Dopo l’apprezzato esordio, “Napoli mon amour”, il 30enne Alessio Forgione torna con “Giovanissimi”, un romanzo di prime volte, che racconta di ragazzini che crescono da soli. Per l’occasione l’autore su ilLibraio.it propone un percorso di lettura dedicato alla “scoperta di un nuovo mondo”. In cui trovano spazio, tra gli altri, Pinocchio, Giovanni Arpino e Virginia Woolf…

Il protagonista di Giovanissimi* si chiama Marocco, ha quattordici anni e quasi tutto quel che fa lo fa per la prima volta. Si stupisce, quindi, in continuazione. Nel bene o male, qualsiasi cosa gli accada, lui si stupisce. Mi piacciono molto le persone che si stupiscono, perché stanno imparando qualcosa e quindi stanno spingendo la propria vita, forse, per una nuova strada o almeno sembra che si stiano arricchendo, cioè che stiano aggiungendo nuovi strati, cose e sfumature alla propria visione delle cose. Chiamerò questo stupore, non troppo metaforicamente, la “scoperta di un nuovo mondo” e lo rintraccerò in alcuni romanzi che ho letto o riletto mentre procedevo a scrivere il mio.

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Carlo Collodi – Le avventure di Pinocchio

pinocchio

Le fantastiche avventure di Pinocchio, per quanto mi riguarda, è uno dei romanzi fondamentali della letteratura tutta e di ogni tempo. Primo, perché spiega che non esiste e non è possibile scrivere un romanzo che non sia anche un romanzo di formazione; secondo, perché mostra che qualsiasi storia, scritta o raccontata oralmente, per quanto realistica voglia apparire, avrà sempre tutte le caratteristiche della fiaba e diventerà credibile proprio accettando le caratteristiche del fantastico e dell’incredibile, perché è in questo modo che acquisterà i tratti dell’universalità, cioè del non riguardare strettamente qualcuno e, quindi, del riguardare tutti. Si prenda come esempio la necessità di fare del protagonista un burattino, altrimenti risulterebbe strana e disturbante, questa storia, al fine dello svolgimento della trama e anche per tutta la vita interiore e psicologica di un bambino, che eppure, di certo, esiste. Invece il burattino è un simbolo, di qualcosa che c’è ma che è anche assente, e della partecipazione umana di ciascuno attraverso la smaterializzazione del personaggio, proprio e altrui. E poi, più di tutto, è avvincente questa sua voglia di vita, a ogni costo, nonostante tutto; questo suo rinunciare agli affetti, questo suo lanciarsi nella solitudine e nella cattiveria del mondo, per fare tutto il giro da solo e tornare al punto di partenza e, finalmente e pienamente, apprezzare la sua condizione iniziale. Perché dimostra che la condizione iniziale era giusta. Era a Pinocchio che mancavano i mezzi per apprezzarla. Il suo arrivo nel Paese dei balocchi è la rappresentazione esatta di quanto intendo. Lo scoprire un mondo che non si credeva possibile e lo stupirsene, il goderne e, come in questo caso, sentire, in un secondo momento, la voglia di continuare ad andare oltre e forse di ritornare a casa. A volte anche tornare a casa è la scoperta di un nuovo mondo.

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Giovanni Arpino – Sei stato felice, Giovanni

Sei stato felice, Giovanni arpino

Da un po’ di tempo succede che quando leggo mi chiedo in quanto tempo è stato scritto quello che sto leggendo. Quando le parole partono come fiumi ma comunque arrancano, quando non sono perfettamente limate, quando gli eventi sono consegnati a loro stessi, allora, quello che leggo, è stato scritto in poco tempo. E nella stragrande maggioranza dei casi non mi piace per niente e m’innervosisco molto. Perché, per scrivere come io ritengo si debba scrivere, serve perderci il sonno, la salute e diverse diottrie. Certo non è solo il tempo impiegato che rende un romanzo degno d’esser letto, ma quelli scritti velocemente sono quasi sempre molto logorroici e mi danno fastidio le grosse quantità, sempre, perché sembra di stare in un discount. Ovviamente, esistono le eccezioni e Sei stato Felice, Giovanni è una di queste. Arpino lo scrisse a ventitré anni, in tre settimane, e per certi versi un romanzo così, così arrogante e strafottente, così genuflesso su se stesso lo si può scrivere solo in prenda alla presunzione di quella età in cui si pensa che anche se si sta sbagliando si avrà tutto il tempo per correggere e sbagliare ancora. Solo che in questo romanzo è difficile trovare il minimo degli sbagli, una riga fuori posto o una battuta a vuoto. È praticamente perfetto, totalmente italiano quanto americano, Hemingway avrebbe dato il braccio destro per scriverlo, perché è quella cosa lì, quella cosa alla Hemingway, ma con un qualcosa in più, credo con una lingua, quella italiana, capace di sfumare i sentimenti nell’accrescersi e non solo nel loro logorarsi. La trama, se così la si vuole chiamare, è piccola e giusta: c’è un ragazzo, ch’è insoddisfatto ma è contento d’essere insoddisfatto, perché in quella sua insoddisfazione rintraccia d’essere vivo e di voler vivere ancora di più. E questo ragazzo va e viene, scopre e conosce, distrugge e costruisce e allora mi convinco ch’è possibile scrivere romanzi logorroici, solo che bisogna essere davvero molto bravi.

