Un “viaggio oscuro al termine dell’Illuminismo”, fra superstizione, sentimento del sacro, esoterismo e razionalità. “In principio era la Bestia”, il nuovo romanzo di Omar Di Monopoli, ispirato a una storia vera, è ambientato in un Sud indomito e mannaro… – Su ilLibraio.it un estratto
Dicembre 1798, dintorni di Taranto. Mentre ribollono i moti giacobini, viene ritrovato il corpo senza testa della vecchia Narda Stumicusa, mammana e fattucchiera della zona.
Al delitto fanno seguito misteriosi avvistamenti di una creatura demoniaca – ululati raggelanti nel cuore della notte, feroci aggressioni ad animali – e, un anno più tardi, un’altra morte violenta: la carcassa mutilata di un viandante viene scoperta nel fitto della vegetazione.
Con il secondo omicidio nella comunità corrono incalzanti le voci sull’esistenza di una pericolosa fiera e gli abitanti iniziano a barricarsi in casa, finché da Napoli una pattuglia di dragoni del Re – accompagnati dal naturalista James Fenimonte – viene inviata in Terra d’Otranto per indagare.
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Nel popolo c’è chi afferma di aver veduto la bestia, una sorta di grosso lupo, qualcun altro invece dice che i fatti di sangue sono da ascrivere al brigante Malesano.
In una Puglia ancora stordita dai fumi della Rivoluzione Napoletana, divisa fra sostenitori repubblichini e conservatori realisti, il gruppo inizia le ricerche e nei sotterranei della chiesa rintraccia ed esamina il corpo di Narda, semi-mummificato sotto uno strato di calce. Quindi, conversa con i due fratelli che hanno scoperto il secondo cadavere, le cui spoglie sono state immediatamente bruciate sul posto.
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L’indagine si rivela molto presto la scoperta di un mondo di profonde diseguaglianze in cui violenza e superstizione convivono con razionalità e rigore.
Attraverso gli occhi dei soldati forestieri giunti dalla capitale, scrittore Omar Di Monopoli , nel suo nuovo romanzo, il thriller storico In principio era la Bestia, disvela l’unicità di un territorio irrisolto…
L’autore di Uomini e cani, Ferro e fuoco, La legge di Fonzi e Aspettati l’inferno (usciti da Isbn edizioni), dopo aver pubblicato con Adelphi Nella perfida terra di Dio, e con Feltrinelli con Brucia l’aria, nel suo nuovo libro cambia decisamente periodo storico.
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:
“Salve,” fece l’ufficiale in groppa al suo corsiero.
Dalla veranda il cacciatore gli rispose con un cenno della testa, senza smettere d’affilare la sua ascia con una pietra ceramica. Se ne stava pericolosamente in bilico coi piedi sulla stretta balaustra della sua casa, una seggiola impagliata sotto il culo e una festuca di paglia tra i denti guasti, appollaiato e intento come un grosso uccello su un posatoio.
“Vossia è uno di quelli che ha trovato la Narda appesa all’albero?”
Il cacciatore interruppe tutto quel lavorio sull’ascia. Alzò un braccio pallido e nudo e cercò con le dita qualcosa nel cavo dell’ascella; ravanò là dentro qualche secondo a caccia di ospiti indesiderati ma quando la mano tornò visibile non stringeva un accidente di niente. Dietro di lui le travi della baracca di legno sembrarono scricchiolare piano, agonizzando con discrezione, come se un esercito di tarli stesse alacremente cospirando dall’interno per la loro irrefrenabile rovina.
“Perché? Cazz vi ni futt a vui?” tuonò l’uomo all’improvviso, sfiorando il soldato con un’espressione trucida.
Il dragone poggiò i polsi sul pomello dell’arcione, senza replicare.
Dal fondo del sentiero il resto dei suoi uomini lo raggiunse a cavallo e gli si dispose lentamente ai fianchi. Attorno la luce del meriggio morente s’infilava di prepotenza e rosseggiava in lame micragnose nella stretta cortina di alberi mentre un gruppo di galline chiocciava raspando tra le zampe dei destrieri nella totale indifferenza di quest’ultimi.
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“Fa sempre così caldo, quaggiù, già in primavera?” esordì il medico allargandosi il bavero della marsina con due dita.
