Il 29 agosto arriva in libreria “La guerra delle due regine”, quarto volume della serie “Flesh and Fire”, spin-off della saga bestseller “Blood and Ash” di Jennifer L. Armentrout, tra le autrici più amate su #BookTok: su ilLibraio.it un capitolo dal romanzo in anteprima

Jennifer L. Armentrout è una delle autrici più amate su #BookTok, con i suoi romanzi young e new adult, di fantascienza e fantasy.

Non solo: scrive anche romance di successo con lo pseudonimo di J. Lynn (pubblicati in Italia da Tea).

In questo caso parliamo della sua saga bestseller Blood and Ash, pubblicata da HarperCollins Italia.

Jennifer L. Armentrout, che ha firmato, tra le altre, le serie The Dark Elements, Covenant, Titan e The Harbinger, ora è infatti protagonista con una nuova serie, Flesh and Fire, spin-off della saga Blood and Ash, di cui La guerra delle due regine -, in uscita in Italia il 29 agosto – è il quarto romanzo (di cui pubblichiamo di seguito un capitolo in anteprima).

E veniamo alla trama del quarto volume: Casteel Da’Neer ha provato sulla sua stessa pelle quanto la Regina di Sangue sia astuta e crudele, ma nessuno, nemmeno lui, avrebbe mai potuto prevedere fino a che punto si è spinta: ciò che ha fatto è a dir poco inimmaginabile. Niente impedirà a Poppy di liberare il suo Re e distruggere tutto ciò che la Corona di Sangue rappresenta.

Con la forza del Primordiale della Vita a guardarle le spalle e l’aiuto dei Wolven, dovrà convincere i generali di Atlantia a combattere la guerra a modo suo… perché a questo punto nessun’altra opzione è possibile se vuole costruire un futuro di pace per entrambi i regni.

Insieme, Poppy e Casteel devono abbracciare tradizioni vecchie e nuove per salvaguardare i loro cari e proteggere gli indifesi. Ma la guerra è solo l’inizio.

Gli antichi poteri primordiali si sono risvegliati, rivelando l’orrore di ciò che era iniziato secoli prima. E forse, per porre fine a ciò che la Regina di Sangue ha cominciato, Poppy dovrà diventare ciò che è stato profetizzato per lei… e ciò che teme di più.

In attesa dell’arrivo in libreria a fine agosto, su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

Cap. 13 pagg. 215-220

Il breve viaggio nella Foresta Tetra che circondava Quercia Quieta, oltre le prime file di alberi incurvati, fu tranquillo.

Gli unici rumori erano quelli degli aghi di pino e dei rametti sparsi sulla strada che si spezzavano. La luce del sole pioveva a chiazze, trasmettendo un senso di pace in completo contrasto con quello che stava per avvenire.

Sedevo rigida in sella e tenevo le redini di Setti come mi aveva insegnato Casteel. L’armatura era sottile e mi segnava le forme, soprattutto la corazza che mi copriva petto e schiena, ma non era esattamente la cosa più comoda che avessi mai indossato.

Era una necessità. Probabilmente sarei sopravvissuta alla maggior parte delle ferite, ma non volevo indebolirmi inutilmente, soprattutto se alla fine fosse stato necessario che usassi l’ethere. Emil cavalcava alla mia sinistra e non aveva mai avuto un’aria così seria come in quel momento, mentre scrutava di continuo i fitti gruppetti di alberi. Kieran era alla mia destra. Eravamo solo noi tre a cavalcare verso Quercia Quieta. O almeno così sembrava.

Volevo dare alle guardie sull’Alzata una possibilità di prendere la decisione giusta. Presentarmi con un esercito li avrebbe  messi immediatamente sulla difensiva, rendendo improbabile che aprissero i cancelli e permettessero di andarsene a chi lo avesse desiderato.

Ma non eravamo soli.

I Wolven si erano sparpagliati per la foresta e si muovevano silenziosi in cerca di soldati di Solis che potevano essersi nascosti tra i pini.

Un peso mi comprimeva il petto, rimescolando l’ethere che pulsava nel profondo di me, mentre Setti attraversava un sottile torrentello che aveva invaso la strada, sollevando spruzzi d’acqua e terriccio smosso. Eravamo stati sull’orlo della guerra quando la Regina di Sangue aveva ucciso Ian e preso prigioniero Casteel. Il conflitto era iniziato quando avevo ucciso Re Jalara. Ma questa… questa era la prima battaglia. Strinsi la presa sulle redini, con il cuore in tumulto.

Stava succedendo davvero.

