Nella biografia che Marina Pierri dedica a Raffaella Cerullo, intitolata “Lila”, il personaggio appartenente alla tetralogia de “L’amica geniale” di Elena Ferrante acquisisce uno spessore nuovo, non solo dal punto di vista caratteriale, ma soprattutto da quello simbolico – Su ilLibraio.it un estratto

Lila è la prestigiatrice de L’amica geniale di Elena Ferrante, ma anche il suo coniglio nel cilindro. Così la definisce Marina Pierri, co-fondatrice e direttrice artistica di FeST – Il Festival delle Serie Tv e studiosa di narratologia, che torna in libreria proprio con Lila, edito da Giulio Perrone nella collana Mosche d’oro.

Si tratta di un’autobiografia che approfondisce un personaggio letterario per dare contezza del suo spessore e per proporre un’analisi da un punto di vista non solo caratteriale, ma soprattutto simbolico.

Marina Pierri (foto di Pier Costantini)

Marina Pierri (foto di Pier Costantini)

Secondo Pierri, infatti, Lila è la progenie fantasma della scrittrice fantasma. Il mistero fatto pagina, e poi immagine. La dea oscura della storia che ha conquistato milioni di esseri umani. Il simulacro ctonio davanti al quale il rione è tenuto a genuflettersi, e dopo di lui il mondo intero.

Ma non solo: Lila è anche il simbolo delle donne che hanno trasformato il focolare domestico in una pira dove purificare le ingiustizie. Ed è la bambola sullo scaffale che, nel buio di una vecchia cantina, si fa carne per il tempo necessario a recitare la sua parte, chiedendoci di essere ascoltata, interrogata e capita al meglio delle nostre forze…

Copertina di Lila di Marina Pierri

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto:

IV

Non farò la stessa scelta di Lila, nelle pagine che stai per leggere: non sparirò.

Ci ho pensato, e ci ho pensato a lungo. Sono il tipo di persona che talvolta tende a sparire perché sostenuta dalla convinzione di essere, tutto sommato, poco interessante. Non lo dico per piaggeria. In tantissimi momenti preferisco inabissarmi e l’ho fatto anche di recente, in tutti i giorni dell’anno scorso in cui non ho voluto postare sui social e in tutti i giorni degli ultimi due anni in cui mi sono sentita stanca degli slogan usurati.

Ma non sono mai spartita del tutto. Ho solo rallentato, ho provato a diventare trasparente per riprendere consistenza in uno specchio che era solo mio. E forse ci sono riuscita. Oggi sono presente a me stessa. E con questa presenza dico ora: non sparirò, in questo libro, dietro la maschera di Lila.

Sono Marina Pierri e ho scritto un libro che si chiama Eroine, sul Viaggio dell’Eroina. Ho fatto e faccio anche altre cose, che potranno o potranno non apparire in queste pagine. Mi sono affezionata a Lila come tantissime altre persone, come Elena Ferrante.

Lila è chiave di volta, passe par tout, disegno che tutti gli altri disegni contiene eppure è più simile a un collage, o a un découpage, come quello che lei stessa sforma, costretta a essere una fotografia in uno spazio – quello del Calzaturificio Solara – che non è possibile colonizzare. Ma tutto questo già è noto, già esiste, perché Tiziana De Rogatis, nel suo Elena Ferrante. Parole Chiave lo ha già indagato. A me, quindi, tocca fare un passo al lato, non in avanti; trovare un’altra direzione. Per la precisione, intendo fare due passi, uno a destra e uno a sinistra, o se preferisci uno su e l’altro giù, decidendo di restare brevemente al centro, sulla cosa stessa, su me stessa, sulla mia configurazione unica di essere umano che qui non sparirà come accade di solito nei saggi, brevi o corposi che siano.

Del resto, io non credo che si possa leggere e guardare L’amica geniale in una maniera che non sia in sé stesse.

L’amica geniale nasce già intrecciata ai nostri vissuti di donne, di persone, di fruitrici, di autrici, di madri, di non madri, di corpi, qualunque corpo abbiamo.

