Capace di sviluppare nelle sue opere un pensiero struggente, filosofico, profondo e finemente elaborato, Giacomo Leopardi (1798-1837) è considerato uno dei poeti di maggiore rilievo dell’Ottocento italiano, autore di opere come “Zibaldone di pensieri”, “Operette morali” e “Canti” – Un viaggio nella sua vita e nelle sue opere

Giacomo Leopardi (1798-1837), al secolo Giacomo Taldegardo Francesco Salesio Saverio Pietro Leopardi, considerato uno dei poeti di maggiore rilievo dell’Ottocento italiano, è un esponente del Romanticismo letterario (anche se la critica del Novecento lo vede più come un precursore dell’Esistenzialismo) capace di sviluppare nelle sue opere un pensiero struggente, profondo e finemente elaborato.

Filologo erudito e intellettuale dall’ingegno vivace, Leopardi ha vissuto un’esistenza tormentata, segnata in ogni sua fase da una densa produzione in prosa o in versi: ecco di seguito le tappe e i concetti principali da tenere a mente per ricostruire la complessità della sua figura.

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Un natìo borgo selvaggio

Nato il 29 giugno 1798 a Recanati, ora cittadina delle Marche e all’epoca sotto il controllo dello Stato Pontificio, Giacomo Leopardi è il primo di dieci figli messi al mondo da una delle famiglie più nobili del territorio. Suo padre è infatti il conte Monaldo, un reazionario e amante delle lettere, mentre sua madre è la marchesa Adelaide Antici, una donna fortemente legata alla religione e alle convenzioni sociali.

Affidato fin da piccolo a due precettori ecclesiastici, Giacomo Leopardi si rivela subito un prodigio di memoria, traduzione e scrittura, al punto da diventare motivo di vanto per i genitori e da appassionarsi all’apprendimento di lingue come il latino, il greco, il francese e l’ebraico.

Vista di Casa Leopardi oggi

Vista di Casa Leopardi oggi, a sinistra nella foto (GettyEditorial 22/06/2022)

Il periodo dell’infanzia e dell’adolescenza, però, vede l’energia del giovane spegnersi gradualmente, a causa del comportamento freddo e impettito della madre e dell’incapacità del padre di capire i suoi disagi, motivo per cui dal 1809 al 1816 Giacomo Leopardi si dà a sette anni di “studio matto e disperatissimo”, come li definirà poi in una lettera all’amico Pietro Giordani datata 2 marzo 1818 e contenuta nell’Epistolario edito da Bollati Boringhieri, a cura di Francesco Brioschi e Patrizia Landi.

È in questo periodo che il poeta approfondisce la filologia, si dedica alla traduzione di grandi autori classici come Omero, Virgilio e Orazio, e soprattutto si avvicina al pensiero dell’illuminismo francese. I suoi problemi di vista e di scoliosi peggiorano visibilmente, ma in compenso la sua erudizione raggiunge vette sorprendenti per la sua età, portandolo a trovare nello studio una possibilità di evasione e di conforto dai malesseri a cui va incontro nel suo “natìo borgo selvaggio“.

Dallo studio alla scrittura

Proprio durante la fase di fitta concentrazione in biblioteca, Giacomo Leopardi compone per la prima volta delle opere di suo pugno: inizia nel 1813 con la Storia dell’astronomia, seguita nel 1815 dal Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, anche se è solo nel 1816 che si avvicina alla poesia, ammirando la sua capacità di concentrare in uno spazio ridotto ed esteticamente molto curato dei concetti di grande spessore filosofico.

Copertina del libro Canti di Giacomo Leopardi

Incoraggiato a continuare da Pietro Giordani stesso, poeta a cui invia i suoi primi tentativi, fra il 1819 e il 1822 Giacomo Leopardi compone allora alcune canzoni civili come Ad Angelo Mai, Bruto Minore e Ultimo canto di Saffo, e soprattutto alcuni dei Piccoli Idilli per i quali è più conosciuto ancora oggi: da Alla luna a La sera del dì di festa, senza dimenticare il celeberrimo L’infinito, che si chiude con il toccante distico “Così tra questa infinità s’annega il pensier mio: / e ‘l naufragar m’è dolce in questo mare”.

Sonetto dedicato alla fuga del pensiero di fronte all’immensità dello spazio circostante, al senso di pace a cui segue poi una condizione di sgomento per il destino dell’uomo, e all’impressione finale di fondersi con l’universo, quest’ultimo è infatti una testimonianza della sorprendente capacità che ha Giacomo Leopardi di usare delle raffinate figure retoriche per veicolare un messaggio pregnante ed evocativo.

