“Quello che scrivo nel libro è vero: anch’io alla mia prima guerra ci sono andata con le infradito”: Imma Vitelli, a lungo corrispondente giornalistica dall’estero, approda alla narrativa con il romanzo “La guerra di Nina”, nel quale la storia della protagonista prende vita a partire da alcune esperienze da lei vissute sul campo. “Nina sono io a vent’anni, quando ero una giovane donna ingenua e irruente. In lei credo di aver riversato la mia interiorità di giovane reporter alle prese con un salto dentro un mondo crudele”. L’autrice del romanzo racconta a ilLibraio.it la fase di scrittura del libro, la sua carriera da giornalista in contesti difficili (“Ho sofferto a lungo di sindrome da stress post traumatico”), l’esperienza in Siria, e quello che si aspetta dal futuro: “Ho vissuto molto a lungo e intensamente una vita romanzesca, da 007, con il giubbotto antiproiettile. Adesso ho voglia di interrogare la donna che sono stata” – L’intervista

Afghanistan, Congo, Siria, Iraq: questi sono solamente alcuni dei molti luoghi da cui Imma Vitelli, a lungo inviata speciale, ha raccontato storie, parlando spesso di guerra e delle persone che l’hanno vissuta. Guerra e amore sono anche i temi che si ritrovano nel suo esordio alla narrativa, il romanzo La guerra di Nina (Longanesi). Protagonista è infatti Nina, una giornalista che nel 2013 decide di recarsi in Siria. Ad accompagnarla e a permetterle di passare il confine è Omar, fotografo originario del posto, con il quale Nina condivide un amore tormentato.

Vitelli grazie al suo lavoro ha viaggiato in tutto il mondo, occupandosi soprattutto di Medio Oriente. “Dico sempre che sono nata a Matera e rinata a Beirut”, racconta a ilLibraio.it, che l’ha raggiunta telefonicamente. “Beirut è una città caratterizzata da enormi contraddizioni, in cui si trova molta umanità concentrata in uno spazio ristretto. Un altro paese che sento molto mio è l’Afghanistan, un luogo struggente che amo moltissimo”.

“Da troppo tempo”, continua Vitelli, “a Kabul c’è soltanto un lavoro disponibile: la guerra. La popolazione tuttavia è stupenda. Pensi che una volta, in una regione remota, sull’Hindu Kush, arrivai stanca dopo ore in auto nascosta sotto il burqa. Fui accolta dalle donne nelle loro stanze interne e non capii più niente. Presero a massaggiarmi, mi ritrovai con quattro, sei mani addosso! Poi mi spiegarono che era quello il senso del Pashtun Wali, il codice dell’accoglienza afghano: mettere a proprio agio, far rilassare gli ospiti”.

Vitelli ha iniziato il suo percorso di giornalista dopo una specializzazione alla Columbia School of Journalism di New York e poi, in seguito a un’esperienza in redazione che non l’ha soddisfatta, ha deciso di trasferirsi al Cairo, dove ha iniziato a raccontare il Medio Oriente e i fatti che sono seguiti all’attentato dell’undici settembre. Inviata per Vanity Fair, fa per la prima volta esperienza della guerra nel 2006, in Libano. 

L’APPUNTAMENTO CON “LIBIVE” – Il 10 maggio alle 18 Imma Vitelli dialoga con Karim Franceschi e Viviana Mazza sulla pagina Facebook de ilLibraio.it

“Nina sono io a vent’anni”, racconta, “quando ero una giovane donna molto ingenua e irruente. In lei credo di aver riversato la mia interiorità di giovane reporter alle prese con un salto dentro un mondo crudele. Quello che scrivo nel libro è vero: anch’io alla mia prima guerra sono andata con le infradito. Jon Lee Anderson, leggendario collega del New Yorker, quando mi vide disse: ‘You’re such an Italian’, come per dire, ‘ma dove credi di andare?’”.

