Tra la tradizione letteraria ottocentesca e un ritmo da serie tv, nel romanzo epistolare “Gotico salentino” Marina Pierri racconta di femminismo, legami famigliari, psicoterapia e patriarcato – Su ilLibraio.it un capitolo

Filomena Quarta – ex giornalista quarantenne, da poco orfana di padre – si ritrova all’improvviso in bolletta e con un’ingombrante eredità: la Dimora Quarta, un’enorme casa che appartiene da generazioni alla sua famiglia. Così, si vede costretta a lasciare Milano e la sua vita di prima per raggiungere Palude del Salento. L’idea è quella di rendere la casa –”perfettamente ammodernata, dieci camere da letto, a pochi chilometri dal Mar Ionio” – un sontuoso Bed&Breakfast.

Questo, se solo la dimora non fosse parte del problema: è, da sempre, infestata. E del resto Filomena, quando era bambina, proprio tra quelle mura ha visto un fantasma.

La malumbra, lo spettro rabbioso di una monaca oscura, è il motivo per cui Filomena a sei anni venne soprannominata dagli abitanti di Palude la striacaite li muerti, la bambina che vede i morti. E mentre i coetanei la emarginavano e gli adulti avanzavano improbabili richieste (colloqui con mariti defunti, tentativi di contatto con la cognata trapassata che sicuramente sa dov’è il plico del catasto, e persino la prete sa di avere i numeri buoni del Totocalcio), la famiglia Quarta ne approfittava per nascondere piú a fondo le sue colpe. Ma oggi Filomena non è più una bambina sperduta, e non è più sola. Con lei ci sono le fantasime che suo malgrado è riuscita a evocare: Mary Shelley e Shirley Jackson, le regine del terrore, che si riveleranno indomite e fidate consigliere.

Gotico salentino (Einaudi) è il debutto narrativo di Marina Pierri, che rinnova “la tradizione del feuilleton” e la contamina “con l’immaginario nero e giocoso di Tim Burton”. Pierri (qui una nostra intervista) non è un’esordiente assoluta: narratologa, già direttrice artistica di FeST – Il Festival delle Serie Tv di Milano, è attiva in rete e ha firmato saggi come Lila (Giulio Perrone, 2023) e Eroine – Come i personaggi delle serie TV possono aiutarci a fiorire (Tlon), che torna in libreria dopo cinque anni dalla pubblicazione, in una nuova edizione ampliata con prefazione di Maura Gancitano.

In bilico tra la tradizione letteraria ottocentesca e l’andamento scatenato delle serie tv, nel suo romanzo epistolare Pierri racconta di femminismo, legami famigliari, psicoterapia e patriarcato.

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Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

DATA: 20 settembre 2023, 12.21
OGGETTO: Mary & Jane

Mentre spacchettavo ulteriori cartoni di libri, che annoverano almeno dieci edizioni diverse del Frankenstein in italiano e in inglese (e altrettante biografie di Mary Shelley comprensive di alcune appendici che ne riportano piú che parzialmente i carteggi), ho pensato ch’è arrivato il momento di raccontarle dell’idea per il mio romanzo. 

Di tutte le autrici gotiche che ho letto, Mary Shelley è quella che sento piú vicina. Da che ricordi, ho sempre desiderato una macchina del tempo per incontrarla e chiederle delle circostanze principali della sua vita. Non tanto di quanto accadde con la cricca di Villa Diodati, John Polidori e Lord Byron, nel famoso «anno senza estate» sul lago di Ginevra: quella è la sezione meglio documentata del suo tempo. E nemmeno del periodo seguito alla morte di Percy Shelley, forse meno scintillante e piú gradevolmente ordinario, dopo patimenti generati da figli morti, tradimenti e debiti. La mia curiosità si è spesso concentrata, piuttosto, su ciò che avvenne a Villa Magni, vicino a Lerici e precisamente a San Terenzo, in Liguria. 

Furono mesi difficili, quelli a Villa Magni. O almeno credo. Mary e Shelley abitavano nella villa con i coniugi Williams (Edward, e soprattutto Jane) e si parlavano a malapena. Lui sosteneva che lei fosse anaffettiva e arrogante; in realtà era concentrato su Jane, e sui soldi che non bastavano mai. Faceva a gara a chi ce l’aveva piú lungo con Byron. La competizione di cazzi della cosiddetta Corsair Crew, «Cricca Corsara», si giocava, in gran parte, sulla possanza delle loro barchette. Pensi che pur di fare sembrare la sua Don Juan piú possente, Shelley aveva fatto allungare il bompresso e aggiungere una falsa poppa con fine esclusivamente estetico. Byron era ricchissimo; Shelley in debito. Era il massimo su cui poteva puntare: le apparenze. 

Per molti fu proprio la Don Juan truccata a uccidere Shelley, specie considerato che non sapeva nuotare. Con lui, al momento del naufragio, c’era anche Edward Williams. 

