Cantautore nato e cresciuto fra i libri di famiglia, Francesco De Gregori (Roma, 4 aprile 1951), che è pronto a partire per un tour estivo insieme ad Antonello Venditti, ha sviluppato una sensibilità tutta sua a tanti temi cari alla letteratura: la critica sociale, lo studio dei sentimenti, la riflessione sull’arte. E ha preso spunto e riadattato il ritmo, il pensiero e il lessico di grandi autori come Dante Alighieri e Franz Kafka, passando per Ernest Hemingway, Pier Paolo Pasolini e non da ultimo Bob Dylan, il cui Premio Nobel per la Letteratura nel 2016 dice molto sul legame fra musica e parole… – L’approfondimento

Nato a Roma il 4 aprile 1951, Francesco De Gregori è un cantautore capace di sortire nelle sue canzoni un effetto singolare: descrive drammi evocando scene e metafore innegabilmente forti, eppure non permette mai alla commozione di chi ascolta di superare una certa soglia. La ferma in tempo, lasciando che si sopravviva al fiume di sensazioni da cui si è attraversati. Così si resta lucidi, ma con un costante groppo in gola.

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Non per niente, è stato lo stesso De Gregori a dichiarare in Passo d’uomo, la ricca intervista rilasciata ad Antonio Gnoli e pubblicata nel 2017 da Laterza: “Secondo me non è casuale che facendosi l’atmosfera via via più surreale e inquietante, Kafka la stemperi con l’umorismo. È l’umorismo che argina l’angoscia”. Ed è proprio in questa perenne altalena fra il sollievo e l’immondo, per parafrasare Eugenio Montale, che durante la sua lunga carriera De Gregori ha accostato le esperienze più intime (come ne La casa di Hilde, rielaborazione di un fatto capitato al produttore Edoardo De Angelis) alle riflessioni più universali (basti pensare ai versi La storia siamo noi, / siamo noi padri e figli, / siamo noi ‘Bella ciao’ che partiamo. / La storia non ha nascondigli, / la storia non passa la mano. / La storia siamo noi, / siamo noi questo piatto di grano), oscillando, come ha raccontato in prima persona, fra l’amore per la letteratura russa e un rapporto conflittuale con gli autori del Sudamerica.

Non disprezzo la complessità purché sia necessaria”, è infatti il suo commento in riferimento alla poetica di Borges o di Márquez, la cui prova provata si riscontra in picchi di ermetismo lirico come quelli del celebre brano La donna cannone, in cui immaginare una storia fra un’allusione e l’altra è (guarda caso) l’unico modo per conoscerla davvero, tra toccanti frasi allungate e oscure sinestesie volteggianti.

Di sicuro c’è dietro uno studio profondo e viscerale, per arrivare a tanta perfezione, anche perché il musicista romano ha ammesso di avere paura del vuoto metrico ogni volta che scrive: “Ho invidia di Elvis Presley che in una melodia di tre note è capace di metterci tre parole. Perfetto. Io sarei capace di ficcarcene molte di più”.

La verità, però, è che sul piano metrico De Gregori sa sempre esattamente quello che fa. E che, se ci riesce, è anche merito della sua formazione letteraria, tramandata fino a lui dalla famiglia da cui proviene. Nonno, zii, padre, fratello: chiunque lo abbia circondato è stato un bibliotecario di rilievo nel panorama del secolo scorso, che gli ha permesso di orientarsi fra le opere, di raggiungere il cuore dei testi, di osservarli in modo traversale per poi trattenerne le suggestioni più vicine alla sua poetica. Quale? Di certo non quella che vede il cantautore come un portavoce, o come una guida – “Non scherziamo”, precisa subito il diretto interessato in Passo d’uomo. “Vorrei che la gente mi riconoscesse non tanto di aver scritto qualche bella canzone, ma di aver viaggiato sempre con rigore, anche a costo di essere scomodo. Con rigore. E dalla stessa parte”.

E a ben pensare si può affermare che, nella sua musica, una parte De Gregori l’abbia sempre scelta. La parte di un determinato tipo di Italia, per esempio, che è derubata e colpita al cuore, restando pur sempre l’Italia che non muore. La parte di chi emigra, come accade a Pablo, che il treno l’ha preso e ha fatto bene, anche se spago sulla sua valigia non ce n’era. La parte dei meno abbienti, come Celestino a cui non resta che andare in Africa, e perfino la parte di chi non vede l’ora di esclamare in direzione del suo generale che la guerra è finita, il nemico è scappato, è vinto, è battuto. Una parte in comune con scrittori del calibro di Ernest Hemingway o di Louis-Ferdinand Céline, in altre parole, che di conseguenza fa eco all’Addio alle armi dell’uno e al Viaggio al termine della notte dell’altro.

