“Il corpo nero”, romanzo autobiografico con cui debutta Anna Maria Gehnyei (in arte Karima 2G), è la storia di una donna italiana di seconda generazione, che per anni è stata vista solo come una bambina immigrata. La vicenda tutta umana, fatta di ricordi, suoni, amore e vergogna di chi, nonostante il mancato riconoscimento dalle istituzioni e una cittadinanza negata, decide di non cadere nella trappola del vittimismo – Su ilLibraio.it un estratto

Il razzismo in Italia è un tabù, di cui nessuno parlava, ma di cui tutti conoscevano l’esistenza. Combattere il razzismo significa combattere se stessi. Non credo più nella lotta ma nell’integrazione e nel riconoscimento del razzismo come la parte più oscura dell’uomo”.

È questo il punto di vista di Anna Maria Gehnyei, conosciuta in arte come Karima 2G, che è una cantante, danzatrice, e producer italiana di origine liberiana, premiata per il suo percorso artistico con una borsa di studio internazionale dalla John Cabot University e laureatasi nel 2020 in Communications e Political Science.

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Dopo il debutto dello scorso anno con il suo primo spettacolo teatrale, If There Is No Sun, Anna Maria Gehnyei arriva ora in libreria con il suo primo romanzo, Il corpo nero (Fandango Libri), un memoir nel quale racconta il mondo dei ragazzi di seconda generazione, nati cioè in Italia da genitori non italiani, o arrivati qui da piccolissimi, approfondendo in particolare la storia dell’autrice stessa, nata a Roma da genitori liberiani.

Come scopriamo fra le pagine, suo padre è stato il primo uomo Kpelle a cui i capi del villaggio hanno permesso di allontanarsi, il primo Kpelle ad arrivare in Europa. E nonostante la Liberia fosse “la terra dei Liberi“, ovvero gli schiavi afroamericani tornati in Africa, i suoi genitori le insegnano ad avere un amore incondizionato verso i bianchi.

Che per lei si incarnano nei bambini privilegiati di Roma Nord che non la considerano, nelle maestre della scuola che la lasciano sempre in banco con la gemella, nei datori di lavoro che si stupiscono del suo italiano, nei poliziotti che a ogni rinnovo del permesso di soggiorno ripetono le stesse domande. Mentre tutto quello che sa della Liberia sono le storie che sua madre le ha raccontato da piccola.

Anna Maria Gehnyei (© Claudia Pajewski 2023)

Anna Maria Gehnyei (© Claudia Pajewski 2023)

Non conoscendo le fiabe europee, infatti, le racconta i giorni della sua infanzia, le descrive la sua terra magica ricca di risorse, e i rituali nascosti del villaggio del padre. La Liberia e l’Africa sono tutti gli zii che frequentano la sua casa e i parenti che non ha mai conosciuto, la sua famiglia lontana.

Ovunque lei vada, da sola o con le sue sorelle, qualunque età lei abbia, a Roma c’è sempre qualcosa o qualcuno che le ricorda di essere nera, motivo per cui si trova a negoziare continuamente tra due realtà culturali: quella italiana che non l’accetta, e quella africana a cui non appartiene fino in fondo. D’altronde, sembra sempre troppo nera per parlare bene l’italiano, troppo nera per indossare degli abiti eleganti, troppo nera per essere istruita…

Il corpo nero diventa così la storia di una generazione, la seconda, fatta da chi viene visto solo come un bambino immigrato. La vicenda tutta umana, fatta di ricordi, suoni, amore e vergogna di chi, nonostante il mancato riconoscimento dalle istituzioni e una cittadinanza negata, decide di non cadere nella trappola del vittimismo.

Copertina del libro Il corpo nero di Anna Maria Gehnyei

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un capitolo del romanzo:

Sulla pelle cicatrici

Se potessi scrivere una lettera a mio padre, gli direi tutto ciò che mi sono tenuta dentro fino a oggi, e gli porrei le domande che non ho mai potuto fargli, perché certe cose io non posso saperle.

Se potessi, gli direi che la sua rigidità mi ha sempre messo paura, ma soprattutto mi ha tenuta a distanza. Quelle cicatrici sulla sua pelle, solchi perfettamente disegnati su cui non ho mai potuto posare il mio dito di bambina, sono il mistero che non mi è dato di svelare.

Papà, gli direi, il tuo sguardo mi blocca e il tuo silenzio è un muro tra te e me, che tu hai costruito perché io non potessi nemmeno guardare quel tuo corpo scolpito come la statua di un eroe deturpato da chissà quale pratica del suo villaggio.

Gli uomini hanno misteri che le donne non possono conoscere, non si può mancare di rispetto alle tradizioni.

Papà, io so che la tua compostezza viene da lì, è accaduto qualcosa al tuo corpo che ha segnato cicatrici anche nella tua anima e tu ti tieni tutto dentro, perché nessuno ti ha insegnato che se ne può parlare, né te lo ha mai concesso.

Quei segni sono ferite che non guariranno mai, anche se tu hai pensato che esistesse una medicina.

Hai pensato che tutto potesse passare, che quella medicina potesse essere la consolazione che forse cercavi da tutta la vita ma non trovavi da nessun’altra parte. Io ti ho guardato berla e ogni sorso era un sollievo per te e non ti accorgevi che era fredda e indifferente come il vetro che la conteneva. A volte avrei voluto berne anche io qualche sorso, per tentare di capire cosa provavi tu, quando ti appartavi con lei.

Eravamo tutti nella stessa stanza ma era come se voi foste da soli.

