle metafore ellittiche, nel martellante accostamento di sacro e profano che emerge in testi come quelli di Talkin’ Milano (1967), Venerdì Santo (1967) o Statale 17 (1979).
Per non parlare del suo raffinato controllo metrico, sul quale non a caso si era espresso così lo scrittore e giornalista Gianni Mura (1945-2020) nella prefazione al volume Fra la via Emilia e il West. Francesco Guccini: le radici, i luoghi, la poetica (Hoepli) di Paolo Talanca: “Per anni la sua canzone che preferivo è stata Asia, perché apprezzavo molto la rima interna, gozzaniana, nel gioco di endecasillabi e settenari”.
Non solo Guido Gozzano (1883-1916), però, ma anche Eugenio Montale (1896-1981), dal quale avrebbe preso in prestito quella “quotidiana aulicità” – grossolana all’apparenza, ma di fatto estremamente ricercata – che ha contraddistinto molti dei suoi capolavori (spesso legati inoltre al prestigioso Premio Tenco), senza dimenticare poi i chiari riferimenti del brano Odysseus (2004).
“Mi sono impadronito barbaramente di cinque poeti: Omero, Dante, Kavafis, uno scrittore francese scomparso qualche tempo fa che ha scritto tre gialli ambientati a Marsiglia e Alberto Prandi, sconosciuto ai più, un mio cugino che ha scritto delle poesie su Omero“, spiegava Francesco Guccini a Susanna, spaziando ancora una volta con disinvoltura tra le epoche, le culture, le istanze letterarie.
Scopri il nostro canale Telegram

Ogni giorno dalla redazione de ilLibraio.it notizie, interviste, storie, approfondimenti e interventi d’autore per rimanere sempre aggiornati

Non stupisce quindi che, a pensarci, le sue non siano canzoni che si cantano, ma per lo più canzoni che si ascoltano – o che si ballano -, come quelle dei cantastorie, degli aedi, che parlano di Appennini e di Resistenza, di Bob Dylan e di Pàvana, di osterie in cui si gioca a carte e di un Dio che è morto, di addii e di università, ma soprattutto di dignità umana.
“Io non ho mai scritto canzoni politiche“, aveva dichiarato in un’altra intervista meno recente, per la verità, ma è stato lo stesso Mura a osare l’ipotesi di una contraddizione: “Se poi anche oggi il privato è politico (ma non ne sono così sicuro), Piccola storia ignobile è fortemente politica, oltre che profondamente umana”.
E non solo: se anche il sociale è politico, allora gran parte della discografia del Guccio è intrisa di denunce collettive.
Senza l’amarezza del Verismo o i rimpianti del Decadentismo, sì, ma con una elegante trivialità che non si fa mai velenosa (di veleno non c’è traccia nemmeno in Signora Bovary del 1987, nonostante il titolo flaubertiano: resta solo la certezza che In fondo a quest’oggi c’è ancora la notte).
Può interessarti anche
Impossibile non accorgersene in Autogrill (1983), in Lettera (1996), ne La locomotiva (1972) o ne L’avvelenata (1976), benché sia probabilmente in altri pezzi che questa sensazione si fa più concreta e che il “filosofare” tanto caro a Guccini si mescola al suo rispetto per gli ultimi, per gli umili e per i paria (della letteratura e non), come si intuisce per esempio nelle prime strofe di Cirano (1996):
Godetevi il successo, godete finché dura, / ché il pubblico è ammaestrato e non vi fa paura, / e andate chissà dove per non pagar le tasse / col ghigno e l’ignoranza dei primi della classe. / Io sono solo un povero cadetto di Guascogna, / però non la sopporto la gente che non sogna.
Il richiamo, naturalmente, è al Cyrano de Bergerac (Feltrinelli, traduzione di Cinzia Bigliosi Franck) di Edmond Rostand (1868-1918), che qui però diventa un Cirano più moderno (a cui non per niente è scomparsa la y), a rischio omologazione in una società di gente vuota e di materialisti che assomiglia da vicino a quella in cui abitiamo (Tanto ci sarà sempre chi pagherà le spese / in questo benedetto, assurdo Bel Paese).
Scopri la nostra pagina Linkedin

Notizie, approfondimenti, retroscena e anteprime sul mondo dell’editoria e della lettura: ogni giorno con ilLibraio.it

Un fil rouge che sullo sfondo si intravede anche in Van Loon del 1987 (dedicata a Hendrik Willem Van Loon, autore di divulgazione storica), ma che in maniera ben più pervasiva si nota soprattutto in Bisanzio, contenuta nell’album Metropolis del 1981 – e la cui ispirazione si deve all’opera Carte segrete (Garzanti, traduzione di Lia Raffaella Cresci Sacchini) dello storico Procopio di Cesarea (490-565 circa).
Qui infatti Filemazio, un protomedico, matematico, astronomo, forse saggio, / ridotto come un cieco a brancicare attorno, si lancia in un’invettiva che ricorda quelle di Dante Alighieri (1265-1321) nel VI canto delle tre Cantiche della sua Commedia (Garzanti, a cura di Emilio Pasquini e Antonio Quaglio):
Città assurda, città strana di questo imperatore sposo di puttana, / di plebi smisurate, labirinti ed empietà, / di barbari che forse sanno già la verità, / di filosofi e di eteree, sospesa tra due mondi, e tra due ere.
Può interessarti anche
Lirismo e politica, dunque, affondi nel sublime e nel prosastico – “Se Meneghello ha potuto raccontare la sua Malo”, continuava Francesco Guccini nell’intervista a Rai Cultura, riferendosi a Libera nos a Malo (BUR, prefazione di Cesare Segre) di Luigi Meneghello (1922-2007), “perché io non posso raccontare la mia Pàvana?“.
E una fiducia nel futuro che non si smentisce mai, coerente con una lettura del mondo schietta e solidale, disincantata ma non disperata, che risuona come un monito (o come un augurio, forse, che è bello immaginare possa realizzarsi) anche a distanza di decenni, condensata ad arte nel brano Don Chisciotte del 2000:
Nel mondo oggi più di ieri domina l’ingiustizia, / ma di eroici cavalieri non abbiamo più notizia; / proprio per questo, Sancho, c’è bisogno soprattutto / d’uno slancio generoso, fosse anche un sogno matto.
Può interessarti anche
Ed ecco che riappare il sogno, la visione che come un’idea, come una splendida utopia, / è andata via e non tornerà mai più (così cantava nel 1970 ne L’isola non trovata, che riprende da vicino la poesia La più bella di Guido Gozzano).
Per farla tornare servirebbe coraggio, certo, e una buona dose di follia cervantesca: la stessa che Francesco Guccini condivide con i personaggi della grande letteratura a cui ha ridato voce, ammantandoli di una sottile ironia e di una sobria e misurata compostezza.
Dopodiché, sta noi fare il resto. Dare un senso a parole e note, e scegliere, schierarci, imparare a vivere: il Maestrone, dal canto suo, è tale proprio perché suggerisce soltanto, alludendo senza imboccarci. È difficile spiegare, intonava d’altronde nel 1970 in Vedi cara (una delle sue canzoni d’amore più libere e struggenti, ma questa è un’altra storia), è difficile capire, se non hai capito già…

Letture originali da proporre in classe, approfondimenti, news e percorsi ragionati rivolti ad adolescenti.

Fotografia header: GettyEditorial 06-06-2025