“Anche peggio, se è per questo,” disse il cacciatore senza dismettere lo sguardo obliquo dalla truppa. Era magro, sui sessanta inverni, le guance butterate dal vaiolo, i capelli come turaccioli color topomorto avvitati dentro il cranio abbruschiato dal sole.
“Vi converrebbe collaborare,” avvertì annoiato il capitano.
“È una minaccia?”
“Non saprei, sta a vossia deciderlo.”
L’uomo si alzò dalla sedia. A pochi metri dalla sua postazione c’era un vecchio moschetto a canna rigata legato con pelle greggia e con la cassa guarnita di borchie d’ottone di varia forma.
“Nun c’ penzà proprio,” lo fece desistere il soldato addetto ai cani sfilandosi una pistola ad avancarica dal cinturone per puntargliela addosso. I due che lo affiancavano estrassero la loro sciabola dal fodero e la tennero ritta davanti al muso, senza fiatare.
“Perché siete così ostile? Siamo emissari del re,” disse il medico.
Il cacciatore protese la testa in avanti, si tappò una narice con l’indice ed espettorò un getto verdastro di muco dall’altra. “Lu re?” proruppe di rincalzo, tenendo l’ascia bene in vista. “Bravo quello… S’ha venuto a pigghjari mio fratello di forza, tre anni addietro, per fargli vestire una divisa identica e precisa a quella che portate voi!”
Il dragone s’aggiustò in sella strappando al suo cavallo un leggero nitrito. “Avete un parente nell’esercito?” domandò.
L’altro smosse il capo in segno affermativo. “Com’a parecchi, qua abbàsciu,” precisò. “Teneva bisogno di carne da cannone pè li cazzi sua, lu Borbone. E dove volete che li veniva a pescare, gli uomini da mandare al macello, se non quaggiù fra noialtri poveri disgraziati?”
I cavalieri si rimpallarono sguardi accigliati.
Il sole, ostinato, si era aperto un varco tra i tronchi e per un momento parve inondare di sangue la radura, come se l’aria stessa fosse lì lì per mutarsi in un sipario viola dietro al quale il giorno avrebbe consumato il suo remoto pandemonio.
Dalla parte superiore della baracca si udì un tramestio repentino.
Una famiglia di tarabusi volò via spaurita dalla finestra senza vetri, dove era comparsa una vecchia sgraziata, gli abiti frusti e i capelli a matassa, in braccio uno schioppetto carico. Puntava la canna antracite del fucile sulla fila dei soldati, muta, senza alcuna traccia d’emozione.
D’istinto, il soldato addetto ai cani levò la sua pistola in quella direzione e scaricò un colpo.
Preceduto dal divampare di una saetta, il grappolo di pallini di piombo andò a conficcarsi nel legno marcio a fianco alla finestra al pari d’uno sciame d’insetti roventi. Ma la vecchia non sembrò granché impressionata. Indietreggiò di qualche metro smoccolando le peggiori contumelie e, l’arma sempre spianata verso il manipolo di uomini in mezzo al cortile, tornò ad affacciarsi.
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“Mà,” la richiamò seccato il cacciatore, “la finisci o no?” “Li pozza Domineddio bruciari l’anima: io un altro figlio a sti curnuti non ce lo regalo!” berciò quella spolmonandosi come un’indemoniata.
A un cenno dell’ufficiale, gli uomini rinfoderarono le armi e si dileguarono senza troppa fretta nella foresta di ceppi e astragali che la bruma serale sbiadiva all’orizzonte. Rimasero solo il capitano e il dottor Fenimonte, i loro animali che sferzavano a destra e manca le criniere per contrastare il turbinante assillo di tafani e mosche di palude.
“Diteci solo della Narda, e parola d’ufficiale vi lasciamo stare.”
Il cacciatore increspò le labbra in una smorfia rassegnata. “E che volete che vi dico?” si lagnò. “Era una che trafficava cogli intrugli e colle erbe magiche e quannu si trattava di far sgravare una femmina meglio di lei nei paraggi non ce ne stava…”
“E che altro?”
“Un giorno l’abbiamo trovata lassù, tra i rami, e nì mà mpaurati come ggesucristu comanda. Quando ciabbiamo dato voce al preside di Rocca Bardata, quello cià smollato nu paro di ducati e ha detto di non parlarne aggiro ché era inutile farci venire a tutti la tremarella, ma tanto le cose si sono sapute comunque, e pure che io l’andavo ripetendo che il brigante Malesano era stato, io stesso in persona non ci credevo: ma manco per un cazzo!”
