Nel volume “Il diavolo prenda l’ultimo. La fuga del narcisista”, al tempo stesso un romanzo e un saggio, lo scrittore e psichiatra Giancarlo Dimaggio ci porta a conoscere il disturbo del narcisismo e chi ne soffre, con l’intento di farcene tastare le debolezze e la sofferenza inespressa fino a renderlo più vicino al nostro sentire – Su ilLibraio.it un estratto
Quella del narcisista è una figura cruciale, enigmatica, affascinante. Ad approfondirla e a osservarla da diverse angolature è, nel suo nuovo libro, Giancarlo Dimaggio, scrittore e collaboratore de Il Corriere della Sera, nonché psichiatra, psicoterapeuta e cofondatore del Centro di terapia metacognitiva interpersonale di Roma.
Il volume, intitolato Il diavolo prenda l’ultimo. La fuga del narcisista e portato in libreria da Baldini+Castoldi, è infatti al tempo stesso un romanzo e un saggio, capace di illustrare la teoria psicoterapeutica e di portarci a conoscere questo disturbo e chi ne soffre, facendocene tastare le debolezze e la sofferenza inespressa, fino a renderlo più vicino al nostro sentire.
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Protagonista dell’opera è Lorenzo Sartori, uno psicoterapeuta di circa trent’anni dal carattere razionale ma inquieto, ansioso di imparare, di crescere e di migliorarsi. È per questo che, quando i suoi primi pazienti gli sbattono la porta in faccia, inizia a chiedersi quale sia il problema.
Il problema, capirà poi, era in parte suo, dal momento che aveva molti luoghi oscuri interiori da illuminare. E in parte nasceva invece dall’avere avuto a che fare con dei narcisisti: Aurora, bulimica e arrogante; Adamo, tormentato dalla vergogna per non essere capace di salvare le donne a cui tiene e ossessionato dalla perfezione; Richard, musicista, ancora più perfezionista degli altri, perseguitato dalla possibilità di essere comandato e umiliato.
Tutti e tre lo mettono in crisi con disprezzo e sfiducia latenti e un atteggiamento chiuso, a tratti provocatorio, a tratti rabbioso, ma anche spaventato e insicuro, rendendogli difficile ogni tentativo di entrare in contatto con loro.
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Attraverso queste storie, e seguendo la “formazione” del dottor Sartori, scopriamo così un disturbo che è sempre più rilevante per la nostra società: infetta le relazioni con gli altri ma anche la propria crescita personale, la maturazione di ciascuno e la ricerca del proprio benessere, poiché il narcisista – angosciato dalla possibilità di commettere un errore – si ritira e scappa, attacca e accusa, in un meccanismo che non fa altro che reiterare all’infinito la fuga.
La fuga là dove non si sente il dolore, in un luogo in cui le critiche non attecchiscono ma dove non si è mai salvi.
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto:
I love you whether or not you love me. / I love you even if you think that I don’t. / Sometimes I find you doubt my love for you, / But I don’t mind, / Why should I mind? / Why should I mind?
Howard Jones, What is love?
Ammettere con candore di non capire è una delle poche cose giuste fatte da Lorenzo nelle prime sedute. La volta successiva riesce a dire che ancora non gli è chiaro cosa intenda Aurora per «pietà spietata». E nemmeno se quel modo di dire abbia a che fare con la perdita di controllo.
Perché con i narcisisti è saggio mostrarsi stupidi, quell’ingenuità implacabile alla Tenente Colombo. Il terapeuta stupido chiede come un bambino curioso, rasenta il petulante ma mai lo diventa davvero. Funziona, perché con i narcisisti è poco saggio affannarsi a mostrarsi competenti.
Cercare di dire la cosa giusta, aggrapparsi all’osservazione acuta, formulare un’associazione brillante, «guardi, quello che ha detto mi fa pensare che…», tutte cose da evitare.
Peggio ancora è insistere affinché il narcisista s’incammini verso il benessere quando ha appena dichiarato di non volerci proprio andare, radicato al suo comportamento zoccoli a terra peggio di un mulo.
Mostrarsi competenti e brillanti, fare pressioni perché il narcisista ci dia uno spazio per curarlo equivalgono a una tipica sequenza di azioni.
La scena inizia solitamente con un terapeuta che si mette in costume sulla sabbia fine di una spiaggia oceanica. Una volta pronto per il bagno, si punge il dito per fare uscire qualche goccia di sangue. Nella scena successiva cerca il cartello: Divieto di balneazione, squali ed esclama: «Figo, che acqua cristallina, voglio fare il bagno proprio qui». Se il regista è bravo, lo farà tuffare con la rincorsa senza guardare sotto, caso mai gli venisse di verificare se gli squali annunciati dal cartello siano davvero lì. Non sia mai. A questo punto abbiamo dato allo squalo tutte le possibilità di utilizzarlo come pasto sostanzioso.
In una certa prospettiva la terapia coi narcisisti può essere riassunta così: il terapeuta vorrebbe dare il paziente in pasto ai coccodrilli, ma finisce colazione per squali.
E insomma, Lorenzo in mezzo agli squali per ora non ci finisce grazie al suo candore da ragazzino impiccione che vuole sapere tutto del mondo, ma siccome del mondo capisce pochissimo fa domande su domande, anche se restano senza risposta. Tanto quel bambino sta già pensando alla prossima.