La peculiarità de L’amica geniale sta nel suo essere saldata in modo pregresso al nostro genere caricato di valori simbolici, quelli del fantasmagorico femminile o di un femminile fantasmagorico che esiste in primo luogo perché  qualcuno o qualcosa ce lo ha consegnato alla nascita come un libretto di istruzioni fatto e finito, che poco margine lascia all’interpretazione individuale. In secondo luogo, come eredità comoda o scomoda che ci fa piangere, perché ci ricorda di tutte le madri che non abbiamo conosciuto e pure sono state le nostre, delle figlie che abbiamo o non abbiamo avuto e sono state le nostre, delle nonne, delle bisnonne, delle trisavole, delle suocere, delle donne oppresse, di qualsiasi oppressione abbiano sofferto.

Leggere de L’amica geniale, e in particolar modo di Lila, significa questo: guardare nel pozzo del sé profondo e terrorizzante in cui peschiamo per compiere le nostre scelte quotidiane, quelle grandi e quelle piccole; e sapere non con il cervello, ma con la pancia, che questa storia ci appartiene.

Questa appartenenza mi ha sempre intrattenuto de L’amica geniale, e non nell’accezione comune di intrattenimento; quell’intrattenimento che al più è un’arma con cui veniamo minacciate di essere petulanti, poco a fuoco, di scarso interesse. Intra-tenuto nel senso latino: Lila mi ha legato, mi hanno legata tutti e quattro questi libri, forse in particolare l’ultimo, con una corda che a oggi non so staccare e per questo ho deciso di scrivere questo libro. non tanto perché volevo liberarmene ma perché volevo finalmente essere capace di toccarla, questa corda, di sentire di quale materiale è fatta e perché ha scelto proprio me. Ma ha scelto proprio me?

Ha scelto tutte noi che siamo state prese dalla febbre di Ferrante. Tutte noi che abbiamo bruciato e bruciamo quando ricordiamo, ma soprattutto quando non siamo capaci di ricordare. Sono molte le storie che non abbiamo ascoltato, o non abbiamo potuto ascoltare: quelle delle donne che ci hanno preceduto sulla via che ognuna è tenuta, talvolta costretta, a percorrere.

Ecco che devo fare una precisazione doverosa. Quando Nadia Terranova, cui devo molto, mi ha chiesto di scrivere una Mosca d’oro io non ho dovuto nemmeno pensare su chi potesse essere. Ho saputo subito che avrei scelto Lila.

Ho scelto Lila perché Eroine ha cambiato la mia storia. Ha fatto tanta strada perché di strade è fatto, come tutti i viaggi eroici. Di conquista dello spazio già articolato da Daniela brogi ne Lo spazio delle donne (Einaudi). Anche io ho conquistato spazio. Ho fatto la giornalista per vent’anni, ma ho voluto smettere di farlo almeno per cinque. Quando ero piccola, sempre, volevo raccontare storie. Ho scritto il mio primo romanzo a undici anni, e sebbene fosse certamente meno geniale de La fata blu, il libro di Lila, come il suo ha conosciuto solo i confini dei cassetti: tutte le mie ambizioni di scrivere storie sono rimaste nei cassetti e lì stanno ancora, visto che cerco di pubblicare narrativa da molti lustri, ma a oggi non sembro esserci riuscita per i motivi più disparati. Troppo complicata: ecco, questo più di tutto. Troppo di nicchia. Poco appetibile con quelle strane avventure fatte di strani personaggi pescati dal secchio della testa. Sta di fatto che anche oggi quella necessità spinge e quando le parole troveranno la loro dimensione, sono sicura che comincerà un altro capitolo. Ma ora restiamo qui, restiamo a Lila.

V

Un salto indietro nel mio tempo. faccio la giornalista da vent’anni e voglio smettere almeno da cinque, ma non sembro essere in grado di farlo.