E poi ancora Afghanistan, Pakistan, Congo, Somalia, Libia e Siria: a portarla in zone pericolose è una grande passione verso il suo lavoro, che descrive come un racconto il più possibile imparziale dei fatti, portato avanti attraverso uno sguardo da testimone compassionevole. “Tutte le scene di guerra sono trasfigurate, ma certamente sono eventi di cui sono stata testimone. Magari in un teatro piuttosto che in un altro, le guerre asimmetriche sono piuttosto simili. Spero di essere riuscita a trasferire quel torrente di emozioni sulla pagina”.

Uno snodo della trama la porta anche a riflettere su alcune questioni etiche che ha dovuto porsi nel corso della sua carriera. “Due anni dopo una trasferta piuttosto ardita in Afghanistan, ho scoperto di essere stata molto vicina al rapimento. Avrei dovuto unirmi a un convoglio della polizia afghana che da Qala-i-Naw sarebbe arrivato a Bala Murghab, in territorio talebano. Ma non fu possibile, me l’impedì l’esercito italiano”.

copertina del romanzo "la guerra di nina"

Perché, tra tutti i conflitti che ha vissuto, ambientare il romanzo proprio in quello siriano?
“La Siria ha lasciato me e molti altri testimoni a bocca aperta: mi sono sentita una naturalista catapultata in un mondo dell’orrore. La realtà superava l’immaginazione: mentre scrivevo La guerra di Nina il mio compito era di tenerla a freno. L’esperienza in Siria è stata incredibile, spesso mi sono sentita il personaggio di un romanzo. Dopo è stato inevitabile fermarmi e cercare un senso”.

La scrittura del romanzo l’ha quindi portata a mettersi alla prova in un modo nuovo.
“È stato catartico. Mi ero ammalata di guerra, ho sofferto anche a lungo di sindrome da stress post-traumatico. Il libro mi ha permesso di attribuire un significato alle esperienze che ho vissuto. È stato anche la cosa più difficile che abbia mai scritto. Mi sono dovuta mettere a nudo e pormi molte domande; è stato come correre in una stanza con una torcia e cercare di illuminarne gli angoli oscuri. Alla fine credo sia venuto fuori ciò che ho imparato sull’amore e sulla guerra”.

Sono opposti per lei, l’amore e la guerra?
“No, penso che siano due facce della stessa medaglia”.

Ci spieghi.
“La guerra è odio ma anche amore, sono sentimenti intessuti nella passione. Scrivendo mi sono resa conto che l’innamoramento e la rivoluzione hanno molte cose in comune: rappresentano entrambi fasi nascenti, ricche di speranza, momenti di estasi. E tuttavia racchiudono già in sé i semi di ciò che verrà. In Siria, per esempio, era molto evidente che quella fase esplosiva di ribellione conteneva i fiori del male. La speranza iniziale è stata quasi una fase di narcisismo infantile, come avviene nell’innamoramento”.

Nina vive contemporaneamente entrambe: guerra e innamoramento.
“Mi interessava che la guerra fosse vista dagli occhi di una voce narrante ingenua e innocente, che la vede per la prima volta, assorbendone tutto l’orrore. Siamo quotidianamente bombardati da immagini, siamo così saturi che in realtà non vediamo. Della Siria mi ha colpito anche la totale indifferenza che le era riservata: succedevano cose tremende ma era come se al resto del mondo cascassero addosso. A me invece sembrava strano che il mondo potesse continuare a girare su se stesso”.

Quest’avventura, per diversi aspetti tragica, permette a Nina di conoscere il doppio volto della guerra, quello in cui le vendette personali si mescolano e trovano modo di compiersi tra gli eventi che fanno la storia.
“Penso che il privato sia politico: gli eventi e le regole che governano la politica sono le stesse che guidano le vite delle persone. Ed è stato questo lo sforzo nel romanzo: riuscire a catturare attraverso l’interiorità in evoluzione dei personaggi l’affresco storico. Ogni vita umana è come un filo e queste centinaia di migliaia di fili intessuti poi creano l’arazzo della storia e della politica”.