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«Aurora, a me quella cosa della pietà spietata sembrava interessante, ma non l’ho capita benissimo, mi spiegherebbe meglio»?
A domanda sensata, risposta vaga.
Ci sono serie di sedute che sembrano l’interrogatorio a un candidato al 41bis. Non so, non mi ricordo, vostro onore sono un terzamedia, non ci li capisciu io ‘sti cose. Un susseguirsi di ero in famiglia, le giuro sulla Madonna santa, Tanuzzo è una brava persona e Ciccirillo ci giocavo cu a’ strummula quann’eravamo picciriddi ma poi ci siamo persi di vista, sa, la campagna spacca la schiena, li vide questi calli, chi lo trova il tempo per gli amici?
E quando non ti tocca un affiliato delle cosche, incontri un filosofo che si è perso nella steppa troppo a lungo per conservare memoria del concreto degli scambi umani. Parla solo coi fili mossi dal vento e va in caccia di risposte da parte di roditori selvatici, troppo rapidi e irrequieti per mantenere l’interesse nella conversazione abbastanza a lungo. Un filosofo che trova dieci modi per contestare a dio imperfezioni nella natura delle cose, che non crede nella sua esistenza ma non si rassegna, perché vorrebbe avidamente un cenno della sua presenza nel mondo, per il puro gusto di rinfacciargli le cazzate che ha commesso, per spiegargli che le asimmetrie nell’universo fanno schifo e se ancora sta creando universi paralleli, be’, li creasse meglio di questo perché così, signore mio, è proprio una vergogna.
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E insomma, per varie sedute di questo concetto di pietà spietata non ci capisce una minchia.
C’è uno stato d’animo nel quale voi davvero non vorreste incontrare il narcisista.
Quando è annoiato.
Nei libri che Lorenzo ha letto non era evidenziato in rosso, ed è un male, perché gli sarebbe stato di giovamento. Quella di Aurora è una noia femminile, carica di irritazione e protesta, è come una giornata afosa, opprimente. Attenzione, perché è un attimo e si entra in aree di aria eccessivamente ionizzata, un appiccicume elettrico che ti ammorba e ti preavvisa di un fulmine che le gambe molli non ti faranno scansare.
In questi momenti, domande mirate finiscono fuori bersaglio. E se prendete la mira meglio? Bucate l’aria, perché il bersaglio si sposta, che a uno gli verrebbe di controllare se è la giornata del ritiro regionale dei leprecauni dispettosi.
A quel punto, se le domande mirate fanno cilecca uno avrà pure il diritto di passare alle domande vaghe, no?
Lorenzo quello fa, e a domande vaghe ottiene risposte generiche.
«È successo qualcosa che la stia facendo sentire annoiata, svuotata?»
«È un periodo così. Mi capita, mi ci sveglio la mattina.»
«Quanto dura?»
«Dipende, è una cosa che mi piglia.»
«La prende per tutta la giornata?»
«Un mood continuo, sì. Magari un aperitivo con le amiche mi distrae, comunque è una cappa che sta sempre lì.»
Se le domande vaghe fanno cilecca, il terapeuta rischia di fare di nuovo domande mirate, sperando che il paziente reagisca.
«Quando è in questo mood c’è qualcosa, Aurora, che può fare per reagire?»
«Sì, gli aperitivi.»
Ci sono domande mirate che meritano risposte del genere.
Lorenzo deve ancora imparare che comportarsi da mulo testardo di fronte a un mulo testardo e stufo andrebbe evitato.
«Certo, quelli li fa già, ma a parte gli aperitivi?»
«Mi vuole consigliare un corso di cucito?»
Lorenzo deve ammettere che da un lato se l’è cercata, dall’altra Aurora gliel’ha detta con un’ironia persino garbata, una traccia di gentilezza affiorata per miracolo.
«Per carità, sono sicuro che con l’uncinetto è una maga.»
Aurora finalmente sorride.
Fiuuuuu.
A quel punto Lorenzo non sa cosa dire.
Cosa fa un terapeuta in queste circostanze?
Esatto. Quella domanda. Che pare che se un terapeuta non la fa gli tolgono il tesserino, gli strappano con disonore il certificato di ammissione al Club delle Giovani Marmotte.
«Mi dice qualcosa di mamma e papà?»
«Stanno bene grazie.»
«Aurora, non le ho chiesto questo.»
«E allora mi faccia una domanda più precisa. Su, dottore, s’impegni.»
Lorenzo si concede una smorfia di scherzosa impazienza, gli hanno insegnato che scherzare coi pazienti non è cosa malvagia. La verità è che quei momenti di humour sono il vero motivo per cui Aurora alla fine rimarrà in terapia per un periodo non trascurabile, alcuni mesi, che in assenza di quelle battute sarebbero state tre settimane. Contate.
«Mi dice qualcosa di loro, età, lavoro, come va in famiglia?»
«In famiglia tutto bene grazie, me lo ha già chiesto.»
«Come va tra di loro intendevo, insomma, mi vuole raccontare qualcosa della sua provenienza.»
«Voglio raccontarlo? No, però visto che chiede…»
(continua in libreria…)