“Isole dell’abbandono” di Cal Flyn raccoglie dodici reportage da luoghi dove sono avvenute piccole apocalissi. Paesaggi devastati nei quali però, inaspettatamente, l’ecosistema ha saputo reagire ricreando un nuovo movimento di vita, come un insopprimibile passione biologica…

L’epoca contemporanea è assediata dalle paure della fine, e produce un nutrito catalogo di figure distopiche, descrizioni di paesaggi desolati, racconti di zone deformate dalla mano dell’uomo o dalla ribellione della natura a una violenza ormai insopportabile.

Tutto questo, però, viene sempre collocato in un futuro più o meno prossimo, un momento magari molto (troppo) vicino ma ancora di là da venire, e in un contesto in cui la vita rimasta – umana e non umana – è costretta a cercare disperatamente di sopravvivere, potendo fare poco di più che rimandare un’estinzione già scritta.

Isole dell’abbandono di Cal Flyn, tradotto da Ilaria Oddenino e edito da Blu Atlantide, mostra invece come vi siano proprio adesso, nel nostro presente, parti di mondo che hanno già vissuto la loro catastrofe.

Traccia una mappa delle piccole apocalissi che il nostro pianeta ha vissuto negli ultimi anni, riportando l’esperienza di dodici luoghi della devastazione nei quali, incredibilmente, la natura (e, a volte, gli uomini) hanno reagito al disastro riconfigurandosi, ricreando una vita inaspettata tra le macerie.

Chernobyl infestata dalle radiazioni, le colture abbandonate dell’Estonia post-sovietica, gli esperimenti coloniali di interazioni tra specie in Tanzania, ma anche le enormi cattedrali di archeologia industriale di Detroit, con interi quartieri completamente lasciati a loro stessi, o le zone tossiche di Verdun, che cento anni dopo la prima guerra mondiale sono ancora avvelenate da un massacro durato per trecento giorni.

Tutti posti dove la Storia e l’azione umana ha lasciato segni pesanti, apparentemente insormontabili. E da cui gli abitanti si sono ritrovati a dover fuggire, impotenti di fronte a ciò che loro stessi, in qualche modo, avevano generato.

Isole dell’abbandono

Isole dell’abbandono, quindi, fini-del-mondo su piccola scala che anticipano cosa ci aspetta in fondo alla lunga corsa folle cui spesso si da il nome di progresso. Eppure, quello di Cal Flyn è un messaggio di speranza. Di più: il suo intento, nel viaggio agli inferni che punteggiano la terra, è quello di cercare le tracce della vita che non si è arresa, della vita che è ricominciata. Intrecciando le ricostruzioni scientifiche e le testimonianze dirette, mostra cosa possa risorgere dalle ceneri del nostro pianeta, e come gli ecosistemi non solo si adattino ma provino a rispondere, a rifiorire.

Non c’è nessun intento assolutorio, tutt’altro. Nulla sgrava l’uomo dalle proprie responsabilità di fronte a una biosfera calpestata e di cui si sono ignorati gli avvertimenti. Ma l’attenzione per i meccanismi di resistenza e risposta della natura contribuisce a spostare il centro della riflessione: non più l’insistenza su una congenita vocazione ecocida dell’uomo, che ha il sapore di un antropocentrismo al contrario e sfocia in teorie della necessità dell’estinzione, ma l’accento posto su una sorta di desiderio innato di vita.

Lontana anche da ogni mistica, questa passione biologica è forse ciò che più di tutti accomuna l’uomo e il resto del vivente, la strada per una possibile riconciliazione. Sono così dissimili le storie dei muschi, dei licheni, degli animali che sono tornati a popolare una zona morta o radioattiva da quelle degli uomini che cercano di abitare una periferia dismessa o l’area desertica intorno a un lago tossico? Certo, in entrambi i casi sono presenti sfumature cupe, difficili, storie di disperazione e faticoso adattamento, in fondo alle quali però c’è la scintilla di una possibilità che tolga un po’ di spazio alla rassegnazione.

Questi reportage sembrano una sorta di romanzo, dodici storie vere dove l’ambiente e tutti i suoi abitanti sono in bilico tra la fine e un nuovo inizio, completamente inaspettato. Dai luoghi più remoti e inospitali può arrivare una fotografia che non parli del disastro che ci aspetta ma delle strade che si aprono dopo i nostri errori, se sapremo farne tesoro. L’autrice stessa ne è consapevole: “Penso quindi sia importante sottolineare che il mio non è un lasciapassare per chi ha intenzione di depredare ulteriormente il nostro pianeta. Per me, queste storie di redenzione offrono qualcosa di diverso: sono fiaccole che brillano in un paesaggio buio, raggi di speranza in un mondo che a volte sembra esserne privo”. Una redenzione tutta laica, estremamente materiale e corporea: le isole dell’abbandono ci suggeriscono forse di abbandonarci anche noi al movimento del vivente, di avere fede nelle sue infinite capacità di rinnovamento e scoperta.

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