Matthew P. Shiel – La nube purpurea

Matthew P. Shiel - La nube purpurea

Shiel scrive come Dio sceso in terra. O meglio, La nube purpurea è scritto da Dio sceso in terra. È l’epica americana, una specie di Moby Dick, quello mi sembra l’incedere, ma apocalittico, distruttivo, cruento, sanguinario e dolce. Dovrei parlare della trama, di quello che accade o non accade – e accade praticamente di tutto – ma non lo farò, perché non rovinerò a nessuno una cosa così bella com’è bella La nube purpurea. È una continua riscoperta del mondo, di un mondo che non c’è più e che mai più sarà ma che all’improvviso, nonostante tutte le macerie e la morte, diventa più rigoglioso di prima, perché c’è l’incontro, quello originario e dal quale, forse, ripartirà tutto, tutto il creato, il possibile e l’impossibile, con la coscienza di quelli che sono stati gli errori passati e con la voglia di non commetterli più.

Jennifer Worth – Chiamate la levatrice

Jennifer Worth

Chiamate la levatrice è un libro di grande successo e l’inizio di una trilogia. Non fosse stato di grande successo, non sarebbe stato l’inizio di una trilogia. Infatti, il primo è bello, fresco, entusiasmante e ricco. Gli altri due no. Però questo è davvero molto bello e tratta la storia di una ragazza, la narratrice in persona, che arriva nell’East End di Londra, a un passo dai Docks, e aiuta le donne a far nascere i loro bambini e, così facendo, scopre una professione, un quartiere e delle condizioni di vita che non immaginava e non credeva possibili, tra povertà assoluta e igiene non pervenuta e metodi contraccettivi inesistenti. Gira in bici e vive in convento, con delle suore che sono le levatrici del quartiere e le sue insegnanti, e c’è questa cosa di vivere, sotto lo stesso tetto con più persone molto diverse tra loro ch’è sempre divertente, nei romanzi. C’è tantissima scoperta, c’è entusiasmo e ci sono tanti tipi diversi di sentimenti. C’è questa sensazione, più volte sottolineata dalla Worth, di un futuro imminente, alle porte e che migliorerà la vita di tutti e che lo rende un romanzo perfetto per mettersi di buon umore.

Paolo Nelli – Trattato di economia affettiva

Reputo Trattato di economia affettiva un libro speciale. Parla di Nello, ch’è stato un bambino negli anni ’70 e della sua riscoperta, a posteriori, di quel mondo, degli eventi ad esso connessi e che l’hanno costituito, e della sua famiglia, attraverso incessanti domande e commenti e osservazioni del Nello adulto a quello bambino. È un’indagine, a volte un interrogatorio, ma anche un dialogo e ha, nel suo complesso e nel suo svolgimento, dolce, qualcosa del Dickens che più mi piace. E questa dolcezza, che assume le caratteristiche di un risultato, dovuta quindi ai risultati e non agli eventi in sé, riporta alla mente anche qualcosa di John Fante, che per me si traduce nella gioia di aver fatto parte di un mondo che non c’è più eppure resta intatto, incastonato nell’obelisco che la nostra vita costruisce per manifestarsi e mostrarsi agli occhi degli altri. Non c’è nostalgia. E nemmeno malinconia. C’è una sorta di accettazione del tempo che passa e dell’evenienza che solo passando un momento diventa reale. Non mentre lo stiamo vivendo, perché non possiamo analizzarlo – d’altronde lo stiamo vivendo – ma dopo, a giochi fermi, quando non esiste più ma è diventato immortale. Paolo Nelli ha scritto che “abbiamo la vita a disposizione per vivere un’infanzia serena”. È una frase che reputo così bella e così giusta e che esprime così pienamente quello che intende e che intendo pure io che non so spiegarla, ma la capisco, o così mi sembra, ed è una sensazione confortante.

