“C’erano momenti in cui la sua anima era come una foresta, piena di ombre e mormorii…”. Pubblicato per la prima volta nel 1929, “Sulle rive dell’Hudson” di Edith Wharton (1862-1937) è un’intrepida avventura di crescita, di amore, di indagine umana e culturale. L’autrice crea una magia continua, immergendoci nella vita letteraria degli anni ruggenti. Ma più di una riflessione sull’arte, questo romanzo (che ha per protagonista un aspirante scrittore, ed è ispirato agli albori della carriera di Thomas Wolfe) è la celebrazione dell’inafferrabile…
“C’erano momenti in cui la sua anima era come una foresta, piena di ombre e mormorii – arcana, distante -, un luogo in cui perdersi, un luogo spaventoso, quasi, in cui restare soli”.
La vicenda del giovane Vance Weston è fatta di sensibilità spirituale, talento poetico, ossessione per l’idea stessa di genio: una storia di formazione che indaga i processi del pensiero creativo, nei santuari dell’ispirazione.
Vance è un poeta, aspirante scrittore, il cui cuore batte di un’innata eloquenza interiore, che lo inonda di parole, di musicalità e di sentimenti: sopraffatto dalla ricerca dei più reconditi significati della vita, capace fin da ragazzino di pensare a un nuovo concetto di religione che abbracci la natura e lo spirito, Vance sviluppa la sua passione per i segreti più arcani dell’anima, cercando lì dentro il centro della sua arte. Rampollo di una benestante famiglia del Midwest dalla mentalità commerciale, sterile e infarcita di un provincialismo pratico e privo di stimoli, Vance coltiva nel sogno di New York la possibilità di un’evasione intellettuale e artistica che lo destini a qualcosa di più alto.
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Complice la sua salute cagionevole, viene ospitato in una casa di parenti a pochi chilometri dalla città, sull’Hudson: gli anni Venti risuonano anche lì, a poca distanza dai circoli e dai salotti dell’alta borghesia newyorkese. Ma è varcando la porta della stravagante residenza dei Salici, che Vance ha la sua illuminazione. Tra torrette, balconcini, tappezzerie e libri a non finire, le parole di Coleridge risuonano nel silenzio: per Vance è la scoperta di una possibilità di erudizione che mai avrebbe pensato di poter avere, una vastità di orizzonti dove perdersi, per trovarsi di fronte al mistero più affascinante, quello del passato.
Sulle rive dell’Hudson di Edith Wharton (Elliot, traduzione di Massimo Ferraris) è un’intrepida avventura di crescita, di amore, di indagine umana e culturale. Quando finalmente New York si svela a Vance, insieme al fascino di una musa colta, disinibita e piena di immaginazione, non c’è più vincolo alla sua penna. La sua vena poetica si trasforma, trova nella prosa la strada di una narrazione che cerca la continuità nella riscoperta delle origini, nella riconciliazione con un passato che da solo può indicare il sentiero per capire noi stessi. Trova comprensione e ascolto in Halo Spear, una giovane intellettuale che condivide la sua stessa sensibilità per la purezza del bello, e che come lui riesce a coglierla, un barlume nella nebbia.
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“Sembrava tutto parte del passato incomprensibile a cui lei e la casa appartenevano, un passato così remoto, così pieno di misteri elusivi che il primo pensiero di Vance fu: “Perché non mi si è mai parlato prima del passato?”.
Vance Weston forgia il proprio carattere tra le difficoltà di una vita che lo abbaglia con lo splendore delle sue agiatezze ma gliele preclude, per mancanza di fondi, di risorse senza le quali il genio arranca, persino per mancanza di un abito adeguato a partecipare a quella vita così scintillante e così feconda di storie e di ispirazione. La disperazione della povertà incontra il cinismo del mercato editoriale, la necessità di lavorare sulla base di contratti e commissioni scadenti e non sulla base del cuore.
Vance è una figura eroica che lotta battendo alla porta delle persone che contano in una New York cinica e indifferente, con un idealismo innocente e impulsivo, che trova la sua pace e il suo fulcro narrativo solo ai Salici, tra vecchie mura, in una biblioteca piena di polvere che è metafora della precarietà del passato ma anche della sua ricchezza senza eguali.
Edith Wharton crea una magia continua, immergendoci nella vita letteraria degli anni ruggenti, nelle luminose sale dei ricevimenti, nelle residenze delle ricche ereditiere, facendo risuonare con lucidità il conflitto tra il fascino snob ed esclusivo della grande città che attira e poi respinge, e i sogni di un’età dell’innocenza spirituale e umana. Ma Sulle rive dell’Hudson è soprattutto un resoconto affascinante dell’ispirazione, dell’abbagliante meraviglia di un estro che si rivela dalla profondità del proprio io.
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“Non riusciva a immaginare di mettere sulla carta qualcosa che non fosse affluito lentamente ai bordi della sua coscienza, che non fosse stato pescato con infinite precauzioni in qualche bacino segreto del suo essere, di cui non conosceva altro che i tuffi saltuari, nel profondo, di qualcosa di vivo ma invisibile…”.
C’è qualcosa di soprannaturale che mette in dialogo il sognare e il creare: Vance ne è sopraffatto, dominato al punto che sembra distaccarsi dalla vita reale, fare scelte insensate, un matrimonio senza amore, un romanzo senza futuro, una ribellione al potere newyorkese che umilia il suo ego. Tutto per aver intravisto un luogo solitario dentro di sé, dove incontrare il mistero, il suo mondo nuovo da evocare con la sua scrittura. È una bellezza che colma l’animo, e dispone Vance a creare altrettanta bellezza: è un incantesimo, la gioia sublime del creatore che vede lentamente affiorare dal buio i propri personaggi. “Arcana, distante e segreta come l’anima…” la art artistica è una visione del mondo che riesce a svelare la profondità delle cose.
Sulle rive dell’Hudson (edito per la prima volta nel 1929 e ispirato agli albori della carriera di Thomas Wolfe, ndr) è più di una riflessione sull’arte, è la celebrazione dell’inafferrabile: è stata una vecchia casa dallo stile architettonico eccentrico a offrire a Vance uno scorcio rivelatore, ad aprire uno scrigno di segreti che ha messo in moto il suo genio e la sua immaginazione, il flusso appassionato della sua penna, e Wharton racconta con un tratto altrettanto intenso e vibrante il mistero selvaggio della scrittura in una storia seducente d’amore, di lusso e povertà, e di talento che, pubblicata nel 1929, ci viene restituita senza traccia di polvere ma ricca della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni.
“Svanì il mondo esterno, l’amore, il dolore, la povertà, la malattia, i debiti, le continue delusioni e i piccoli tormenti quotidiani, persino il paesaggio consolante che lo avvolgeva, tutto si contrasse come l’universo nell’Apocalisse, lasciando nel vuoto delle tenebre un solo piccolo spazio illuminato”.
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