Torna in libreria un libro di culto degli anni Ottanta: “Schiavi di New York” (1986) di Tama Janowitz. I personaggi di questi racconti, umoristici e sinceri, si muovono nella metropoli come pedine. Il libro fotografa le contraddizioni di una generazione

Torna per Accento, nella traduzione di Rossella Bernascone, e con una prefazione di Veronica Raimo, un libro di culto degli anni Ottanta negli Stati Uniti: Schiavi di New York (1986) di Tama Janowitz, da tempo fuori catalogo in Italia (l’ultima edizione era di Bompiani).

Janowitz è sempre stata menzionata insieme a Bret Easton Ellis, Donna Tartt, Jay McInerney e Jill Eisenstadt tra i membri del cosiddetto “literary brat pack”, il gruppo di ribelli che animarono la scena culturale americana tra vita notturna, feste, alcol e una nuova letteratura fatta di bestseller, e quindi anticipi stellari, tour internazionali, successo mediatico garantito.

Sono stati allo stesso tempo la voce della nuova generazione perduta, gli apripista del nuovo minimalismo, l’emblema della MTV generation, i cantori di un decennio e tanto altro. 

Schiavi di New York è il titolo più celebre dell’autrice, è una raccolta di racconti interconnessi tra loro in cui emerge lo spirito del tempo, si respira l’atmosfera asfissiante di una città in fermento che mette in competizione i suoi abitanti.

La New York descritta è come una gabbia, una trappola in cui si rimane incastrati e poi ci si guarda dall’esterno con sentimenti ambigui di frustrazione e autocompiacimento.

Schiavi di New York - Tama Janowitz

I personaggi di questi racconti umoristici e sinceri si muovono nella metropoli come pedine, donne che possono interpretare nell’arco di una giornata il ruolo di prostitute, redattrici, pittrici, aspiranti attrici, donne a cui è stato assegnato il ruolo femminile. Donne con tagli di capelli da centosettanta dollari a caccia di mariti che instaurano relazioni fulminee con lo scopo di sistemarsi. Ma a New York, “gli uomini o sono omosessuali oppure schiavi pure loro” spiega Eleanor alla sua amica Abby di Boston. L’unica soluzione è quella di fare soldi per permettersi un appartamento e uno schiavo, cioè un partner. Se hai soldi puoi minacciare lo schiavo di andarsene, se non hai soldi lo schiavo diventi tu. 

Gli uomini descritti da Janowitz sono dei soggetti squinternati: possono essere galleristi con un’ambizione sfrenata che finiscono per avere un esaurimento nervoso, intellettuali esibizionisti che sono disposti a tutto pur di offrire cene costosissime a base di pesce, uomini che comprano gioielli da Tiffany, pellicce, gelatiere. Tutti stanno interpretando il ruolo maschile. Quando raccontano un film stanno in realtà recitando una dichiarazione d’amore. 

La psicologia dei personaggi – all’apparenza frivoli e macchiettistici – è uno dei punti di forza della penna di Janowitz, capace di alternare scene comiche al limite del grottesco a pensieri autentici dal sapore esistenzialista. C’è ad esempio Marley Mantello, un prodigio dell’arte contemporanea che del suo genio non sa che farsene e a volte pensa che lasciare il segno del mondo significhi soltanto sporcarlo. Marley non rinuncia al suo sogno, “ero compiaciuto di me stesso, anche se morivo di fame” pensa, mentre osserva la gente barcollare per recarsi negli uffici come api operaie, imprigionata negli schemi mentali americani. Chi è in trappola? Chi può dirsi schiavo di New York?

Sono uomini tristi e disperati che provano qualsiasi cosa per realizzare il proprio sogno. Ma soprattutto sono uomini che desiderano essere apprezzati.

Schiavi di New York racconta con una ingenua e umana compassione un’epoca, e sembra mettere già in luce le contraddizioni di una generazione mentre gli anni Ottanta si svolgono. Il punto di vista dell’autrice è cinico ma non spietato, amaro ma non nichilista. È impersonato nella voce di Eleanor, una “santa moderna”, una donna che rivendica una propria idea di libertà. Ricerca il nuovo ma senza un rifiuto del vecchio, esamina altre visioni del mondo, mentre ne costruisce una propria. Giudica quella della madre secondo cui “la vita è avventura e se l’avventura non ti viene a cercare devi andarla a prenderla tu”.

Si confronta con il caos della vita moderna, legge libri sui consigli per conquistare gli uomini o su come vincere lo stress, si interroga continuamente sul significato dell’amicizia, dell’amore, della carriera e della vita stessa

Come una contemporanea signora Dalloway, Eleanor organizza feste per non sentirsi sola.

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Tra glamour e disfunzionalità, tra ironia e schiettezza, Tama Janowitz negli anni Ottanta ha raccontato non di eroi tragici ma di una fauna di individui stralunati, surreali ma anche unici, soli e ingabbiati prima nell’incanto e poi nel disincanto di una città come New York, un’umanità schietta che non smette di sognare, che ha imparato che la libertà non è sinonimo di indipendenza, che l’amore per i beni materiali a volte sembra ereditato dal codice genetico, a volte può essere una fase da superare.

Come riflette Eleanor, “anche i santi hanno difetti umani: la loro grandezza sta tutta nel superare queste fragilità”.

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Fotografia header: Tama Janowitz nella foto di Jill Abrams

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