“L’altro cacciatore, il compagno vostro. Vossia ci vuole dire dove lo possiamo trovare?”
“Nò vi serb’a gnenti sapere dove abita! Quello, prima che la rivoluzione finiva a schifìo, lo scorbuto se l’è portato in cielo, che Iddio l’abbia ngloria. Però è capace ci trovate proprio il preside, nu poco più avanti, lì al fiume: da quando i ribelli l’hanno cacciato a calci in culo dal suo ufficio…”
“Basta, sciàtivini di qua nnanzi, maledetti figghji di puttana,” ringhiò la vecchia dall’alto, e come un aedo scurrile e delirante riattaccò a promulgare il proprio verbo rumando l’aria con la canna dello schioppetto, “andatevene ci nò vulìti che vi scapuzzo la capu a tutt’e quanti sìti, quant’è vero lu Padreternu!”
Con la pazienza di chi è aduso alla testardaggine dei matti, il cacciatore si voltò a ingiungerle ancora una volta di calmarsi. E quando tornò a fissare rimminchionito il cortile ormai ostaggio del tramonto, dei due cavalieri non v’era già più traccia.
Il cacciatore restò impalato sotto la veranda, gli occhi rivolti a sua madre, senza muovere un muscolo. Poi mise al corrente i soldati della morte di suo fratello minore durante la rotta di Roma contro le truppe del Bonaparte.
“Da quiddu giurnu maledetto la testa di mia madre ce la siamo giocata,” conchiuse amaro tamburellandosi la tempia con un dito.
“Quel vecchio arnese con cui ci tiene sottotiro funziona?” s’informò il medico, additando con cautela l’impavida matusalemme al piano alto.
“Capace che spara, sì,” rispose l’uomo, “però è più probabile che ci scoppia in mano. Apparteneva alla buonanima di mio padre…”
A un cenno dell’ufficiale, gli uomini rinfoderarono le armi e si dileguarono senza troppa fretta nella foresta di ceppi e astragali che la bruma serale sbiadiva all’orizzonte. Rimasero solo il capitano e il dottor Fenimonte, i loro animali che sferzavano a destra e manca le criniere per contrastare il turbinante assillo di tafani e mosche di palude.
“Diteci solo della Narda, e parola d’ufficiale vi lasciamo stare.”
Il cacciatore increspò le labbra in una smorfia rassegnata. “E che volete che vi dico?” si lagnò. “Era una che trafficava cogli intrugli e colle erbe magiche e quannu si trattava di far sgravare una femmina meglio di lei nei paraggi non ce ne stava…”
“E che altro?”
“Un giorno l’abbiamo trovata lassù, tra i rami, e nì mà mpaurati come ggesucristu comanda. Quando ciabbiamo dato voce al preside di Rocca Bardata, quello cià smollato nu paro di ducati e ha detto di non parlarne aggiro ché era inutile farci venire a tutti la tremarella, ma tanto le cose si sono sapute comunque, e pure che io l’andavo ripetendo che il brigante Malesano era stato, io stesso in persona non ci credevo: ma manco per un cazzo!”
“L’altro cacciatore, il compagno vostro. Vossia ci vuole dire dove lo possiamo trovare?”
“Nò vi serb’a gnenti sapere dove abita! Quello, prima che la rivoluzione finiva a schifìo, lo scorbuto se l’è portato in cielo, che Iddio l’abbia ngloria. Però è capace ci trovate proprio il preside, nu poco più avanti, lì al fiume: da quando i ribelli l’hanno cacciato a calci in culo dal suo ufficio…”
“Basta, sciàtivini di qua nnanzi, maledetti figghji di puttana,” ringhiò la vecchia dall’alto, e come un aedo scurrile e delirante riattaccò a promulgare il proprio verbo rumando l’aria con la canna dello schioppetto, “andatevene ci nò vulìti che vi scapuzzo la capu a tutt’e quanti sìti, quant’è vero lu Padreternu!”
Con la pazienza di chi è aduso alla testardaggine dei matti, il cacciatore si voltò a ingiungerle ancora una volta di calmarsi. E quando tornò a fissare rimminchionito il cortile ormai ostaggio del tramonto, dei due cavalieri non v’era già più traccia.
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