“Come d’aria” racconta di una figlia il cui destino è segnato sin dalla nascita da una mancata diagnosi; e di una madre che, sulla soglia dei cinquant’anni, scopre di essersi ammalata. Un romanzo d’esordio, quello di Ada d’Adamo, in cui tutto passa attraverso i corpi – Su ilLibraio.it un estratto

Ada d’Adamo, nata a Ortona (Abruzzo), vive e lavora a Roma, dove è diplomata all’Accademia Nazionale di Danza e laureata in Discipline dello Spettacolo.

Ha trascorso molto tempo a osservare il corpo e le sue declinazioni sulla scena contemporanea, e lo ha scritto in diversi saggi sulla danza e il teatro.

Il suo primo romanzo, Come d’aria (Elliot) racconta di Daria, la figlia, il cui destino è segnato sin dalla nascita da una mancata diagnosi. Ada è la madre, che sulla soglia dei cinquant’anni scopre di essersi ammalata. Questa scoperta diventa occasione per lei di rivolgersi direttamente alla figlia e raccontarle la loro storia. Tutto passa attraverso i corpi di Ada e Daria: fatiche quotidiane, rabbia, segreti, ma anche gioie inaspettate e momenti di infinita tenerezza. Le parole attraversano il tempo, in un costante intreccio tra passato e presente.

Ada d'Adamo Come d'aria

Per gentile concessione della casa editrice, su ilLibraio.it proponiamo un estratto:

Quando hai un figlio disabile cammini al posto suo, vedi al posto suo, prendi l’ascensore perché lui non può fare le scale, guidi la macchina perché lui non può salire sull’autobus. Diventi le sue mani e i suoi occhi, le sue gambe e la sua bocca. Ti sostituisci al suo cervello. E a poco a poco, per gli altri, finisci con l’essere un po’ disabile pure tu: un disabile per procura.

Sono certa che questa sia la ragione per cui molte persone mi chiamano col tuo nome. Un lapsus frequente, un processo di identificazione inevitabile. Trascorrere ore e ore della propria esistenza negli ospedali, nei centri di riabilitazione, nelle Asl, in compagnia di medici, infermieri, fisioterapisti, famiglie di disabili non fa che accelerare questo processo di progressiva sostituzione dell’identità. Non sono io, sono “la mamma di Daria”. Anzi, sono “la mamma” e basta. Entrare nelle corsie degli ospedali significa ogni volta smettere i miei panni e diventare “mamma”. Così ci chiamano le infermiere. Non signora. Mamma. Non più donna, non più persona, sono un ruolo, una “funzione di te”. Del resto, siamo noi madri le prime a chiamarci così.

«Ti prude? Mamma ti gratta» dice Tatiana, sdraiata nel letto di fronte al tuo, accanto al piccolo Lorenzo, durante una notte interminabile di pianto.

Ti duole? Mamma ti massaggia. Hai caldo? Mamma ti sventola. Hai freddo? Mamma ti copre. Ti brucia? Mamma ci soffia. Hai sonno? Mamma ti culla. Non dormi? Mamma ti racconta. Piangi? Mamma ti consola.

Le sale d’attesa sono i luoghi degli incontri. Madri e figli, qualche volta padri. Nei bambini rivedo te piccolissima, o una tua proiezione cresciuta in un futuro prossimo. Nelle donne mi guardo allo specchio. In loro ritrovo parti di me, prove di coraggio e momenti di fragilità in egual misura.

Nelle coppie scruto gerarchie e ruoli, rapporti di forza e reciproche dipendenze. A volte quel che vedo mi fa orrore. Donne depresse, sovrappeso, aggrappate a sacchetti di patatine e bibite gassate, eternamente in tuta e scarpe da ginnastica. Donne con gli occhi cerchiati da notti insonni, le braccia

segnate dai graffi e dai morsi dei figli, i capelli che non vedono un parrucchiere da mesi. O, all’opposto, madri eroine: quelle con i superpoteri, truccate e vestite di tutto punto a qualsiasi ora del giorno, che non perdono un colpo, non mostrano il minimo cedimento. E poi madri iene, sempre incazzate, perennemente in trincea perché “guai a chi mi tocca mio figlio”. Erano così anche prima? E io, com’ero prima? E come sono diventata? Non voglio essere come loro.