Shelley e Williams erano salpati il 1° luglio 1822 alla rotta di Livorno. Stavano trafficando per fondare un giornale di nome «The Liberal», che secondo le loro teste bacate avrebbe garantito un introito costante, ed erano andati a trovare degli amici, cioè gli Hunt. L’8 luglio, incuranti delle avvisaglie d’un cielo cupo, i due s’erano messi a navigare verso casa, attesi da Mary e Jane. Il 12 luglio una lettera ignara di Leigh Hunt veniva recapitata a Villa Magni: non un campanello d’allarme, ma una sirena dispiegata. Hunt si augurava che il viaggio dei mariti fosse andato bene. Ma com’era possibile, se i due uomini non erano mai tornati? 

Jane e Mary si gettarono praticamente in strada, coltivando la speranza che i mariti fossero vivi. Passarono notti nelle locande e dormirono quasi nulla fino a che, il 19 luglio, vennero a sapere dei corpi spiaggiati vicino a Livorno. Furono cremati un mese piú tardi, a Viareggio. 

Mary, venticinque anni, era malferma e malnutrita. Gli Shelley erano vegetariani ma non era come essere vegetariani oggi, si suppone non avessero nemmeno le basi o i mezzi economici per un’alimentazione equilibrata. Cosí, l’autrice di Valperga era rimasta incinta per la quinta volta e aveva avuto un aborto spontaneo quasi letale. Di cinque bambini e bambine, del resto, solo uno ne era sopravvissuto a quel punto, cioè Percy Florence. 

In tutto questo, la stessa Mary ha confermato in alcune lettere che tra lei e Jane non ci fosse un’amicizia meramente platonica. La faccenda non sorprende. Jane era stata l’ultima fiamma di Shelley, che da sempre credeva nel libero amore. Non starò qui a sottolineare che aveva già lasciato due suicide, presumibilmente per crepacuore, dietro di sé: la prima moglie Harriet Westbrook, e la sorellastra di Mary, Fanny Imlay, o cosí pare. 

Marina Pierri, autrice di Gotico Salentino

Marina Pierri, foto di Sara Moschini

Dottoressa, se ha letto L’amica geniale di Elena Ferrante, mi capirà se scrivo che Shelley era il Nino Sarratore dei romantici. Infatti, Mary traeva godimento dal compiacerlo e aveva provato ad assecondare i suoi tentativi di realizzare un nucleo famigliare non convenzionale. Si sviluppano rami storti quando tentiamo di adeguarci alle traiettorie disegnate per noi da altre persone, ma la crescita non si arresta. La mia tesi è che dunque, sí, ci sia stato qualcosa tra le vedove. Mi sono chiesta se non fossero stati proprio i giorni di attesa di notizie sui mariti, i piú gloriosi del loro flirt. «Amore» sembra una parola grossa ma, anche qui, cosa ne sappiamo? Mary era consapevole che avremmo letto le sue lettere, forse, e dico avremmo perché pensava a noi; a me e a lei, alla gente che oggi passa per la Bodleian Library e a quella che oggi consulta online gli Shelley Archives e forse continuerà a farlo anche nel 2100. Vedeva lontano. Sapeva con certezza che nessuna delle parole che scriveva sarebbe rimasta sua. 

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Questo lungo panegirico per informarla che ho deciso di scrivere una sorta di romantizzazione del lasso di tempo in cui Mary Shelley e Jane Williams hanno cercato i mariti morti in giro per Liguria e Toscana. Il mio tropo narrativo preferito è quel che nelle fanfiction si definisce friends to lovers, e credo di aver bisogno di cullarmi in qualcosa che mi dia gusto e piacere, in questi giorni di aggiustamento e prima che la Dimora mi dia il suo da fare. 

Più ci penso, e più questo romanzo mi pare un’ottima idea. Mio compito sarà mantenere una buona salute mentale. Corrispondere con lei, sebbene unilateralmente, mi aiuta; mi fa sentire meno sola e sembra dare continuità a questa metamorfosi. In momenti come questo mi sento piuttosto ottimista. Mi dico che ce la farò. Che devo concentrarmi sulle cose importanti. E la cosa importante è la mia scrittura. 

Di Orlando Trispét o di qualunque altro morto, per il momento, nessuna traccia. Si può definire medium una che, in vita sua, ha visto o creduto di vedere a sei anni un paio di miseri fantasmi? La conversazione di ieri con Antonio mi ha fatta riflettere. Forse ora che papà non c’è più ho chiuso con Milano, con la professione che ho svolto per vent’anni e probabilmente con un intero capitolo della mia storia: è tempo che inizi a mettermi in dubbio. 

Nel contesto in cui sono cresciuta, il confine tra devozione e superstizione era estremamente labile. Non mi sorprenderebbe se le mie fantasie fossero state impropriamente alimentate. Chissà se le è mai venuto in mente che i miei ricordi fossero una tensostruttura montata ad arte per resistere alle intemperie psichiche di una famiglia intera. Il risultato dell’equazione tra la vita in un villaggio dimenticato negli anni Ottanta, una bambina piuttosto sola e i genitori che, sotto sotto, speravano fosse speciale. 

Intanto, Alba sta trasformando una delle camere da letto vacanti del piano di sopra in una sorta di lounge di gioco e visione. 

Non le ho ancora raccontato per bene di Alba, mi rendo conto. Lo farò presto. Nel frattempo, butterò giú un primo scheletro del romanzo su cui spero potranno crescere muscoli e pelle.

© 2025 Marina Pierri
© 2025 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Edizione pubblicata in accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency (PNLA)

(continua in libreria…)

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