“Per me questo romanzo parla di dissonanza cognitiva: di come lottiamo per dare un senso al divario tra un mondo segnato dall’emergenza e dalla catastrofe e la piccola scala delle nostre vite, le nostre preoccupazioni futili e le nostre attività”: Katie Kitamura, scrittrice americana di origini giapponesi, racconta a ilLibraio.it alcuni degli aspetti predominanti del suo ultimo, acclamato romanzo, “Tra le nostre parole”, una storia sfaccettata in cui si mescolano tensione, ricerca di sé e riflessioni su linguaggio e traduzione. E spiega: “Per scrivere davvero ho bisogno di dimenticare molto di ciò che penso di sapere sulla scrittura. Cerco di ricominciare da capo con ogni libro. Credo che gli scrittori siano un po’ come gli squali: devono continuare a muoversi, altrimenti rischiano di morire sulla pagina” – L’intervista
Tra le nostre parole (Bollati Boringhieri, traduzione di Costanza Prinetti) è il nuovo romanzo di Katie Kitamura, scrittrice americana di origini giapponesi; inserito da The New York Times Book Review tra i dieci migliori libri del 2021, e parte della lista delle migliori letture del 2021 dell’ex presidente USA Barack Obama, Tra le nostre parole è una delle letture più attese di quest’anno.
In questo romanzo la protagonista, di cui non conosciamo il nome, è un’interprete alla Corte Penale Internazionale all’Aia, dove si trova a dover tradurre le parole di un ex presidente accusato di crimini di guerra. Un incarico al contempo turbante e alienante, che la porta la riflettere sul linguaggio e sulla traduzione, sulla responsabilità delle parole e sul loro ruolo in un contesto così delicato. Queste riflessioni rispecchiano l’inquietudine della protagonista, che è nata, cresciuta e vissuta in paesi diversi, una condizione che la rende nostalgica di un luogo in cui sentirsi a casa e che non è mai riuscita a trovare.
Il tutto si svolge in una città che sembra celare gli aspetti più oscuri delle persone che la abitano, e in cui sia le presenze sia le assenze dei personaggi con cui la protagonista si relaziona trasmettono una sensazione di pericolo imminente. La tensione presente nel romanzo, che si avvolge attorno alla protagonista (cifra stilistica anche delle opere precedenti di Kitamura), è così tagliente che il lettore potrebbe sviluppare l’impressione di trovarsi di fronte a un thriller psicologico. Una sensazione provocata anche dall’acume della protagonista, che nella sua pacatezza si rivela estremamente empatica, attenta, e cosciente di ciò che accade intorno a lei.
ilLibraio.it ha raggiunto l’autrice (di cui Bollati Boringhieri aveva già pubblicato Una separazione) via email per parlare di questi e altri aspetti predominanti del suo ultimo romanzo:
La protagonista di Tra le nostre parole è un’interprete alla Corte Penale Internazionale dell’Aia. Lei è stata lì per fare ricerca per il romanzo: come è stata questa esperienza?
“Ho trascorso un po’ di tempo presso la Corte Penale Internazionale, alla quale mi sono ispirata per la corte del romanzo, a osservare il processo a Laurent Gbagbo. Durante quei giorni ho imparato a comprendere sia la tensione sia l’ordinarietà di un processo. Mi hanno colpito lo spazio e il linguaggio della corte, e l’esperienza di abitarle entrambe. Sono diventate centrali nel modo in cui ho pensato all’istituzione”.
Il romanzo si sofferma spesso sul linguaggio, in particolare sulla responsabilità di tradurre in un contesto in cui le parole cambiano la vita delle persone. Ma anche, per esempio, sullo svuotamento di senso causato dalla terminologia burocratica. Queste riflessioni hanno influenzato il suo modo di scrivere?
“Grazie per la domanda, mi fa piacere sapere che questo aspetto emerge dal romanzo. Sono affascinata dal momento in cui il significato si dissolve. Come parte della mia ricerca ho letto molte pagine di trascrizione dei processi, e durante la lettura il divario tra la parola e il suo significato sembrava accrescersi sempre di più. Nel contesto dei crimini di guerra, della giustizia, questo divario sembra catastrofico, con una portata più significativa di quella teorica”.
“Per esistere dobbiamo dimenticare”, scrive in un passo cruciale. Anche i personaggi sembra che in diverse occasioni scelgano di dimenticare. Quanto invece bisogna dimenticare per poter scrivere?
“Penso che in quanto scrittori si voglia vedere e ricordare le cose che le altre persone dimenticano. Ma per scrivere davvero, ho bisogno di dimenticare molto di ciò che penso di sapere sulla scrittura. Cerco di ricominciare da capo con ogni libro. Credo che gli scrittori siano un po’ come gli squali: devono continuare a muoversi, altrimenti rischiano di morire sulla pagina”.
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Carisma e magnetismo sono due temi ricorrenti, che si interrogano sul valore della performance nella violenza, sia fisica sia psicologica. Ma la stessa protagonista sembra attirare con forza gli altri verso di sé, senza rendersene conto. Quanto del potere che abbiamo sugli altri è consapevole e quanto non lo è?
“È una domanda molto interessante. Penso che la protagonista sia una persona che si considera quasi invisibile; in vari punti si riferisce a se stessa come una zona libera dalla coscienza, come uno strumento della corte. Ma ovviamente non è davvero così, e lei influenza il mondo tanto quanto ne è influenzata. Quando si rende conto di questo – del potere a cui ti riferisci – lei è in grado di riconoscere che è in qualche modo complice delle attività e del potere delle istituzioni di cui fa parte”.
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Nel romanzo vengono accennati temi importanti, come l’aspetto colonialista della giustizia, la gentrificazione, le molestie; la sfera politica, però, non prende mai il sopravvento sulla sfera personale. Quanto è importante soffermarsi sulle contraddizioni del presente in narrativa?
“In un certo senso, penso che il romanzo sia un buon mezzo per farsi strada nel divario tra l’esperienza individuale e gli eventi e le storie sociali su larga scala. Per me questo romanzo parla di dissonanza cognitiva: di come lottiamo per dare un senso al divario tra un mondo segnato dall’emergenza e dalla catastrofe e la piccola scala delle nostre vite, le nostre preoccupazioni futili e le nostre attività. Il romanzo non cerca di eliminare quel divario, ma piuttosto di fissarlo saldamente sulla pagina”.
Nel romanzo, la Corte Penale Internazionale sembra essere un luogo neutrale, dove giusto e sbagliato sono sospesi, e dove, ad esempio, l’ex presidente accusato di sanguinosi crimini di guerra può esistere in un contesto quasi “normale”. Lo spazio della finzione può assumere lo stesso tipo di neutralità?
“Quando la protagonista per la prima volta prende parte alla corte questa assume un aspetto neutrale. Ma più tempo trascorre all’interno dell’istituzione, più quella neutralità cede. Quella facciata di normalità poi finisce per turbarla profondamente. Ma la narrativa è neutrale? Non penso possa esserlo. Arriva da un luogo preciso, da una mente individuale. Porta necessariamente con sé la traccia di quella mente”.