Come la letteratura contemporanea può intervenire sui classici, senza snaturarli? Su ilLibraio.it la riflessione di Marilù Oliva, che dopo “L’Odissea raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre” firma “L’Eneide di Didone”: “Ho cercato, mantenendomi fedele a Omero, di dare voce alla coralità delle donne in cui il re di Itaca si imbatté. Donne astute, intelligenti, piene di risorse, generose, affascinanti”

Dopo L’Odissea raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre, Marilù Oliva torna a raccontare di un’altra donna, Didone, e della sua versione della storia. E lo fa nel volume L’Eneide di Didone, in libreria per Solferino.

Oliva, scrittrice, saggista e docente di lettere, entra così nei pensieri e nei sentimenti di una delle più appassionate e tragiche eroine della letteratura d’ogni tempo. Arricchendone la vicenda non solo di sfumature e intuizioni, ma di avvincenti e inattese svolte narrative, dimostra ancora una volta l’inesauribile potenza del mito. E delle donne.

Nella riflessione qui di seguito, scritta per ilLibraio.it, l’autrice dice la sua su come la letteratura contemporanea può intervenire sui classici, senza snaturarli:

l'eneide di didone marilù oliva

di Marilù Oliva

Il mito ci svela chi siamo                           

Il mito ci racconta la nostra essenza più profonda e ci svela da dove veniamo, forse è questo cordone ombelicale invisibile che può spiegare la fascinazione che molti di noi provano verso di esso. Il mito non sonda: narra gli eventi, anche solo per proiezione, in ossequio a una fatalità granitica. È il mare magnum da cui attinge il nostro immaginario e non è un caso che la sua trasposizione letteraria abbia da sempre riscosso un grande successo. Basti pensare a rivisitazioni recenti in romanzi molto amati come Circe di Madeleine Miller o Medusa di Martine Desjardin. O anche, andando in là di qualche decennio, agli intramontabili Cassandra di Christa Wolf e all’interessante operazione di riscrittura dell’Iliade da parte di Alessandro Baricco. (La lista sarebbe lunga e questo articolo non pretende di essere esaustivo).

La mitologia raccoglie leggende e storie stratificate che affondano in luoghi e tempi diversi: da esse ci separano quasi tremila anni eppure sono così simili a noi, per alcuni aspetti. Ci avvertono, ci plasmano, ci indicano la strada. Ci insegnano che le vicende umane e divine si fondano su un equilibrio precario che spesso viene sconquassato: e allora occorre che sia ristabilito.

Il mito delle volte lo fa con eccessivo rigore. Ricorre a imprese, sfide, tradimenti, guerre, avventure, punizioni così cruente che oggi farebbero impallidire un rodato serial-killer. Pensiamo alla storia di Atreo, che per colpa del nonno Tantalo si macchiò di un delitto atroce: consumato fin nel midollo dall’odio per suo fratello Tieste (che, per inciso, gliene aveva combinate di tutti i colori), decise di castigarlo nel peggiore dei modi. Così lo invitò a cena e imbandì il tavolo con la carne dei suoi stessi figli. L’inconsapevole Tieste mangiò senza scomporsi, ma, alla fine, quando il fratello gli mostrò la testa, i piedi e le mani dei suoi bimbi cucinati, Tieste, di fronte al macabro spettacolo, fu straziato dal dolore e maledisse il fratello. Questo anatema non si disperse al vento, perché in molti ne pagarono le conseguenze. Cosa c’entrano i discendenti di questi due psicopatici? chiederete voi. Contaminati dalla colpa del sangue, i figli di Atreo non se la passarono bene, basti pensare ad Agamennone, trucidato al suo ritorno a Micene dalla moglie Clitemnestra, in complicità con l’amante di lei, Egisto. E non finisce qui. Il figlio Oreste lo vendicò con un matricidio, ma venne perseguitato dalle Furie. Questa storia – certo esasperata – ci insegna che il male, quando viene innescato, può produrre una catena nefasta e indissolubile (Colm Tóibín docet).