Poi, però, è chiaro che De Gregori non si ferma qui. Attraversa i temi più cari alla letteratura del suo tempo per soffermarsi a parlare spesso di musica, di poesia, di arte in generale: così impariamo che vanno a due a due, i poeti, traversando le nostre stagioni – e che passano poeti brutti e poeti buoni, e che quando fra i buoni poeti ne trovi uno vero è come partire lontano, come viaggiare davvero. Così intuiamo che, nonostante la loro valigia, gli attori vengono per niente, perché per niente si va. Così, più di tutto, sentiamo fin dentro alle ossa che l’ispirazione è padrona e schiava della verità, impermeabile alla volgarità che non saluta quando se ne va.

Sono trampolini di lancio per creare una relazione sempre più intima con chi ascolta, punti di partenza per finire a parlare come si deve dell’amore – o meglio, di vera e propria cardiologia, della quale non c’è niente da capire dopo aver detto sottovoce Buonanotte, fiorellino –, o magari della maniera in cui ogni sentimento permea di sé i rapporti umani: c’è quello tra genitori e figli di Tutto più chiaro, quello straziante di Rimmel o di Pezzi di vetro, quello opaco di Caldo e scuro o di Alice, e perfino quello sublimato di Atlantide o di Compagni di viaggio. E ciascuno di loro, nemmeno tanto di nascosto, scegli di rifarsi ai versi di Dino Campana o a quelli di Dante Alighieri, agli appunti di Cesare Pavese o al pensiero di Pier Paolo Pasolini, senza dimenticare naturalmente la grande attenzione di De Gregori per il mondo inglese e statunitense.

Nei suoi brani c’è infatti tanta America – da Bufalo Bill a Disastro aereo sul canale di Sicilia, passando per Giovane esploratore Tobia e per I cowboys –, e in particolare c’è l’America di Bob Dylan, che peraltro finora è stato il primo e unico cantautore ad avere mai ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura (nel 2016). Del grande musicista classe 1941 De Gregori non ha ripreso solo gli accordi, l’atmosfera o il ritmo; un anno prima del prestigioso riconoscimento dell’Accademia Svedese, si è addirittura spinto a compiere un’operazione di Amore e furto, come l’ha definita personalmente, e ha pubblicato un intero album traducendo e riarrangiando in italiano alcuni dei suoi pezzi più significativi.

Il primo è Un angioletto come te (Sweetheart like you), sul quale durante un’intervista di Renato Tortarolo, uscita sul Il Secolo XIX nel 2015, De Gregori non ha potuto fare a meno di osservare: “Ho riscoperto che ha una straordinaria forza evocativa: non parla solo d’un incontro d’amore, ma della sua idea platonica, dell’amore angelicato di Dante e Beatrice. La sua è una narrazione epica del mondo e dei sentimenti. Il contrario di Leopold e Molly Bloom in Ulisse di Joyce”. Il secondo è Servire qualcuno (Gotta serve somebody), per spiegare il quale ha invece menzionato gli scritti di Sant’Agostino e l’Antico Testamento. Per non parlare poi di adattamenti geniali come Non dirle che non è così (If you see her say hello), o del commovente Non è buio ancora (Not dark yet) che sembrerebbe ripercorrere la trama di Tenera è la notte di Francis Scott Fitzgerald.

Note e letteratura, insomma, sono da sempre inscindibili nel suo orizzonte creativo, un po’ come due barche che si inoltrano insieme in mare aperto. E se qualcuno si stesse chiedendo quale mai possa essere la loro bussola, e come siano riuscite anno dopo anno a non perdere di vista l’onestà del loro intento, De Gregori risponderebbe che dopotutto a lui barare non piace: “A che serve mentire? Spesso siamo incoraggiati dal cinismo ad essere duri, sprezzanti, cattivi. Non voglio sentirmi estromesso dai miei pensieri solo perché qualcuno mi dice: Francesco, che delusione, ti credevo diverso. Ecco, Karl Rossmann [protagonista del romanzo giovanile America di Franz Kafka, ndr] aveva nella bontà la sua stella polare. Senza arrivare a tanto, vorrei che a guidare la mia vita fosse il buon senso”.

Fotografia header: GettyEditorial 29-03-2022

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