“Al netto delle contraddizioni che possono esserci e a questioni che io, da occidentale, non riesco sicuramente a cogliere in pieno, mi sembra comunque un’esperienza che vale la pena sostenere”. Zerocalcare, reduce dal successo della serie animata Netflix, “Strappare lungo i bordi”, torna in libreria con “No Sleep Till Shengal”, secondo reportage narrativo dopo “Kobane Calling”. L’autore, che abbiamo incontrato, torna in Medio Oriente per raccontare la storia di una lotta lontana dai riflettori: quella di una comunità ezida che ha dato vita a un’esperienza di confederalismo democratico in un territorio martoriato dalla guerra: l’autonomia di Shengal – L’intervista, in cui il fumettista italiano più amato confida: “Non lo faccio a cuor leggero, mi chiedo sempre se sia giusto annacquare i temi politici attraverso una narrazione che è anche molto personale…”

Quando incontriamo Michele Rech, che tutti conoscerete come Zerocalcare, è il giorno dell’anteprima milanese del suo nuovo lavoro, No Sleep Till Shengal (Bao Publishing), un’ottobrata piena di sole dopo una settimana piovosa e fredda.

Il suo treno da Roma è in ritardo e la giornata che gli si prospetta davanti densa di incontri: a un anno dal suo ultimo libro, la raccolta Niente di nuovo sul fronte di Rebibbia (Bao Publishing, 2021) e dal suo sbarco su Netflix con la serie animata Strappare lungo i bordi, l’arrivo di un suo nuovo lavoro è accolto con un fermento abbastanza palpabile. 

Zerocalcare è un unicum nel panorama fumettistico italiano, sia per i volumi di vendita, sia per l’intransigenza politico-sociale che, riaffermata a ogni uscita, non gli ha impedito di fare breccia negli scaffali di un pubblico più vasto e – come sempre quando si sta sui grandi numeri – meno politicizzato.

Forse il segreto sta nella capacità di raccontare l’esperienza del suo alterego in tutte le sfaccettature: da un ripiegamento interiore che prende le forme di un malessere anni Novanta piuttosto punk (che, d’altronde, è la sua dimensione musicale), all’apertura alle esperienze di piazza e di quartiere, alla famiglia che non è solo quella di sangue, al racconto di lotte che sono molto più vicine a noi di quanto non sembri su Google Maps.

La costante del lavoro di Zerocalcare è l’apertura di uno spazio narrativo per vicende e dimensioni che, altrimenti, difficilmente arriverebbero al grande pubblico. Un “fare spazio” che riesce a riconfermarsi sempre come un’apertura verso l’esterno, pur inserita in una narrativa di cui il suo personaggio è, quasi sempre, il principale protagonista.

Con No Sleep Till Shengal, tredicesimo libro di Zerocalcare tra graphic novel e raccolte di strisce, l’attenzione torna al Medio Oriente. Precisamente a un territorio a nord dell’Iraq dove, assediata da forze belliche avverse, una parte di popolazione ezida sta combattendo per mantenere in vita un’esperienza di confederalismo democratico: l’autonomia di Shengal. Dopo Kobane Calling, Zerocalcare torna al reportage narrativo, raccontandoci ancora una volta una parte di mondo nascosta dai riflettori.

Zerocalcare, No sleep till Shengal

In una tavola di No Sleep Till Shengal, parlando di due miliziane scrivi: ‘Sono pischelle qualunque. Se non vivessero in un posto che costringe tutti a incarnare la versione più tragica di ciò che potevano essere’. No Sleep Till Shengal si rivela più drammatico rispetto al tuo reportage precedente, Kobane Calling, nonostante si parli in entrambi i casi di popolazioni in guerra, schiacciate da forze che cercano di annientarle.
“È più drammatico per due motivi. Le persone che ho incontrato a Shengal sembrano oppresse da una cappa di dolore e di trauma che invece non avevo percepito in modo altrettanto forte in Siria. Non perché lì non avessero subito offensive dell’Isis, massacri, lutti famigliari, ma a Shengal mi è sembrato che ci sia stato qualcosa di diverso, molto più collettivo: non mi piace fare i paragoni con la Shoah, ma non è un caso che quello degli Ezidi sia stato riconosciuto come un genocidio. Si tratta di uno sterminio che ha investito tutto il popolo e ne ha in qualche modo modificato in maniera profonda il rapporto con l’esterno. E poi c’è un’altra questione: ho scritto di Kobane in un momento in cui, nonostante i Curdi stessero combattendo contro l’Isis, c’era una certa proporzione di mezzi in campo. Infatti, anche se l’Isis in alcuni casi aveva un equipaggiamento migliore, i Curdi sono comunque riusciti a batterlo. Gli Ezidi dell’autonomia di Shengal, invece, devono combattere contro il secondo esercito della Nato, quello turco. La sproporzione di mezzi è tale che per resistere è necessaria una grande forza di volontà. Insomma, mi sembra che anche dal punto di vista bellico sia tutto molto più drammatico”. 