Ti ricordi che una volta ti ho anche chiesto se potevo assaggiarla? Tu mi hai risposto con un no così tagliente che non ho mai più avuto il coraggio di chiedertelo. La tua risposta mi aveva fatto capire che il tuo rapporto con quel liquido ambrato non era così sano. E non so se mi avevi detto di no per proteggermi o perché non volevi che qualcuno condividesse questi tuoi momenti. Quello che so, però, è che ero gelosa.

Se non ci fosse stata lei, forse, avresti potuto dirmi come ti sei sentito quando hai perso il lavoro all’ambasciata e poi ti sei ritrovato a fare il manovale, quasi uno schiavo.
È stata la mamma a raccontarmi come sono andate le cose.

Io sapevo che tu eri andato a studiare a Monrovia, nella capitale, e che lì vi eravate conosciuti e innamorati. Sapevo anche che, per mantenerti, lavoravi per una ditta che costruiva strade e che quello che poi sarebbe diventato l’ambasciatore liberiano in Italia ti aveva voluto con sé a Roma, insieme alla mamma. Ciò che invece non sapevo è che dopo qualche anno, con i conflitti in Liberia via via più intensi, l’ambasciatore non si era più sentito al sicuro nemmeno in Italia e aveva deciso di scappare in America, nel cuore della notte.

Voi vi siete ritrovati soli, senza un lavoro, in terra straniera. Abitavate in una villa che non era casa vostra, ma siete rimasti lì ancora un po’ di tempo, poi la mamma ha iniziato a lavorare come donna delle pulizie, e tu come muratore.

La mamma mi ha detto anche che tu e lei avevate il desiderio di tornare in Liberia e costruirvi un futuro lì, ma poi siamo arrivate io e mia sorella e la nostra nascita ha sconvolto tutti i progetti.

Lo so che siete rimasti bloccati in un paese che non è il vostro, ma tu non devi sentirti solo, ci sono io con te.

Ricordo che quando ero piccola ogni anno a Natale scrivevo la mia letterina per Babbo Natale.

Sapevo che era un ometto troppo bianco perché tu potessi crederci, ma speravo che tu leggessi le mie parole e le richieste che facevo. Ma scrivevo in italiano e allora un anno decisi di leggertela io ad alta voce, in piedi davanti al nostro albero. Come regalo avevo chiesto a Babbo Natale di renderti più felice. Mi aspettavo che tu fossi contento e invece ti arrabbiasti tanto, perché anziché chiedere un regalo per me io avrei voluto solo la tua felicità.

Ci sono voluti anni perché capissi che quel tuo dispiacere era una forma di amore nei miei confronti e che tu saresti stato felice solo vedendo la mia, di felicità.

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Mi piacerebbe chiederti se nel tuo villaggio, saresti stato più felice che qui a Roma, perché lì tutti gli uomini hanno le tue stesse cicatrici e non dovresti nasconderle.

Ti manca, papà?

Mi piacerebbe tanto sapere di più di quel villaggio e di tutta la Liberia. Quando finirà la guerra? Quando potrai riabbracciare i tuoi fratelli? È tanto tempo che non hai più loro notizie, deve essere difficile non sapere nulla avendo una parte della propria famiglia in un paese in guerra.

Ma lo sapevi, papà, che non avresti trovato la risposta dentro quel bicchiere che ti rigiravi tra le mani come se fosse stato un oracolo?

Se tu lo chiedessi a me, io ti risponderei che sento che i tuoi parenti sono al sicuro e che presto tornerai ad abbracciarli.

La mamma mi ha raccontato che il tuo villaggio è il più mistico di quella terra e che lì si pratica la magia. Io non so se credo alla magia, ma se tu mi raccontassi qualcosa forse sarebbe diverso. La mamma mi ha detto anche che i miei zii sono cacciatori di serpenti e che tu, quando eri giovane, passavi anche intere giornate nella foresta. Non sai quanto mi piacerebbe chiederti che cosa facevi là, quali animali incontravi, se hai dovuto affrontare dei pericoli e come ne sei uscito.

Che odore c’è nelle foreste dove andavi a caccia?

E che colore ha il tramonto nella tua terra?

Io ho conosciuto solo un tramonto, quello di Roma.

Io penso a te come mio padre, ma tu sei anche figlio e sei stato il primo di dieci fratelli. Quante responsabilità devi aver portato sulle tue spalle fin da piccolo.

Tu sei stato l’unico che è uscito dal villaggio, sei stato coraggioso e sei andato a Monrovia. Chissà se avevi paura quando ti sei allontanato dalla tua famiglia, in cerca di un futuro migliore. E poi sei stato anche l’unico della tua famiglia a venire in Europa. Ma non solo, sei stato anche il primo liberiano ad arrivare in Italia.

Chissà come ti sei sentito, se hai percepito la tua grandezza e il tuo coraggio, se dentro di te prevaleva la gioia o la tristezza, se avevi paura o eri un giovane africano spavaldo, pronto a imparare cose nuove della vita, anche se non tutte belle.

Io lo so che adesso tante persone contano su di te, non solo noi della famiglia, ma anche tanti amici e parenti. Tu ti carichi i bisogni di tutti, dimenticandoti che certi pesi sono troppi per un solo uomo, per quanto forte sia.

Potresti provare a dire qualche volta di no anche agli altri e non solo a me.

Per fortuna c’è la musica. È un linguaggio che parliamo entrambi e riusciamo a capirci più con le note che con le parole. Grazie a lei ogni tanto ti vedo sorridere e riesco anche a comunicare con te.

Se potessi scrivere una lettera a mio padre gli direi che, solo quando sono riuscita finalmente ad andare nel suo villaggio, ho capito tante cose, soprattutto quanto mi abbia sempre amata.

(continua in libreria…)

Fotografia header: Anna Maria Gehnyei © Claudia Pajewski 2023

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