Al centro de La guerra di Nina, infatti, troviamo le persone: Nina e Omar prima di tutto, due innamorati che portano con sé delle ferite che non riescono a far rimarginare, ma anche il giovane Walid, Khaled, l’amareggiato comandante di un gruppo di ribelli e l’inarrestabile Amal, che affrontano ognuno a modo loro il dolore di una guerra che li ha lasciati soli.
“Questo romanzo è stato anche un modo per dire grazie a diverse persone che mi hanno accolta. Il personaggio di Amal, per esempio, che è anche il mio preferito, è stato ispirato da un’attivista siriana che ho ammirato molto. Ero entrata clandestinamente in Siria ed ero andata a trovarla in un covo a Damasco: lei mi portava in giro in macchina, alla radio passava una canzone dei Bee Gees, e c’erano i governativi per strada che se ci avessero fermato non so cosa sarebbe successo… Una donna magnifica, dotata di un coraggio senza confini e di una linea etica che perseguiva con coerenza quasi suicida”.

Amal è anche il personaggio più rappresentativo di uno dei temi che innervano la storia, quello della libertà.
“Mi sono interrogata molto su cosa vuol dire davvero essere liberi. Non penso esista la libertà assoluta; se la libertà è la facoltà di sviluppare le proprie capacità e di metterle in pratica, anche l’Italia è un Paese poco libero. In un Paese come la Siria invece, libertà vuol dire essere liberi non solo dal passato, dalla famiglia, ma soprattutto dal sistema, dalla dittatura. E in questo senso la più libera di tutti è proprio Amal, che si aggira impavida bevendo vodka sotto il naso dei fondamentalisti e che sceglie di identificarsi con Bertolt Brecht e non con gli uomini che la brutalizzano. Alla fine, l’unica vera libertà possibile è quella dall’immaginazione”.

Il mondo della narrativa rappresenta per lei un nuovo percorso, che l’ha portata a coltivare anche la passione per l’insegnamento. Pensa che tornerà a raccontare la guerra?
“Ho impiegato talmente tanto tempo a curarmi dalla guerra che al momento non penso di tornarci. Mi piace molto insegnare: ho creato un laboratorio che si chiama La cura delle parole, ed è un’esperienza bellissima in cui ascolto storie molto potenti seduta sul divano di casa mia. La vivo come una continuazione, in forma diversa, di quello che facevo prima”.

Continuerà però a raccontare le sue esperienze?
“La penso un po’ come Milan Kundera: si vivono i primi quarant’anni senza porsi troppe domande, catapultandosi nel tumultuoso flusso della vita, immergendosi nella sua corrente, e poi si trascorrono i successivi quaranta cercando di capire cosa sia successo. Io ho vissuto molto a lungo e intensamente una vita romanzesca, da 007, con il giubbotto antiproiettile. Adesso ho voglia di interrogare la donna che sono stata. Questo è il programma, ma poi la vita sorprende sempre, per cui mai dire mai”.

L’anno scorso la pandemia ha sorpreso tutti. In molti hanno paragonato quest’esperienza alla guerra, cos’ha pensato lei che le guerre vere le ha viste?
“In comune c’è il senso di sospensione, la precarietà. Dopo una lunga fase di ubriacatura e di onnipotenza, il virus ci ha resi di nuovo consapevoli che la vita può essere spezzata come un filo, una lezione che in Europa non ci si ricordava forse dalla seconda guerra mondiale e che ha colto molte persone impreparate. Questo stato di attesa è molto simile a quello che vivono quotidianamente i profughi nelle prigioni libiche o i siriani che si trovano nei Balcani: loro sanno quanto la vita sia imprevedibile. Io invece la precarietà me la sono cercata; ritornare in Italia, soprattutto quando vivevo in Medio Oriente, era per me surreale. Ricordo ancora quella volta che dopo essere stata Mogadiscio mi girava la testa in un centro commerciale”.

Possiamo aspettarci quindi altri romanzi?
“Ho almeno due storie dentro di me che lottano tra di loro. Una, a cui ho già iniziato a lavorare, è ambientata nel deserto del Sahara. Ho in mente questi uomini seduti nella notte stellata attorno al fuoco a chiacchierare… Parto sempre da una scena quando devo scrivere. La guerra di Nina è partita da una casa abbandonata, in cui lei entra di notte infrangendo il vetro della finestra. Ho un sacco di storie da raccontare, e per tornare a Kundera, ho altri quarant’anni per cercare di capire cosa è successo”.

Fotografia header: Andres Gonzalez

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