Eroine mi libera. Mi libera perché, finalmente, ho altro da fare. Inizio a insegnarlo, ma prima di insegnarlo lo presento, e tanto. Il 2020, quando esce, a settembre, è l’anno della pandemia ma questo non mi ferma, anzi. Dove mi invitano vado, specie nelle stanze plurali del digitale, perché penso che non esista una singola occasione per cui non valga la pena spendersi, esserci. non lascio niente. Quando si può viaggiare, viaggio. Parlo di Eroine nelle scuole, nelle biblioteche, nei bar, nei circoli, nei collettivi, nei festival, persino in una chiesa sconsacrata bellissima di Altamura. Inevitabilmente mi viene chiesto del capitolo in Eroine che riguarda Lila, la Creatrice Ombra. Ogni volta che la menziono, piango e piange la platea. Anche quando faccio lezione, ossia quando Il Viaggio dell’Eroina lo insegno, e discetto di Lila, finisco per piangere.

C’è qualcosa in Lila, di Lila, che mi fa piangere ma non so se queste lacrime siano proprio le mie.

Sono le lacrime di mia nonna Maria, matriarca burbera e regale che da una foto dei suoi novantotto anni mi guarda le spalle anche adesso, appoggiata al dorso dei miei libri.

Sono le lacrime chiuse nei bauli americani di mia zia filomena, allegra emigrante di cui ho appreso favole reali (un secondo marito incontrato sulla tomba del primo, un negozio di angurie a Chicago) e corpo nerboruto che mi ha insegnato l’Asso Pigliatutto in una mattina d’estate, quando il mare brillava e noi trascorrevamo le lunghe giornate in una villa in affitto sul lungomare di San Giorgio, a bari, di cui ricordo un grande gelso rosso nel giardino e il gatto di mia cugina che si era perduto.

E poi, ancora, sono le lacrime della mia nonna paterna, Elvira, l’arpista, la pianista tra le prime donne ad aver preso la patente in Italia, sposata con un uomo buono che la lasciò vedova, e le cui guance in vecchiaia si scavarono fino a farmi capire di cos’era fatto il vuoto.

Della mia bisnonna Stella che curava il glaucoma con le mani: di lei conosco poco, se non che era una fata visitata da ogni parte del paese.

Della mia bisnonna Maria Pasca, spettro che – pure – si manifesta ancora nel Palazzo Sticchi di Santa Cesarea Terme che fu Palazzo Pasca, miracolo di forme eclettiche immaginato dal mio trisnonno prima di essere venduto e trasformarsi in ferita aperta, piaga mistificante e inconoscibile, nella storia della famiglia.

Lila continua anche a raccontarmi di tutte le donne che non ho conosciuto, ma grazie alle quali sono qui. Le donne che hanno cucinato e cucito, e la cui produzione era tanto effimera quanto fondamentale perché dava sapore e spessore e un lusso semplice alle giornate, lusso alle lenzuola di lino umile grazie al ricamo, nitore ai pavimenti su cui si camminava per andare a fare le proprie cose e sperare di essere di più, di fare di più.

VI

Sono consapevole che scindere Lena e Lina ai fini di questo libro possa risultare artificiale. Sebbene Elena Ferrante abbia sostenuto, più volte, che vi sia una base di verità empirica in questa storia – ossia che Lina e Lena siano due persone diverse, non tanto funzione del testo, quanto funzione della realtà – io per prima faccio fatica a sbarazzarmi dall’interpretazione de L’amica geniale che mi viene in assoluto più naturale: pensarle come una Guida e come un’Ombra. Cioè considerarle una il doppio dell’altra. Da qui la mia difficoltà, la preoccupazione di affondare il bisturi tra due sorelle di archetipo.

Mi sono, tuttavia, liberata di questo imbarazzo. Da sempre sono sponsor delle Ombre: delle Eroine difficili da amare. E non vedo ragione di nascondermi. Di quale Ombra mi sarei occupata, dunque, se non di Lila?

Agli archetipi di Lila come Ombra sarà dedicata la seconda parte di questo lavoro. non ho paura. Le Ombre sono, per me, terreno solido, su cui non temo di avventurarmi. A un certo punto, però, si aprirà un canyon, un precipizio. La porzione a me familiare di questa distesa di significati si esaurirà: si aprirà una crepa e mi lascerò cadere.

(continua in libreria…)

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Fotografia header: Marina Pierri nella foto di Pier Costantini

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