La mitologia non è una bugia: lo storico delle religioni Joseph Campbell la definì “penultima verità” (penultima, perché l’ultima non può essere espressa a parole) e non aveva tutti i torti. La guerra di Troia, magistralmente narrata ne Il silenzio delle ragazze di Pat Barker dal punto di vista della concubina di Achille, Briseide, è molto probabile che sia stata davvero combattuta nell’età del Bronzo. Certo non scoppiò per il rapimento della bella Elena (di cui ricordo il romanzo La splendente di Cesare Sinatti), ma per i soliti motivi biechi che muovono i conflitti: interessi economici e di egemonia.

Cesare Pavese – che i miti li studiava da sempre e li conosceva bene – sosteneva che, nel mito, chi combatte si misura sempre contro una parte di sé. In queste saghe possiamo rintracciare le ostilità, i pregiudizi contro cui ci scontriamo (o che inconsapevolmente fomentiamo) tutti i giorni, ma anche i sogni che rincorriamo. Certo i combattimenti che insanguinarono la distesa davanti a Ilio, gli eroi, gli dei e soprattutto le dee che si intromisero, le stragi che avvennero, i successivi νόστοι dei condottieri greci si plasmarono in magma leggendario che resiste fino ad oggi e non solo per la sua energia distruttiva. C’è molto splendore in queste narrazioni. Basti pensare alla mente poliedrica di Ulisse, alle tappe immaginifiche del suo itinerario. Di lui è stato scritto tanto e così mi sono posta una domanda: se si cambiasse il punto di vista? Un esperimento battuto, tra i molti, dalla bravissima Margareth Atwood ne Il canto di Penelope.

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Così ne L’Odissea raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre ho cercato, mantenendomi fedele a Omero, di dare voce alla coralità delle donne in cui il re di Itaca si imbatté. Donne astute, intelligenti, piene di risorse, generose, affascinanti, senza l’aiuto delle quali – così è citato ironicamente sulla quarta di copertina del libro – “l’eroe sarebbe ancora in viaggio”.

Sempre dal conflitto più celebre dell’antichità arriva il fuggiasco di cui si parla nel mio ultimo romanzo, L’Eneide di Didone: Enea sarà anche figlio di Venere, ma suo padre è un pastore (seppur un bellissimo pastore, per inciso) e lui si è imparentato con la casa reale di Priamo solo perché ha sposato la principessa Creusa. Scappa da Troia in fiamme portandosi dietro la tristezza degli esuli e il desiderio di un nuovo inizio. Questa è epica, ma forse nasconde un briciolo di verità, dal momento che gli stessi romani sapevano che il loro capostipite era un advena, uno straniero.

Ho scelto di riscrivere l’Eneide perché ritengo che questa storia serbi qualcosa di esemplare. Quando Roma nacque, le sue popolazioni erano tra loro straniere e impararono un po’ alla volta la coesione. Crebbero assieme civiltà primitive e selvagge, impararono la vita di comunità e, con essa, l’importanza del diritto. Il più grande impero dell’antichità si basava sull’integrazione (a chi volesse approfondire questa chiave di lettura consiglio Profugus. Misteri, migrazioni e popoli del mare nell’Eneide di Virgilio di Franco Pezzini) e già questo dovrebbe servirci da insegnamento. Oltre a ciò, ho voluto concentrarmi sulla regina cartaginese, la cui misera fine, nel IV libro, mi ha sempre lasciato una sensazione di incoerenza. Qualcosa non mi convinceva. L’Eneide di Didone nasce quindi da una domanda che forse in molti – e soprattutto in molte –si sono rivolti/e: come è possibile che una donna forte, determinata e autono­ma come Didone, sovrana di popoli, in fuga da un fra­tello assassino e avido, abbia deciso di uccidersi per un uomo che – si sapeva fin dall’inizio – sarebbe stato solo di pas­saggio? Se il mito ricalca la realtà, chi riscrive il mito talvolta insegue un’utopia: la mia è stata quella di accordare a Didone una possibilità di autoaffermazione. Che poi è quello che auguro a ogni donna.

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