Quale forma espressiva, se non la poesia, può ambire a esprimere concetti complessi e profondi in poche parole? In questo articolo ci soffermiamo nello specifico su tre versi celeberrimi della poesia italiana (da Dante a Montale, passando per Leopardi), che sono stati in grado di lasciare una traccia indelebile nel nostro immaginario…
Ci sono dei casi in cui l’arte, in ogni sua forma, colpisce nel segno al punto da imprimersi nella mente di chiunque ne fruisca. Accade con certe melodie, con le scene di film diventati ormai dei cult, e anche e soprattutto con la letteratura, le cui parole a volte sono scelte con tanta cura evocativa da entrare a pieno titolo nell’immaginario collettivo per intere generazioni.
E quale forma espressiva, se non la poesia, può ambire a esprimere concetti complessi e profondi in poche parole, offrendo uno sguardo sul mondo (esterno, ma anche interiore) carico di significati e di suggestioni?
In questo articolo vogliamo concentrarci su tre versi della poesia italiana molto famosi, appartenenti a epoche e a scrittori diversi, ma che sono stati in grado di lasciare tutti e tre una traccia indelebile fra le generazioni a venire…
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Amor ch’a nullo amato amar perdona
Cominciamo con Dante Alighieri (Firenze 1265 – Ravenna 1321), padre della letteratura italiana e autore di quella Commedia, poi definita Divina da Giovanni Boccaccio, il cui V canto dell’Inferno è dedicato a una fra le storie d’amore più strazianti di tutti i tempi: la vicenda di Paolo Malatesta e Francesca da Rimini, collocati dal poeta nel II cerchio, ovvero quello dei lussuriosi.
La giovane avrebbe dovuto sposare Gianciotto Malatesta, fratello di Paolo, ma era stata convinta con l’inganno a dare il proprio consenso e all’inizio credeva di sposare il secondo al posto del primo. Dopodiché, rimasta da lui coinvolta amorosamente anche dopo le nozze, durante una giornata trascorsa insieme a leggere dei teneri sentimenti sbocciati fra Lancillotto e Ginevra, aveva scambiato con lui un bacio tenero, sensuale, e poi sfortunatamente letale per entrambi.
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La loro unione d’anime, però, è così forte da permettere che restino eccezionalmente vicini perfino all’Inferno, dal momento che l’amore, quando coglie il cuore, a nullo amato amar perdona, cioè non perdona a nullo amato amar, che in altre parole significa: non risparmia a nessuna persona amata da qualcun altro la necessità di amarla a propria volta, sancendo così un’ineluttabilità e reciprocità dei sentimenti capace tuttora di suscitare grande commozione.
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E il naufragar m’è dolce in questo mare
E veniamo a un altro intellettuale principe della letteratura italiana, il filosofo, poeta e filologo marchigiano Giacomo Leopardi (Recanati 1798 – Napoli 1837), passato alla storia soprattutto per il suo Zibaldone di pensieri, per le Operette morali e per i suoi Canti. Questi ultimi, la cui prima edizione venne pubblicata nel 1831, comprendono la produzione in versi più nota e più brillante del poeta, all’interno della quale non si può non menzionare, fra le altre, la lirica L’infinito.
Scritto negli anni della giovinezza, mentre ancora Leopardi viveva nel paesino di Recanati, il componimento è dedicato ai diversi stati d’animo percepiti dall’essere umano nel momento in cui si trova a stretto contatto con la natura, situazione che con le sue manifestazioni e con i suoi spunti di riflessione mantiene una straordinaria attualità e pregnanza a oltre due secoli di distanza.
La fuga del pensiero di fronte all’immensità dello spazio circostante, il senso di pace a cui segue poi una forte condizione di sgomento per il destino dell’uomo, l’impressione di fondersi irrimediabilmente con l’universo tutto: con delicatezza e lirismo, e con una incredibile padronanza delle più elaborate figure retoriche, Leopardi ci porta infatti a perderci un verso dopo l’altro in quello stesso infinito, affondando poi in modo ossimorico, e con dolcezza, nelle acque cosmiche in cui tutti siamo sempre immersi.
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Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
Concludiamo con una poesia più recente, e che tuttavia viene già da decenni considerata imprescindibile fra i capisaldi della letteratura italiana del XX secolo: composta nel 1967 dallo scrittore, traduttore e critico Eugenio Montale (Genova, 1896-1981), Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale è la quinta poesia di Xenia II, a sua volta inserita successivamente nella raccolta Satura.
Il poeta genovese la dedicò alla moglie e scrittrice Drusilla Tanzi, morta nel 1963 dopo solo un anno di matrimonio, e nel verso iperbolico che apre la lirica riuscì a condensare l’affiatamento profondissimo che avevano condiviso: la donna, pur essendo miope e avendo quindi bisogno del sostegno del marito in alcune circostanze quotidiane, fu però di sostegno a Montale su altri fronti, e stando alle sue stesse parole ebbe un ruolo fondamentale nella presa di coscienza da parte del poeta del fatto che la realtà non sia tanto (e non sia solo) quella che si vede.
Il vuoto lasciato dalle scale non più scese in due diventa, allora, l’occasione per ricordare quanto si nasconda al di là delle incombenze di ogni giorno, quanto offuscate siano di solito le nostre pupille e quanto, grazie all’amore da un lato e alla poesia dall’altro, possiamo imparare finalmente a vedere l’essenziale.