“Perché non avrebbe dovuto essere felice?”. Inizia da questa domanda esistenziale l’estratto da “I divoratori”, nuovo romanzo di Stefano Sgambati, proposto da ilLibraio.it

Stefano Sgambati, classe 1980, ha esordito in libreria nel 2011 con una raccolta di racconti, Il Paese bello (Intermezzi Editore); il suo primo romanzo è Gli eroi imperfetti (minimum fax, 2014) e l’ultimo La bambina ovunque (Mondadori, 2018).

Ora Sgambati torna in libreria con I divoratori (Mondadori): non è una serata come le altre nel prestigioso Palazzo Senso, ristorante gourmet dell’Hotel Principe di Savoia di Milano. I piatti concepiti dallo chef Franco Ceravolo, monumento della gastronomia italiana, atterrano con grazia sui tavoli finemente apparecchiati, trasportando i clienti in un universo sensoriale stroboscopico impossibile da dimenticare. Ma nell’aria serpeggia una strana eccitazione e tutti gli occhi sono puntati verso il centro della sala, lì dove siede “una creatura di perfezione impossibile, ancestrale, l’uomo più bello che si sia mai visto”. E Daniel William King, stella assoluta di Hollywood, accompagnato dalla sua bellissima moglie: la coppia di attori più ammirata, invidiata e fotografata del momento, ville da copertina, premi internazionali, figli naturali e figli adottati, ricchezza, successo e due volti assicurati per cifre che basterebbero a pagare un Pollock da Sotheby’s: una grandiosa famiglia tradizionale.

Condividere con loro il tempo e lo spazio di una cena non è un’opportunità o un colpo di fortuna, ma una responsabilità, un peso capace di cambiare le carte in tavola. A scoprirlo, loro malgrado, saranno Elena e Saverio – che stanno trascorrendo un avventato weekend insieme dopo essersi incontrati al funerale di una comune amica -, Giordano e Frida – uno stimato professore universitario e una sua lettrice di trent’anni più giovane – e un gruppo oscenamente rumoroso, seduto più in fondo, in disparte – la grottesca famiglia del maitre, che grazie a una soffiata del figlio non si è fatta sfuggire l’occasione di osservare da vicino Mr e Mrs King.

Durante il pasto, mentre in cucina e agli altri tavoli si consumano cattiverie, epifanie e piccoli traumi, al tavolo dei due divi si svolge la scena madre, perché nel cervello dell’attore più bello del mondo, all’oscuro dello sguardo altrui e lontano dalla liturgia dello spettacolo, si annida da tempo un minuscolo seme di follia, “una specie di fungo, una macchia che comincia ad allargarsi” e che devierà senza scampo le traiettorie delle vite di ciascuno dei protagonisti.

i divoratori stefano sgambati

Per gentile concessione della casa editrice, su ilLibraio.it un estratto:

Perché non avrebbe dovuto essere felice?

Tutti erano pronti a ignorare o a minimizzare i molti ostacoli e le decine di fastidi che l’Unicorno aveva dovuto superare e ingoiare per poter essere seduto a quel tavolo, in quel ristorante, in quella città, perché molto più facile era fantasticare della sua Vita Perfetta piuttosto che ricostruirne i dettagli più faticosi e, per così dire, umani.

Nessuno che si fosse mai chiesto: sarà felice? Per forza di cose doveva esserlo. Felice, sereno, in pace con se stesso, e quindi col mondo. Era sufficiente guardare sua moglie e pensare che lui se la poteva scopare tutte le volte che voleva per desumere che sì, per forza doveva essere felice.

Per tacere delle numerose ex, altrettanto famose, quasi sempre attrici, almeno quelle di cui la stampa si era occupata.

Tutte bellissime. Iconiche. Danarose. Scappate di casa, taccheggiatrici e cleptomani ex alcoliste, madri di famiglia fallite ma resilienti, rifatte, cocainomani pentite, una aveva vomitato in diretta da Jay Leno.

Perché non avrebbe dovuto essere felice?

Niente, in lui, nel suo aspetto, parlava delle ultime ventiquattro ore, volo aereo compreso; di ciò che aveva dovuto sopportare per arrivare in quel ristorante di lusso, una pressione a cui la maggior parte della gente normale non avrebbe saputo resistere. Già molto prima di essere prelevato per essere trasportato in aeroporto, quasi contro la sua volontà, aveva sottratto dal beauty-case della moglie un farmaco dalla composizione simile alla morfina, precisamente Actiq 1600  MCG, un potente antidolorifico indicato per il trattamento del dolore cronico da cancro, e lo aveva assunto a cadenza oraria insieme al Fentanyl e al Durogesic fino a stordirsi del tutto, pur rimanendo all’apparenza cosciente, abbastanza sociale, nonché in grado di deambulare, come poteva testimoniare il volo transoceanico – di cui non aveva in effetti alcun ricordo, né nebuloso, né confuso: nessuno, proprio come il ricordo che si sarebbe potuto avere di un viaggio mai compiuto –, durante il quale era riuscito a passare inosservato, o almeno così gli pareva. Inoltre stava assumendo – ed era anche per questo che non vedeva l’ora di andare in bagno – dosi massicce di Ritalin, che in realtà era un medicinale per bambini piuttosto innocuo, anche se per un periodo era stato ritirato dal mercato internazionale e poi reintrodotto, ma che grazie al metilfenidato cloridrato, e soprattutto grazie alla commistione con gli altri farmaci già assunti, diventava uno stimolante eccezionale del sistema nervoso centrale (infatti era spesso utilizzato nel trattamento di pazienti affetti da narcolessia).

La struggente e confortante bellezza della chimica.

«Will, almeno vedi di fare presto…»

Bruttissimo segno quando lo chiamava “Will”.

«Devo solo pisciare» le rispose brusco.

Entrambi sapevano che non era vero.

«E poi tanto ci pensi tu a farli divertire nel frattempo, no?» aggiunse lui ironico e cordialissimo, sebbene non perfettamente in grado di riconoscere la propria voce, mentre si voltava a tranquillizzare con un solo cenno due camerieri pronti a tutto che subito fecero un passo indietro. Prima di scomparire dal loro campo visivo fece in tempo a notare gli occhi di sua moglie che lo scrutavano, occhi tagliati talmente verso l’alto da sembrare montati al contrario. La grandiosa assenza di interesse della donna non coincideva col sorriso dolcissimo che invece ostentava.

In un attimo tutta la sala lo stava fissando.

Perché non avrebbe dovuto essere felice?

A parte il fatto che doveva drogarsi, i bisogni fisiologici gli piacevano perché lo tenevano ancorato alla condizione umana come una zavorra. E poi i bagni dei ristoranti di lusso erano divertenti: c’erano un sacco di cose curate e pulite preparate da altri per il piacere del cliente. Più erano lussuosi, più era bello scoprirne il meccanismo: specchi antiappannamento che nascondevano tv a schermo ultrapiatto, sanitari di Le Corbusier, pareti-finestra con vista sui Faraglioni di Capri, asciugamani Christian Fischbacher, saponi Cor con nanoparticelle d’argento: non ci si abituava mai; soprattutto gli piacevano perché erano un rifugio – nel senso di luogo e nel senso di tempo – in cui non gli spettava di fare per forza la mossa migliore per le altrui aspettative e dove poteva guardarsi negli occhi e affrontarsi. Senza un sorriso, senza affabilità. Non essere per essere.

Di recente gli erano capitate un sacco di cose bellissime nei bagni, ma quali?

(continua in libreria…)

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