La teoria del piacere e il pessimismo storico

Gli anni della giovinezza, come anticipavamo, sono per il poeta anche una fonte di profonda insoddisfazione che nel 1919 lo portano a tentare avventurosamente la fuga dopo avere ricevuto una visita di Giordani. Il suo tentativo viene però scoperto in tempo dal padre, il quale gli impedisce di lasciare la casa gettandolo in una tormentata depressione: Giacomo Leopardi vorrebbe vedere il mondo, visitare le città d’arte di cui ha sentito parlare nei libri, mentre la speranza della sua famiglia è addirittura di indirizzarlo verso la vita ecclesiastica.

Nel tempo trascorso tra le quattro mura domestiche, spinto anche dalle vicissitudini personali che sta dovendo affrontare, Giacomo Leopardi matura così una posizione convintamente atea, in cui il materialismo illuminista incontra il sensismo – posizione filosofica che riconduce ogni forma di conoscenza all’esperienza che se ne può fare attraverso i cinque sensi.

Copertina del libro Zibaldone di pensieri di Giacomo Leopardi

All’interno dello Zibaldone di pensieri (di cui consigliamo l’edizione Garzanti, con un’introduzione di Paolo Ruffilli e la prefazione e le note a cura di Ugo Dotti) che inizia a comporre a partire dal 1817, però, il poeta muove dei passi avanti ed elabora una visione già più sua dell’esistenza, che senza mai rinunciare all’anelito per il benessere e alla gioia di vivere lo porta a ritenere che l’uomo sia una creatura destinata a desiderare senza sosta il piacere, pur non riuscendo mai a raggiungerlo in maniera totale.

La ragione è da ricondurre, stando alla sua concezione del pessimismo storico, nell‘allontanamento delle società umane dallo stato di natura, che nel privare l’individuo del contatto diretto con l’ambiente naturale ha infranto le sue illusioni e lo ha reso più infelice, lasciandogli come unica consolazione le arti e la poesia.

I viaggi in Italia di Leopardi

Il desiderio viscerale di conoscere meglio l’Italia si concretizza finalmente nel 1822, quando Giacomo Leopardi viene invitato a soggiornare a Roma per cinque mesi dai suoi zii materni: le sue aspettative nei confronti della capitale sono smisurate, trattandosi della patria di illustri letterati del passato a lui molto cari, ma la realtà delude ben presto l’interesse che aveva riposto nel viaggio.

A colpirlo sono in particolar modo la corruzione della Curia, le squallide condizioni delle strade, l’abbondante presenza di prostitute, cosicché l’unico momento di vera emozione nel corso della sua permanenza finisce per essere la visita alla tomba di Torquato Tasso (1544-1595) presso il convento di Sant’Onofrio, al Gianicolo.

La tomba di Torquato Tasso-min

Tomba di Torquato Tasso (fonte: WikiCommons)

Tornato a Recanati nel 1823, Giacomo Leopardi riparte poi due anni dopo per Milano, città in cui collabora con l’editore Stella e offre ripetizioni private nel tentativo di rendere le sue condizioni economiche un po’ meno precarie. Successivamente ha l’occasione di abitare a Bologna, a Firenze (dove frequenta il circolo Vieusseux) e infine a Pisa nel 1828: è qui che, dopo anni di silenzio poetico, torna a scrivere in versi inaugurando il cosiddetto ciclo dei Canti pisano-recanatesi (o Grandi Idilli), dei quali fanno parte liriche come A Silvia, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia e Il passero solitario.

Il pessimismo cosmico e la natura matrigna

Nell’ispirazione ritrovata del poeta, le tematiche che emergono sembrano ora più mature, più amare, e prendendo spunto dalla sua delusione romana acquisiscono una sfumatura diversa rispetto al pessimismo storico iniziale. Giacomo Leopardi si è infatti convinto che ad avere sottratto all’uomo le sue illusioni non sia il cammino intrapreso dalla società, bensì la Natura stessa – impassibile al dolore e alle ingiustizie, e per questo più matrigna che madre dei viventi.

Conseguenza diretta del suo pensiero diventa quindi la percezione che chiunque sia condannato a una sofferenza senza fine, intervallata solo da qualche sprazzo di piacere che non dura e da un’ambizione alla felicità destinata a rimanere insoddisfatta: è il cosiddetto pessimismo cosmico.

Copertina del libro Operette morali di Giacomo Leopardi

Una delle opere di Giacomo Leopardi in cui emerge con più compiutezza la sua visione si intitola Operette morali (di cui consigliamo l’edizione Garzanti), una raccolta di ventiquattro componimenti in prosa che sono impostati o in forma di dialogo o in forma di novella, e tramite i quali viene chiarita la considerazione dell’autore in riferimento alla storia, ai suoi simili e alla Natura stessa.

