L’olfatto, per molte persone, è il più sacrificabile dei cinque sensi. Ma anche se non ci facciamo caso, offre una preziosa mappa di orientamento nel mondo, affinata da molti millenni di evoluzione. Ne parla in questa riflessione (tratta dal primo numero della nuova rivista “Sotto il Vulcano – Idee, narrazioni, immaginari”) Ilaria Gaspari, scrittrice e filosofa

Se a bruciapelo chiedete a qualcuno a quale senso, dovendo scegliere, sarebbe disposto a rinunciare, state pur certi che quasi nessuno risponderà la vista – statisticamente l’ultimo senso di cui le persone possono immaginare di fare a meno. Molto più probabile che scelgano l’olfatto: dei cinque, per molti, il più sacrificabile.

Ma siamo sicuri che meriti questa fama di senso di second’ordine? Insieme al gusto (l’altro “senso chimico”), l’olfatto subisce l’attacco del Covid: anzi, più del gusto, legato com’è al respiro, che il virus insidia.

Oltretutto, non solo la perdita (temporanea, ma spesso protratta nel tempo) dell’olfatto e del gusto è fra i sintomi più diffusi della malattia, dunque quasi un segnale d’allarme; ma le mascherine, che da quando è scoppiata la pandemia ci siamo abituati a portare nei luoghi chiusi e spesso pure all’aperto, impongono anche a chi non è affetto dal virus l’esperienza di un ottundimento olfattivo: come se, da mascherati, avessimo un raffreddore cronico.

La primavera scorsa mi c’è voluto molto più tempo del solito perché mi accorgessi della fioritura dei gelsomini, annunciata a distanza da ondate di profumo mielato nell’aria della sera. La mascherina che ci protegge, insomma (e riduce le allergie), ci scherma anche dagli odori, belli e brutti; e la strana sensazione che induce, di essere come tagliati fuori dal mondo, credo abbia molto a che fare proprio con l’appannarsi dell’olfatto.

Perché l’olfatto, anche se non ci facciamo caso, offre una preziosa mappa di orientamento nel mondo, affinata da molti millenni di evoluzione.

L’olfatto ci avverte se qualcosa non va, attivando l’emozione del disgusto, a cui dobbiamo tanto della nostra sopravvivenza: ci protegge, prima che sia troppo tardi, dal rischio di ingerire il putrido, il nocivo, il velenoso (a meno che non si camuffi, come in tanti gialli, dietro quell’odore di mandorle amare da cui nessun buon detective si lascia imbrogliare, ma purtroppo molte vittime sì; e così, fatalmente, non riconoscono il cianuro).

La medicina ha fatto assegnamento per secoli sulle diagnosi olfattive che i medici, in mancanza di sistemi più sofisticati di analisi, affidavano al loro fiuto, usmando i pazienti e valutando i miasmi che emanavano dalle loro secrezioni. E badate bene che non si andava tanto per il sottile: l’esperienza olfattiva di un mondo in cui non vigevano le norme igieniche a cui noi siamo abituati doveva essere qualcosa di veramente selvaggio, o selvatico, come gli odori che emaniamo quando non ci deodoriamo a dovere.

Chissà come sarebbe, per noi dall’olfatto coccolato e ammansito dal cosiddetto progresso, intraprendere un viaggio nel tempo: quanto sforzo ci costerebbe, abituarci a effluvi settecenteschi? È curioso, quasi beffardo, che il Covid colpisca proprio l’odorato, che oggi vive una stagione paradisiaca conquistata anche a spese dell’ambiente. Certo, malgrado deodoranti e virus, nella nostra esperienza di animali razionali, ma pur sempre animali, l’olfatto continua a esercitare la sua funzione di intercettatore di disgusto.