In chiusura del testo, quando hai messo la parola fine, hai avvertito delle differenze rispetto a Kobane Calling?
“Quando ho messo la parola fine a Kobane Calling ero convinto che quel libro sarebbe uscito come testimonianza di qualcosa che non sarebbe più esistito, che sarebbe stata sconfitto; mi sembrava un’impresa disperata. Invece la vita mi ha stupito: quell’esperienza continua a resistere, con tutte le drammaticità, con le minacce della Turchia che si fanno sempre più pressanti. La situazione negli ultimi mesi si è aggravata e le cose rischiano di precipitare da un momento all’altro, ma sono passati sette anni dal mio viaggio e quell’esperienza resiste ancora. Allo stesso tempo, anche quando ho messo la parola fine a questo libro, mi sono chiesto: ma quando uscirà, ci sarà ancora un’autonomia di Shengal? Quest’estate c’è stato uno stillicidio di bombardamenti mirati che hanno colpito i civili e hanno decimato le personalità dell’autonomia: il presidente e il copresidente sono stati ammazzati dalla Turchia in maniera sistematica. Questo non dà grandi speranze, però come sono rimasto sorpreso dall’esperienza del Rojava, spero che anche quella di Shengal possa reggere”. 

Zerocalcare 1

Un aspetto della narrazione che emerge è una sorta di affaticamento: c’è l’insonnia del protagonista; ci sono i check-point da cui non si riesce a passare; poi, una volta arrivati a Shengal, c’è la costante presenza di una spia irachena. Sembra di assistere sempre a uno slancio abortito.
“Sono partito con l’idea di raccontare il funzionamento dell’autonomia di Shengal, e poi metà del viaggio è diventato cercare di raggiungerla, Shengal. Il frazionamento dello stato iracheno fa sì che ogni pochi chilometri ci sia un check-point, che però non riconosce l’autorità di quello precedente. Alla fine ci siamo ritrovati in una situazione kafkiana in cui continuavamo a tornare alla casella di partenza senza riuscire ad andare avanti. L’unica cosa evidente era che nessuna delle forze che incontravamo avesse piacere che venisse raccontata la vicenda degli Ezidi, pur facendosi poi la guerra tra di loro. A un certo punto siamo anche passati per la Farnesina, che ci ha detto che non potevamo andare in quella zona e che, se ci fossimo andati, sarebbero stati fatti nostri. È stata una dinamica molto frustrante ma credo che andasse raccontata, perché ha un peso effettivo nell’isolamento di quella comunità”. 

Un altro tema tipico del tuo lavoro è l’insicurezza del narratore. In questo caso è espressa ai massimi termini perché, a una caratteristica interiore del tuo personaggio, si aggiunge l’incertezza di una situazione che non è chiara fin dall’inizio e che il lettore scopre di pari passo con lui. Quale credi sia il senso di questo lavoro?
“L’insicurezza che ho vissuto aveva anche a che fare con il chiedermi se avessi una legittimità, come persona privilegiata che abita a Rebibbia, in Italia, e che fa un mestiere piuttosto fortunato, anche solo di supportare una delle parti che sta lottando a Shengal e che non racchiude necessariamente la sensibilità di tutti gli Ezidi. L’autonomia di Shengal è un’opzione progressista e democratica, ma non ha il 100% del consenso. Ci sono persone che, per esempio, sono contrarie alla liberazione della donna e che non pensano che una donna possa avere dei legami con qualcuno esterno alla comunità ezida. Quindi mi ponevo il problema del parteggiare all’interno di una vicenda che non è la mia”. 

Zerocalcare 2

E qual è stata la risposta?
“Quello che mi sono risposto a libro concluso, continuando a parlarne e a mantenere i rapporti con quella comunità, è che la scommessa di confederalismo democratico che stanno facendo i Curdi e gli Ezidi trasforma un territorio in cui si protraggono soprusi e schiavitù in una zona in cui le donne possono decidere per se stesse, in cui i ragazzini possono andare a scuola insieme a quelli di altre religioni e di altre culture senza odiarsi e senza ammazzarsi. Insomma, al netto delle contraddizioni che possono esserci e a questioni che io, da occidentale, non riesco sicuramente a cogliere in pieno, mi sembra comunque un’esperienza che vale la pena sostenere”. 