Caratterizzate da un sentimento di impotenza e di disincanto, le Operette costituiscono pertanto uno sfaccettato manifesto filosofico, dallo stile cangiante e dalla retorica elaboratissima, di cui ricordiamo fra le più significative il Dialogo della Moda e della Morte, il Dialogo della Natura e di un Islandese, il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, il Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico.

Amore e morte

Quando il rapporto di lavoro con Stella si conclude, a Giacomo Leopardi non resta tuttavia che rientrare a Recanati per “sedici mesi di notte orribile”, che fra un tormento e l’altro portano il poeta a comporre alcuni dei suoi versi più famosi (confluiti poi nella raccolta onnicomprensiva Canti, di recente ripubblicata da Guanda in due volumi a cura di Luigi Blasucci).

Fortuna vuole che poco dopo lo scrittore Pietro Colletta (conosciuto a Firenze) lo aiuti a tornare nel capoluogo toscano, dove Giacomo Leopardi viene peraltro eletto socio dell’Accademia della Crusca il 27 dicembre 1831. Durante la sua permamenza fonda un giornale che non vedrà mai la luce, Lo spettatore fiorentino, innamorandosi intanto della nobildonna Fanny Targioni Tozzetti: a lei è dedicato l’intero Ciclo di Aspasia, una silloge poetica di cui fanno parte Il pensiero dominante, Amore e Morte, A se stesso e Aspasia, e fra le cui righe si intuisce il dolore dell’autore per essere stato rifiutato.

Copertina del secondo volume di Canti di Giacomo Leopardi

L’angoscia amorosa, quantomeno, viene controbilanciata dall’inizio di un’amicizia per Giacomo Leopardi preziosissima, quella con il giovane letterato Antonio Ranieri, che essendo stato diffidato dalla polizia borbonica per le sue posizioni politica si sposta da tempo fra Paesi e centri urbani diversi. Fra i due si sviluppa un legame fraterno, accorato, che prosegue in forma epistolare finché Ranieri, tornato a Napoli, non ospita Giacomo Leopardi in casa propria, prendendosi cura delle sue precarie condizioni di salute insieme alla sorella Paolina.

Il poeta continua a scrivere schierandosi contro la fiducia cieca che gli uomini concedono al progresso scientifico, per poi pubblicare il poemetto satirico Paralipomeni della Batracomiomachia con l’obiettivo di criticare i moti liberali del 1820-21 e del 1831 che stanno facendo tremare l’Italia. Per scampare all’epidemia di colera del 1836 si trasferisce infine con l’amico a Torre del Greco, ai piedi del Vesuvio, e lì riuscirà a comporre due ultime liriche (La ginestra o il fiore del deserto e Il tramonto della luna) prima di spegnersi il 14 giugno 1837 mentre mormora a Ranieri: “Addio, Totonno, non veggo più luce“.

Dal male personale all’amore cosmico

Il punto di arrivo della produzione di Giacomo Leopardi è anche il più alto del suo pensiero di una vita, quello che gli permette di lasciare un vero e proprio testamento poetico nelle sette strofe che compongono La ginestra. In questo arbusto che resiste alle intemperie piegandosi ma non umiliandosi mai, l’autore rintraccia infatti un’ultima metafora della condizione umana, spesso ingannata dagli idoli del presente e incapace di riconoscere la propria miseria.

A differenza di chi ha criticato la sua posizione, Giacomo Leopardi riafferma invece l’importanza di chiamare con il suo nome l’infelicità individuale e di attribuirne la colpa alla Natura, che dovrebbe trovare nella collettività umana un nemico comune e una nuova “social catena“, in grado di costruire una rete di solidarietà fra tutti gli abitanti del mondo.

Copertina dell'epistolario di Giacomo Leopardi

Solo l’amore cosmico potrà d’altronde contrapporsi alla sofferenza e al pessimismo cosmico teorizzati dal poeta, non appena l’uomo riuscirà a rendersi conto della propria finitezza e piccolezza rispetto a un universo antichissimo, e che per di più detiene un potere distruttivo incontrastabile. L’umiltà, il coraggio di guardare in faccia la realtà e l’altruismo di fronte alla miseria sono, in altre parole, le uniche ed eroiche risorse a nostra disposizione, in grado di alleviare anche solo temporaneamente la nostra permanenza sulla terra.

[…] E tu, lenta ginestra,
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
già noto, stenderà l’avaro lembo
su tue molli foreste. E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver’ le stelle,
né sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma piú saggia, ma tanto
meno inferma dell’uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali.

Fotografia header: Giacomo Leopardi (1798-1837) nel celebre ritratto di Stanislao Ferrazzi

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