Nelle sale d’attesa, di fronte al dolore degli altri, le piaghe si rinnovano. Il mio tormento è il loro, un moltiplicarsi all’ennesima potenza. I primi tempi non riuscivo a sopportarlo. Trascorrevo day hospital interi a piangere dietro un paio di occhiali scuri mentre davanti mi passava l’inferno.

Alcune figure mi restano conficcate nella memoria.

Una ragazza in sedia a rotelle si morde continuamente la mano destra mentre la madre cerca di trattenerla una, dieci, cento volte. L’ematoma violaceo sul dorso della mano.

Un ragazzino ulula, a intervalli regolari. Come un lupo. Come deve essere avere in casa un lupo che ulula tutto il giorno?

Una bambina sordo-cieca fa le pernacchie. So che la sua è una strategia per sentirsi, eppure non lo sopporto, è più forte di me. Come si può tollerare tutto il giorno quel suono così fastidioso nelle orecchie? Cosa farei se capitasse a me?

Una coppia di genitori, lei intorno ai cinquanta, lui più vecchio. Una figlia adolescente semisdraiata in carrozzina, il bavaglino gigante, il thermos pieno di sbobba frullata. La madre – ai piedi un paio di décolleté col mezzo tacco – alterna rapide cucchiaiate ad altrettanto rapide puliture di bocca. Il padre – zazzera di capelli completamente bianchi – dopo il pranzo la coccola con infinite carezze. Distribuzione dei compiti, gioco di equilibri che un nonnulla può mandare in frantumi. L’ho visto accadere decine di volte: discutere per una manica di pigiama infilata al contrario, per un cuscino sistemato male, per una flebo sfiorata accidentalmente. Quante recriminazioni premono contro la sottile pellicola del silenzio, pronte a sputarsi fuori come un fiotto di vomito, le notti insonni a fare da detonatore. Il nostro terzetto fronteggia il terzetto più anziano. Vedo noi tre, come riflessi in uno specchio, in un tempo non lontano in cui i nostri occhi saranno un poco più spenti di oggi. Come quelli di mezzotacco, zazzera e sbobba, lì di fronte a noi. L’angoscia mi avvolge, guardo il tuo babbo e so che anche lui vede noi, proprio lì di fronte, riflessi nel futuro che ci aspetta. Ci abbracciamo, come due naufraghi condannati a sopravvivere.

E poi ricordo Morticia e Omino Michelin, mamma e figlio. Lei sottile come un’acciuga, completamente vestita di nero, gli occhi bistrati, la pelle bianchissima, i capelli lisci, corvini. Lui, otto anni, la testa rasata, gonfio di cortisone, seduto sul letto di fronte al nostro. Sta facendo i compiti. Ha un cancro al cervello e, mentre aspetta di morire, lui fa i compiti. Non gioca alla PlayStation, non fa i capricci, non ascolta la musica, non si lamenta. No: fa i compiti col suo bravo quaderno e fa di tutto per non disturbare.

La notte, in ospedale, per me è quasi impossibile dormire: se mi va bene, a tenermi sveglia sono i guai degli altri; ma più spesso sei tu a stare male, ad aver bisogno di me. Il giorno sembra non arrivare mai. Durante uno di questi risvegli mi alzo dalla poltrona letto e lo vedo lì, l’Omino Michelin, nella penombra, di fronte a me. Si è sollevato a sedere sul letto e mi fissa con uno sguardo che non dimenticherò mai. Un piccolo Buddha silenzioso, una sfinge impenetrabile. Non dice nulla, non si

muove, non sorride, quasi non respira. Non vuole dare fastidio, non vuole svegliare sua madre, si preoccupa per lei. Tanto autocontrollo, tanta consapevolezza della propria condizione mi atterriscono. È una creatura ultraterrena. Prima di lasciare l’ospedale, abbraccio Morticia. Com’è diversa, vista da vicino. I suoi occhi sono chiarissime acque trasparenti nelle quali si potrebbe annegare, una volta superata la sponda nera del trucco troppo carico. Saluto il suo bambino bravo, educato, studioso.

Lo immagino incamminarsi già verso un altro mondo.

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