E poi c’è il grande elefante nella stanza della politica europea: i rapporti con il governo turco.
“Quella è l’altra questione. Sono andato a Shengal prima della guerra in Ucraina e prima che iniziasse il ruolo da mediatore di Erdogan, quando abbiamo barattato il sostegno ai Curdi in cambio dell’eliminazione del veto per l’adesione di Svezia e Finlandia alla UE. Ecco: mi sembrava avesse senso pubblicare un libro che raccontasse con chi stiamo facendo questi accordi”.

A differenza di altri tuoi lavori, forse anche per come si è svolto il viaggio, il libro si divide nettamente in due parti: c’è la storia di un avvicinamento che sembra non avvenire mai, e poi una testimonianza che diventa documentaria. Nella prima parte è protagonista il personaggio Zerocalcare, mentre nella seconda la prospettiva cambia.
“La prima parte doveva per forza avere al centro il mio personaggio, perché di fatto non riuscivo a entrare in contatto con niente di quello di cui avrei voluto parlare. È il racconto di una frustrazione che evidentemente è quella del mio personaggio. La seconda parte, invece, risponde all’idea con cui effettivamente nasce questo libro: dare voce all’autonomia di Shengal. Per questo ho provato a fare un passo indietro e lasciare il più possibile spazio a queste persone. Il mio personaggio, in questo caso, serve più che altro per intervenire quando voglio ‘prendere per mano’ il lettore per raccontargli qualcosa che potrebbe non sapere o che non voglio dare per scontato; quindi lo uso come quello un po’ scemo che ha bisogno che gli vengano spiegate le cose”.

A livello pratico, in cosa differisce il lavoro su un testo come No Sleep Till Shengal o come Kobane Calling, rispetto a libri più personali come Dimentica il mio nome o Scheletri?
“Ci sono tante differenze pratiche. La prima è che, già in fase di lavorazione, si tratta di qualcosa di molto più collettivo. Anche solo per fare i disegni ho dovuto utilizzare i materiali che abbiamo raccolto tutti insieme, come fotografie e video-interviste. Già a monte è necessaria una condivisione. E poi, nella fase finale, il lavoro non può essere considerato concluso e andare in stampa finché le persone coinvolte, sia quelle che hanno partecipato al viaggio, sia la stessa comunità ezida, non danno l’ok e non dicono che magari una tal cosa non può essere detta in certi termini per motivi bellici, o che ne ho capita male un’altra. Sono necessarie una serie di accortezze che quando parlo di cose mie non servono”.

Una costante dei tuoi libri sembra essere la creazione di uno spazio narrativo per raccontare esperienze che, in altri termini, non riescono a essere diffuse a così largo spettro. Da questo punto di vista, che percezione hai del tuo lavoro?
“Questo ‘cercare di fare spazio’ è qualcosa che sento abbastanza. Ho l’impressione che ci siano un sacco di cose che meriterebbero di essere raccontate e che spesso non lo sono. E non lo sono, secondo me, perché non si trova la chiave per portarle a un pubblico ampio. Ovviamente non è che nessuno parli dei centri sociali, come non è che nessuno abbia mai parlato degli Ezidi, è pieno di testi online e di saggi che raccontano il loro genocidio. Ma mi sembra che spesso avvenga in modo molto settoriale, specifico, e quindi poi se ne interessi solo chi è esperto di quel tema, o comunque lo conosce già”. 

In che senso?
“Io, prima del 2011, facevo delle cose politiche molto distanti dai fumetti che poi sono stati conosciuti con il blog: quando parlavo di politica lo facevo in termini seri, ideologici, e non esisteva ancora il mio personaggio, quindi non c’era un reale spazio per le emozioni personali. Invece, se racconto le stesse questioni politiche conservando il linguaggio del blog, mi sembra di poter aprire uno spazio e coinvolgere un pubblico più ampio. Ma non lo faccio a cuor leggero, mi chiedo sempre se sia giusto annacquare i temi politici attraverso una narrazione che è anche molto personale. La risposta che mi sono dato finora è che, se si riesce a trovare un equilibrio in cui c’è una parte divertente che però non va a sminuire quei temi, va bene. Cerco di fare ironia su me stesso, non sulle situazioni che racconto, e di trovare dei compromessi per far sì che tutto il lavoro abbia un senso. Però ho comunque un sacco di dubbi”.

Scopri le nostre Newsletter

Iscrizione alla Newsletter
Il mondo della lettura a portata di mail

Notizie, approfondimenti e curiosità su libri, autori ed editori, selezionate dalla redazione de ilLibraio.it

scegli la tua newsletter Scegli la tua newsletter gratuita

Libri consigliati