Virginia WoolfLa signora Dalloway

Virginia Woolf - La signora Dalloway

A pagina 148 di Lessico Familiare, Natalia Ginzburg scrive: “la quotidiana solitudine, che è l’unico mezzo che noi abbiamo di partecipare alla vita del prossimo, perduto e stretto in una solitudine uguale”. Per me, La signora Dalloway parla della sorpresa del vivere in un mondo dove, al netto delle singole condizioni, delle individuali disparità, siamo tutti uguali, perché tutti angosciati o soli o zoppi o persi o alla ricerca di qualcosa o, semplicemente, alla ricerca della comprensione di noi stessi. Sarà una forzatura, sarà che tanto la Ginzburg quanto la Woolf mi fanno impazzire, ma vedo questa connessione o vedo queste parole che mi piacerebbe avere e poter dire al riguardo de La signora Dalloway, ma che non ho e quindi le rubo. Perché a questa solitudine di fondo risponde lo stupore, che alimenta e sgretola la solitudine e l’azzera e la moltiplica, per mille, perché si è soli solo quando non riusciamo a farci capire dall’altro, non soli in noi stessi e non soli da soli, ma soli solo tra gli altri e allora è stupore, per me, quello di Clarissa Dalloway, che esce di casa e si stupisce del fatto che il mondo è bello, nonostante tutto. Ed è stupore quello che Septimus prova quando capisce e poi si stupisce del suo non stupirsi più – che comunque è una forma di stupore, forse la più profonda. Ed è stupore, bellissimo, quello che Peter Walsh prova quando si accorge che per quanto tutto cambi comunque tutto resta uguale e che quella persona, nonostante sia cambiata e peggiorata e diventata arida, comunque continuerà a farlo saltare dalla sedia, come una puntura o una scossa elettrica, perché resta intatto il senso di quella persona. La signora Dalloway è la continua scoperta dell’altro e l’essere umano non sarà un’isola ma di certo è un mondo. Spero un mondo non molto distante. E dunque mi sembra che la solitudine esista, ma che non sia perfettamente reale, così come accade per i fantasmi: devi crederci per renderli veri. A pagina 181 di questo mio romanzo che si intitola Giovanissimi scrivo che “soprattutto, volevo dire che ogni persona è l’ulteriore possibilità di qualcun altro”. È una frase che credo intenda che se camminiamo per strada, ecco, anche se soli, non siamo davvero soli. Piuttosto, siamo come Clarissa Dalloway. O Peter Walsh, ch’è il mio personaggio preferito di questo romanzo incredibile.

Alessio_Forgione_Giovanissimi

IL LIBRO E L’AUTORE – Alessio Forgione, trentenne, è nato nella periferia di Napoli. Per lavoro ha viaggiato molto. Nella vita ha collezionato un paio di lauree, qualche lavoro saltuario e delle storie. Per NN ha esordito con Napoli mon amour, vincitore del Premio Berto 2019, in corso di traduzione in Francia e in Russia. Attualmente è in lavorazione un adattamento per il Teatro Stabile di Napoli che debutterà nel 2020.

alessio forgione

E ora torna in libreria con Giovanissimi: Marocco ha quindici anni e vive con il padre a Soccavo, periferia di Napoli, dopo che la madre li ha abbandonati; fa il liceo scientifico con pessimi risultati ed è una promessa del calcio. Tra gli amici del quartiere c’è Lunno, con cui Marocco si mette a spacciare il fumo per comprarsi un motorino. Quando nella sua vita arriva Serena, Marocco scopre l’amore, che riesce a calmare la sua rabbia e a fargli vedere le cose sotto una luce diversa. Dopo Napoli mon amour, Forgione torna con un romanzo di prime volte e costruisce un mondo di ragazzini che crescono da soli, tra desideri e delusioni, piccoli crimini e grandi violenze, in attesa di scorgere il varco che conduce all’età adulta.

 

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