Per qualche motivo, non me ne ero resa davvero conto fino a quel momento… Era diverso, rispetto a Massene. Era vera guerra. Tutta quella pianificazione e quell’attesa, e adesso sembrava surreale.

E se nessuno avesse corso il rischio di fidarsi di noi? E se fossero tutti rimasti dentro la città, perfino i Caduti? Il mio cuore iniziò a martellare forte a mano a mano che la possibilità di un massacro come quello che avrei voluto evitare diventava sempre più probabile di minuto in minuto.

Non potevo fare a meno di pensare che se Casteel fosse stato presente, avrebbe fatto qualche battuta per alleggerire l’umore.

Mi avrebbe fatto sorridere, nonostante quello che ci attendeva.

E probabilmente avrebbe anche detto qualcosa che mi avrebbe fatto arrabbiare… e, in segreto, elettrizzare.

E senza dubbio, senza dubbio, avrebbe apprezzato armi e armatura.

«Eccoli» ci avvisò Kieran in un mormorio. «Là davanti, sulla sinistra.»

Troppo timorosa per permettere alla mia mente di congetturare

ipotesi su quello che doveva avere visto, scrutai le zone frammentarie di luce.

«Li vedo» confermò Emil nello stesso istante in cui li vidi io.

Mortali.

Camminavano ai lati della strada sterrata, ed erano diverse dozzine… forse perfino un centinaio. Scorgendoci, rallentarono e si scostarono ancora di più dal sentiero battuto, lasciandoci spazio in abbondanza. Cercai di riesumare una parvenza di sollievo, ma il gruppo non si avvicinava neanche lontanamente alle decine di migliaia di persone che vivevano a Quercia Quieta.

Il profondo respiro che presi cancellò la delusione che mi si stava annidando nelle ossa. Un centinaio era meglio di nessuno.

Mentre ci avvicinavamo al gruppo dei mortali, molti dei quali portavano sulla schiena e tra le braccia grossi sacchi,

Emil mi si accostò. Con la coda dell’occhio, vidi che aveva posato la mano guantata sull’elsa della spada. Notai Kieran irrigidirsi al mio fianco. Sapevo che anche lui aveva spostato la mano su un’arma.

Aprii le percezioni, rivolgendole ai mortali, e quasi mi augurai di non averlo fatto. Non sentii altro che una mescolanza quasi soverchiante di densa preoccupazione e timore rivestita di paura. Le loro espressioni stanche rispecchiavano quello che provavano, distorcendo i volti di persone che molto probabilmente erano solo nel secondo o terzo decennio della loro vita. Mortali che avevano vissuto per così tanti anni sotto il dominio degli Ascesi.

Rallentarono e poi si fermarono, fissandoci in silenzio mentre li superavamo. I loro sguardi mi premevano addosso, e alcuni tra loro erano così preoccupati da proiettare le loro emozioni, rendendo più densa l’aria intorno a noi. Riuscii a chiudere i sensi.

Dopo avere passato così tanti anni con il divieto di lasciarmi guardare e velata, non mi ero ancora abituata a tutto questo.

A essere vista. Ogni muscolo del mio corpo pareva sul punto di mettersi a fremere sotto tutti quegli sguardi diretti, e dovetti sforzarmi al massimo per non cominciare ad agitarmi.

Osservandoli dall’alto, non sorrisi. Non perché temevo di apparire sciocca – una preoccupazione che in qualsiasi altro momento avrei avuto – ma perché non sembrava giusto, quando nessuno mi guardava direttamente negli occhi, che fosse per paura o per incertezza.

Nessuno tranne una bambina piccola, vicino al limitare del gruppo.

Mi fissava, con la guancia posata sulla spalla di quello che immaginavo fosse suo padre. Mi chiesi che cosa vedesse. Un’estranea?

Una regina sfregiata? Un volto che l’avrebbe perseguitata nel sonno? Oppure vedeva una liberatrice? Una possibile amica? Speranza? Osservai la madre, che camminava vicina a loro, posare la mano sulla schiena della bambina, e poi mi chiesi se era per quello che avevano corso quel rischio. Perché volevano un futuro diverso per la figlia.

«Poppy» mormorò Emil, attirando la mia attenzione. Feci rallentare Setti.

Più avanti, un uomo si era scostato da una donna dal volto pallido che reggeva in braccio un bambino così piccolo da arrivare probabilmente a malapena all’altezza della vita del suo cappotto di lana color crema.