Pensate solo a quanto siano potenti gli aggettivi che descrivono un odoraccio: fetido, mefitico, putrido, marcescente – non vi sembra già di sentirlo nelle narici? Non vi viene immediatamente voglia di turarvi il naso? D’altra parte, la credenza antica secondo cui l’aglio terrebbe lontani spiriti maligni e vampiri poggia proprio sul potere apotropaico del disgusto, che astutamente possiamo volgere a nostro favore per proteggerci dai mostri. I quali, si sa, hanno un olfatto iper-sviluppato, come l’orco spaventoso della fiaba che stana, a furia di usmare l’aria, persino il bambino meglio nascosto, e lo annuncia col suo buffo e terrifico e indimenticabile Ucci ucci, sento odor di cristianucci!

Perché l’odore è invisibile, incontrollabile, ma arriva dappertutto. E difatti costruisce una parte fondamentale della nostra esperienza del mondo, attraverso le tracce che lascia nella memoria e che vengono attivate in maniera del tutto involontaria, come da una seduzione segreta, nel momento in cui le molecole odoranti dissolte nell’aria, per puro caso, incontrano la traiettoria del nostro naso, che le percepisce prima ancora che possiamo provare a turarcelo. E non parlo solo di odori cattivi; anche rispetto a quelli buoni, ai profumi che amiamo, che accostiamo a ricordi rassicuranti, o qualche volta dolcemente dolorosi, siamo privi di difese, e per questo tanto più disposti a lasciarci ripiombare nelle nostre segretissime nostalgie, come se per via olfattiva ci si aprissero le porte della percezione e, in un richiamarsi di tracce e associazioni, si dischiudesse un altro livello della realtà, fatto di piacere o di languore. Addirittura, all’inizio degli anni Sessanta, proprio per cercare di sfruttare questo potere evocativo, il produttore cinematografico Mike Todd Jr. tentò di lanciare un film olfattivo, dall’evocativo titolo Scent of Mystery, riprendendo un progetto del visionario inventore Hans Laube: a ogni scena, speciali pipette collocate nei sedili della platea avrebbero rilasciato odori associati alla storia e ai personaggi. Ma l’esperimento della Smell-O-Vision fallì, il progetto di cinema multisensoriale non attecchì: l’olfatto non si lascia imbrigliare.

Forse proprio questa sua forza incontrollabile, irrazionale come i più violenti capricci del corpo, è valsa all’olfatto questa reputazione un po’ disdegnosa che lo vuole facilmente sacrificabile: eredità di secoli e secoli in cui, forse anche in ragione di una qualità più violenta e aggressiva degli odori, in un mondo olezzante in cui i corpi scontavano il pregiudizio che li voleva volgari zavorre al riscatto dell’anima, l’odorato ha avuto fama di senso “ignobile”. Di certo, è un senso perturbante, complesso, dalla potenza sorprendente, capace di piombarci dal piacere al disagio, addirittura alla sofferenza, in un batter d’occhio, anzi in una sniffatina. Forse l’esperienza delle mascherine, in un prossimo futuro, quando sarà solo un ricordo, ci renderà più aperti alla sinestesia, meno dediti al primato della vista; e un po’ più grati nei confronti dei nostri nasi e della loro complessa, delicata architettura sensibile. E come fanno altri animali saggi, per esempio i cani, ci ritroveremo ad annusare l’aria per capire in che direzione vogliamo andare.

Sotto il vulcano rivista Feltrinelli

LA NUOVA RIVISTA – La riflessione di Ilaria Gaspari che proponiamo è tratta dalla nuova rivista trimestrale di Feltrinelli, Sotto il Vulcano – Idee, narrazioni, immaginari, diretta da Marino Sinibaldi. Il primo dei dieci numeri previsti, Cronache dal mondo nuovo, è a cura di Helena Janeczek. Viene presentato come un progetto dalla “dimensione ibrida”, che “ci sembra la più adatta a questi tempi che ibridi appaiono a molti e per molte ragioni” (qui altri particolari).

L’AUTRICE – Ilaria Gasparicollaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno),  Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi) e, sempre con Einaudi, Vita segreta delle emozioni.

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