In un anno difficile da ogni punto di vista, le sue giocate hanno rappresentato una luce: Elena Marinelli racconta su ilLibraio.it, Jannik Sinner (classe 2001), campione emergente del tennis italiano e mondiale

“Sono molto felice di giocare a Milano”.

“Speriamo di far bene”.

“Chiedo un po’ di tifo che mi servirà perché soprattutto il primo match contro Tiafoe non sarà facile”.

Alla giornalista di Sky Sport che gli chiede come vede il torneo che sta per iniziare, trampolino di lancio per molti giovani del tennis maschile, Jannik Sinner, classe 2001 e nessun titolo ATP vinto, risponde: «Ognuno ha il suo modo per andare lontano. È importante trovarlo e quindi tante volte basta un torneo per trovarti.»

Sono gli inizi di novembre 2019 a Milano, è la vigilia del torneo Next Gen ATP Finals, in cui giocano i migliori sette under ventuno della stagione, più uno che raggiunge gli altri grazie a una wild card. Cinque giorni, una fase a gironi di due gruppi, le semifinali e la finale. Formalmente si tratta di un torneo di esibizione giovanile, che prevede solo la sezione di singolare e che si gioca al meglio dei cinque set brevi (bisogna arrivare per primi a quattro e non a sei come di consueto), ma di fatto rappresenta il modo più eclatante per far sì che il mondo del tennis si accorga di un giovane.

Nel 2019 la wild card è di Jannik Sinner, in quel momento a ridosso della top cento del mondo.

Ancora prima di quel torneo di Milano, alla vigilia dello US Open, un amico mi dice: «Ma è davvero così bravo?»

Quasi sempre, non chiede mai se secondo me qualcuno è “forte”: la forza è una caratteristica precisa, che determina un tipo di gioco, un modo di stare sul campo e non c’entra con l’aspettativa del proprio entusiasmo di tifosi; lui mi chiede se è «bravo», bravo come si comincia a dire, bravo un po’ più di un fuoco di paglia o di un innamoramento da torneo.

Lo guardo seccata, perché ravviso in lui lo stesso scetticismo che mi comunica davanti a definizioni come “capolavoro” o “il libro dell’anno” per certi romanzi contemporanei, come “rivelazione del torneo” per alcune tenniste e, più in generale, per la mia gioia secondo lui immotivata quando qualcuno quasi vince una partita.

Ci sono diversi modi di vivere il quasi, durante una partita di tennis. Ho una fascinazione profonda rispetto al processo che porta al compimento di un fatto: come sono diventata amica di qualcuno, come ho realizzato una cosa importante nella vita, quali eventi sono dovuti capitare e in che ordine perché un fatto si sia realizzato. È una forma di giustificazione alle gioie della vita, mi rendo conto, ma funziona anche sul mio modo di appassionarmi alle gesta di un tennista.

L’ultimo quasi che lega il mio amico e me è proprio relativo a Jannick Sinner, è datato ancora 2019, proprio durante lo Slam di New York, quando al primo turno il giovane arrivato dalle qualificazioni arriva a riaprire la partita contro Stan Wawrinka, ex numero tre del mondo e tre Slam vinti in carriera in singolare.

Il mio amico non è teso, è quasi rilassato. Il primo turno può essere poco appassionante, ma nel bel mezzo della partita c’è un momento preciso in cui sia noi a casa, sia lo svizzero sul campo crediamo che Jannik Sinner abbia possibilità di vincere, alla fine. Ci siamo dati uno sguardo, è durato un secondo, in cui io assecondo il mio desiderio di cedere al quasi che tanto mi soddisfa e lui è dubbioso. Il mio amico non me lo dice, perché deve tenere la posizione di scettico, ma io mi lascio trascinare, mi lascio corrompere dal punto effimero, dal colpo puntuale che dura pochi secondi, dallo scambio ragionato e infine vinto.

Succede questo: il primo set se ne va 6 – 3 per Wawrinka che è sudatissimo e non sembra faccia fatica vera, siamo pur sempre a un primo turno e la differenza fra le due carriere è pari a una vita, ma mentre va a sedersi per la pausa del set, è lui che mi fa ragionare, quando guarda un paio di volte il tabellone. C’è qualcosa, in quel 6 – 3, che non lo convince: Sinner arriva dalle qualificazioni, non dovrebbe esserci nemmeno partita e stai a vedere che questo è uno di quei casi in cui il risultato fa intravedere in controluce la preoccupazione.

Wawrinka ha ragione, perché il secondo set si allunga troppo e male e culmina al tie-break; vince di nuovo ma questa volta lo hanno visto tutti che non è stato facile, Stan si stanca e si stacca mentalmente e gli pare chiaro che abbia sbagliato troppo, che ci sono stati dei momenti in cui Jannik ha spinto la pallina in avanti con troppa facilità, mettendolo in allerta.