«Vi prego. Non ho cattive intenzioni» disse l’uomo con voce roca. Le parole si riversavano fuori in fretta dalle sue labbra tremanti. «M-mi chiamo Ramon. C’è appena stato un Rito. Meno di una settimana fa» disse, lanciando un’occhiata a Kieran e poi a Emil. Lo stomaco mi si strinse in una morsa. «Hanno preso il nostro secondo figlio. Si chiama Abel.»

Lo stomaco mi si contrasse ancora di più. I Riti venivano tenuti nello stesso momento in tutta Solis… quando effettiva mente si tenevano. A volte passavano anni, e perfino decenni, tra l’uno e l’altro. Ecco perché i secondogeniti e le secondogenite venivano consegnati alla corte a età diverse. Lo stesso accadeva ai terzogeniti e alle terzogenite, che venivano consegnati ai Sacerdoti e alle Sacerdotesse. Non avevo mai sentito parlare di due Riti in un solo anno.

«Abel… si troverà insieme agli altri. Nel Tempio di Theon» continuò l’uomo. «Non siamo riusciti ad arrivarci prima di partire.»

Cominciai a capire. Sapendo quello che Ramon temeva, una paura probabilmente condivisa da molti altri dei presenti, ritrovai la voce. «Non stringeremo d’assedio i templi.»

Il sollievo dell’uomo fu così potente da infrangere i miei scudi con il sapore della pioggia primaverile. Un tremito lo scosse, riecheggiando nel mio cuore. «Se… se lo vedete… È solo un neonato, ma ha i capelli come i miei e gli occhi castani come la sua mamma.» Guardandoci uno dopo l’altro, si scrollò dalla spalla una delle cinghie del sacco che reggeva e lo aprì.

Sollevai una mano, facendo fermare Emil che stava per snudare la sua spada. Ramon, che non si era accorto di nulla, rovistò nella sacca. «M-mi chiamo Ramon» ripeté. «La sua mamma è Nelly. Abel conosce i nostri nomi. So che sembra una sciocchezza, ma giuro sugli dei che li conosce. Potete dargli questo?»

L’uomo tirò fuori un mucchietto di pelo marrone imbottito: un piccolo orsacchiotto floscio. Posò il sacco a terra e si avvicinò, lanciando occhiate nervose a Kieran e a Emil, che seguivano ogni suo movimento. «Potete dargli questo? Così ce lo avrà finché potremo tornare a prenderlo, e saprà che non lo abbiamo abbandonato.»

La sua richiesta mi fece bruciare gli occhi, togliendomi il fiato. Accettai l’orsacchiotto floscio. «Naturalmente» sussurrai.

«G-grazie.» Ramon giunse le mani e si inchinò, indietreggiando.

«Grazie, Vostra Altezza.»

Vostra Altezza

Detto da un mortale, aveva un suono diverso. Sembrava quasi una benedizione. Abbassai lo sguardo sull’orsacchiotto, morbido nonostante il pelo fosse a chiazze. Gli occhi fatti con bottoni neri erano ben cuciti. Profumava di lavanda.

Io non ero la loro regina.

Non ero una risposta alle loro preghiere, perché quelle preghiere avrebbero dovuto avere risposta molto tempo prima che arrivassi io.

«Diana» gridò qualcuno dietro a Ramon, e io alzai la testa di scatto. «La nostra seconda figlia. Diana. L’hanno presa durante il Rito, mesi fa. Ha dieci anni. Potete dirle che non l’abbiamo abbandonata? Che la aspetteremo?»

«Murphy e Peter» gridò un altro. «I nostri figli. Li hanno presi entrambi nel corso degli ultimi due Riti.»

Venne gridato un altro nome. Una terza figlia. Un secondo figlio. Fratelli. Nomi urlati verso i rami colmi di aghi riecheggiarono intorno a noi, e a ognuno di quei nomi le espressioni di Emil e Kieran si fecero più dure. Ce n’erano così tanti da diventare un coro di dolore e speranza, e quando l’ultimo venne gridato il mio cuore era ormai avvizzito.

«Li troveremo» dissi. E poi a voce più alta, mentre sentivo contrarsi una parte profonda di me, vicina alle mie gelide profondità, ripetei: «Li troveremo».

Strinsi l’orsacchiotto, mentre grida di gratitudine sostituivano i nomi… nomi che d’improvviso vidi incisi su una fredda parete di pietra fiocamente illuminata.

© 2022 Jennifer L. Armentrout © 2023 HarperCollins Italia
Traduzione di Sara A. Benatti
Pubblicato in accordo con The Italian Literary Agency e Taryn Fagerness Agency

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