“Ho scritto questo libro nella speranza che la depressione individuale possa tramutarsi in una presa di coscienza collettiva”. Natalia Guerrieri torna in libreria con “Sono fame”, un romanzo che “parla di una società afflitta da iperproduttività, competizione e performatività”. E nella sua riflessione per ilLibraio.it riprende, tra gli altri, “La società della stanchezza” del filosofo” Byung-Chul Han e “Realismo capitalista” di Mark Fisher

La società delle rondini

Sono fame (Pidgin edizioni, 2022*) vuole parlare di una società afflitta da iperproduttività, competizione e performatività. Di un mondo del lavoro in cui non ci sono regole, se non quella, interiorizzata, dell’autosacrificio. Vuole parlare di una generazione che ha fatto i conti con la ricerca di un impiego nell’ultimo decennio, dopo aver accumulato lauree, master e attestati. Della fine della narrazione secondo cui “chi ce la mette tutta ce la fa”, come della credenza che la gavetta umiliante sia formativa e il nonnismo necessario. Del vuoto occupazionale che è la diretta prosecuzione di stage e corsi di ogni genere. È un libro che nasce dalle ferite sulla pelle della mia generazione, dopo anni di messa a confronto di esperienze di “fallimento” che hanno reso possibile comprendere finalmente come il problema non sia personale bensì sistemico. Ho scritto questo libro nella speranza che la depressione individuale possa tramutarsi in una presa di coscienza collettiva, in un rifiuto di un mondo del lavoro non sostenibile, obsoleto, che cerca come uno zombie di fagocitare i nuovi arrivati, appestandoli, per tenere in vita il suo enorme corpo in putrefazione.

Il filosofo Byung-Chul Han descrive come, nell’odierna società di prestazione, ognuno è imprenditore di se stesso e dunque si sfrutta senza limiti nell’illusione di esercitare la propria libertà, incolpandosi per ogni fallimento.

Al posto della costrizione estranea subentra un’autocostrizione, che si dà come libertà. Questa evoluzione implica strettamente il contesto di produzione capitalistico. A partire da un determinato livello produttivo, l’autosfruttamento è essenzialmente più efficiente, molto più produttivo dello sfruttamento estraneo, perché si accompagna al sentimento della libertà. La società della prestazione è una società dell’autosfruttamento”.[1]

In Sono fame, Chiara è detenuta e guardiana allo stesso tempo, vittima e carnefice, per usare le parole di Han. Le rondini di Envoyé si illudono di poter lavorare quanto e dove vogliono, di non avere vincoli, salvo poi non mettere insieme abbastanza soldi per pagarsi l’affitto e ritrovarsi contemporaneamente deprivate del proprio tempo.

“Il dovere ha un limite: il potere, invece, non ne ha. Perciò, la costrizione che deriva dal potere è illimitata e con ciò ci ritroviamo in una situazione paradossale”.[2]

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L’impiego di rondine viene presentato come un “non-lavoro” in cui ci si diverte e in cui, come in un gioco, si accumula punteggio. Di fatto invece la protagonista, Chiara, corre e suda per l’enorme capitale con fatica e senza tregua. La megalopoli cannibalica e divoratrice che sta sullo sfondo del romanzo incarna quel capitalismo descritto da Mark Fisher che “[…] è molto simile alla Cosa del film di John Carpenter: un’entità mostruosa, plastica e infinita capace di metabolizzare e assorbire qualsiasi oggetto con cui entra in contatto”.[3]

In questo contesto, chi sta alla base della piramide sociale viene identificato con nomi di animali piccoli, graziosi e indifesi, come rondini, volpi, quokka, su cui si operano sfruttamento e prevaricazione. Nel libro ho voluto che il corpo – in particolare un corpo di ragazza – e la fatica fisica fossero centrali. Questo perché nella percezione comune i corpi che si mettono in moto, che si spostano, che effettuano consegne a seguito dei nostri input digitali – cosa che avviene sempre più spesso per via dell’e-commerce – sembra che non esistano. Chiara prova a pensare a se stessa come a una rondine “con le ossa cave come quelle degli uccelli” ma tutta la storia, pagina dopo pagina, conferma il contrario, soffermandosi a dare spazio al suo corpo sfinito, ferito e in pericolo.

In tutto il libro aleggia un senso di minaccia, Chiara vede le vittime della capitale accumularsi attorno a lei e inizia a fantasticare sulla propria morte. Pian piano si rende conto che se rimarrà nella capitale verrà annientata, nel frattempo il suo corpo deperisce sempre più senza nutrirsi, l’alienazione non è solo mentale ma anche fisica.

“Il soggetto di prestazione sfrutta se stesso fino alla consumazione (burnout). Ne deriva un’autoaggressività che non di rado si radicalizza nel suicidio. Il progetto si rivela un proiettile, che il soggetto di prestazione punta contro se stesso”.[4]

Questa aggressività contro noi stessi deriva dalla vergogna del fallimento e dall’impossibilità di resistere e lottare contro qualcosa che abbiamo interiorizzato. Sono gli affetti, estranei al sistema, che possono forse portare in salvo, anche se in un mondo non perfetto e ancora angosciante.

Così il legame con la sorella Lucy, con i ricordi del passato, con la sua storia famigliare, porta infine Chiara, anche se piena di ferite e cicatrici visibili sulla pelle, a operare un rifiuto e a mettersi in salvo cercando un’alternativa anche laddove sembra che non ce ne siano. Lo fa spostando l’obiettivo, uscendo dalla gara contro se stessa, ricominciando a cercare – o provando a ridefinire – il significato della libertà.

[1] Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano, 2020, p. 96.

[2] Byung-Chul Han, Psicopolitica, Nottetempo, Milano, 2019, p. 10, il corsivo è del testo originale.

[3] Mark Fisher, Realismo capitalista, Nero, Roma, 2018, p.33, il corsivo è del testo originale.

[4] Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano, 2020, p. 96.

natalia guerrieri sono fame

L’AUTRICE – Natalia Guerrieri (1991)  , laureata in Italianistica e diplomata presso l’Accademia Nazionale D’Arte Drammatica Silvio D’Amico, è autrice di prosa, cinema e teatro. Alcune sue opere si trovano nella Biblioteca Virtuale di Teatro i.

Diversi suoi racconti sono stati pubblicati su riviste e in raccolte antologiche, tra cui Hortus Mirabilis. Il suo romanzo d’esordio, Non muoiono le api, uscito nel 2021 per Moscabianca Edizioni, ha vinto il Premio Zeno Romanzi Editi.

Ora torna in libreria per Pidgin Edizioni con Sono fame*, un romanzo in continua oscillazione tra realtà e grottesco, che ci porta nella capitale tentacolare, insaziabile catalizzatrice delle logiche della prevaricazione, dove le rondini schizzano da una zona all’altra per portare ogni genere di cibo ai clienti che aspettano affamati dietro porte socchiuse.

Chiara è una di loro: le sue giornate sono scandite da una chat sempre attiva attraverso cui ogni suo gesto viene monitorato, le sue ali sono braccia smagrite che la portano in appartamenti asfittici, loculi semibui, esponendola a situazioni paradossali e a tratti surreali. In attesa di un impiego migliore, fra rapporti incompiuti, simbiosi malsane ed echi del suo passato, si piega a uno sfruttamento continuo della sua psiche e del suo corpo, finché alcune rondini non iniziano a scomparire, divorate dalla famelica città.

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