“I punti importanti fanno vincere le partite e li sta vincendo tutti lui, però”, sottolinea il mio amico, indicando Wawrinka, ma io ribatto: «Sinner arriva dalle qualificazioni. Da quale punto partiamo qui?»

Non da uno soltanto, ma da tutti quelli accumulati nel terzo set del primo turno dello Us Open del 2019: l’italiano vince contro lo svizzero 6 – 4, e il quasi diventa partecipazione, un obiettivo, la via veloce per mettere sul piatto dei punti addirittura facili, naturali, quasi tirati fuori dal cappello del mago. Il quasi afferma convinzione e variazione, tecnica e volontà di non darla vinta in modo agile, di riconoscere le partite che si possono vincere da quelle in cui bisogna farsi avanti e basta, dare l’illusione di potercela fare: a un certo punto l’ipnotizzato si risveglierà, ma non sarà più come prima.

“Hai visto come si prende un set?”, sbotto a quel punto, facendo uscire il mio personalissimo dritto a gancio, brutto ma efficace, perché lui mi guarda e accoglie la mia intuizione, fa un gesto di rassegnazione con la testa e cancella momentaneamente lo scetticismo, anche se poi si ricorda della prestazione di Sinner a Roma di qualche mese prima, contro Steve Johnson e si fa coraggio: “È stata una prestazione da adulto dello sport, se la ricordi. Quella sì: prima era sotto 6 – 1, poi pareggia 6 – 1 e infine vince 7 – 5. Ci vuole prontezza, carattere, personalità per rimontare in quel modo e…”, ma la mia postura tradisce il mio pensiero: le spalle basse e gli occhi incurvati gli dicono che non deve rovinarmi il momento.

Il mio amico non ha tutti i torti, contro Steve Johnson Jannick Sinner fa una partita da adulto dello sport, perché ci siamo accorti di quanto talento avesse nello stare concentrato per una partita intera, nel riuscire a riprendere il campo mentre era sotto di un set e soprattutto che avesse già la qualità di riavvolgere i nastri delle partite, soprattutto quando si mettono male.

Il quasi, però, è l’intercapedine del tempo in cui si infilano le condizioni giuste, una dietro l’altra, i dettagli che comporranno il ritratto. È piacevole vedere Jannik Sinner che sta per esplodere.

In campo usa il tempo tagliandolo a suo piacimento. Una delle sue doti migliori si manifesta quando va a cercare il punto, e incontra l’attimo corretto per dare sfogo al colpo: il rovescio manda avanti l’orologio di misura, il tanto che basta per agire preciso, perché porta la racchetta indietro, perde poco tempo a effettuare il colpo e si trova in anticipo sulla palla. La lingua inglese ha una parola per questo, timing, che non allude solo alla scelta del secondo calzante o al controllo dello spazio-tempo, ma si aggancia a un concetto definito e solido come il giudizio, inteso come saggezza della scelta. Jannik Sinner arriva da lontano e fin da subito si allena per lo più sui campi veloci, ritarda la scelta se diventare campione di sci o campione di tennis ma poi capisce da solo quando è il momento di dedicarsi a quello che gli piace di più e con cui ha un feeling particolare.

A guardare le sue partite di fine 2019 e poi nel 2020 siamo accerchiati dal suo talento a ogni torneo un po’ di più, e l’esperienza si rinnova: quando gioca bene, a un certo punto tocca chiudere gli occhi, bendarsi e farsi trasportare. Ci si immerge nelle partite e ci si affida al suo giudizio, anche quando contro ha Rafa Nadal durante l’ultimo Roland Garros. Durante il primo set e anche in parte nel secondo hanno giocato alla pari, Jannik senza timore di Rafa, spesso rubandogli il tempo, giocando colpo su colpo e cercando le vie dell’attacco, non soltanto quelle della rimessa, dimostrando un rispetto profondo non solo per l’avversario, ma anche per se stesso.

Jannik si prende l’attenzione, ci fa archiviare lo scetticismo – persino il mio amico ci rinuncia, alla fine. Siamo la platea del suo spettacolo e il suo numero migliore è l’illusione: è il protagonista dinoccolato che quasi tocca il cielo con la racchetta quando serve, dalla camminata lenta a occhi bassi, glaciale nell’attitudine, ma che quando è sul campo rompe il tempo, lo affetta e poi lo riordina, rapido nel gioco di piedi. È lui che conduce, è l’illusionista che ci scherza, per restituirci al risveglio una realtà mutata.

 

L’AUTRICE – Elena Marinelli, collaboratrice de ilLibraio.it, è autrice del romanzo Il terzo incomodo (Baldini+Castoldi, 2015) e di Steffi Graf. Passione e perfezione (66thand2nd, 2020). Ha ideato Volée – Un podcast sul tennis.

 

Libri consigliati