Quando uscì nel 1950, “La donna nuda”, dell’uruguaiana Armonía Somers ora tradotto in Italia, attirò diverse critiche per il suo contenuto erotico e brutale. La storia parte dal trentesimo compleanno della protagonista, che proprio quel giorno decide di mozzarsi la testa e metterla su un piedistallo. Da lì partirà la sua parabola nel bosco: vagherà nuda, con una testa nuova (o era quella di prima?), i capelli al vento e tanti altri nomi, sempre diversi…

Se esistesse un Parnaso abitato da coloro che non hanno avuto paura ad arrischiarsi con la penna, che hanno spinto la scrittura fino ai limiti dell’indicibile e dell’innominabile, Armonía Somers troneggerebbe, svetterebbe in alto e farebbe piovere sulla terra le sue parole appuntite, spudorate, luminose e incantatorie. E, forse, purificherebbe il suolo con il cozzare della sua scrittura che batte come grandine.

Armonía Somers è una cuentista pura e iridescente, che fa del talento affabulatorio l’involucro in cui inserire descrizioni e dialoghi allucinati. Impreziosisce tutto con un registro linguistico che non è semplicemente attraversato da linfa, ma ne produce in gran quantità.

Nata nel 1914 e morta nel 1994, l’uruguaiana Somers sta godendo di un rinnovato interesse per la sua opera, al pari di altre scrittrici latinoamericane, come Amparo Dàvila, altra finissima e pregiata cuentista. Per Somers i paragoni si sprecano: è stata paragonata a Lispector e Carrington, ma la verità è che Somers è uguale soltanto a se stessa e basta.

Come altre scrittrici latinoamericane, Somers ha pagato lo scotto di essere stata pressoché ignorata dalla critica, trovando una rivalutazione soltanto dopo la morte: se si leggono i suoi testi, tutto ciò fa ancora più rabbia, perché è dotata di una lucidità e di un talento talmente cristallino da far venire i capogiri.

L’opera per cui viene ricordata maggiormente è La donna nuda, uscito nel 1950 e accompagnato da uno strascico di scandali per il suo contenuto erotico e per la crudeltà dei toni espressionistici.

Si stentò a credere che l’autrice fosse una donna, come se in una scrittura femminile dovessero esserci per forza determinati temi e toni e non altri, senza tenere conto che la voce autoriale non si può governare, scegliere e indirizzare.

La donna nuda di ArmonÍa Somers

Dopo più di settant’anni, il romanzo è stato pubblicato per la prima volta in Italia da Ventanas, una casa editrice al debutto, ed è stato tradotto da Laura Putti.

Questo libro parte da un’immagine, tanto semplice quanto spiazzante: il volto della protagonista, Rebecca, che si guarda allo specchio, il giorno del suo trentesimo compleanno. Rebecca è approdata alla bellezza piena dei trent’anni, si è sfrondata dal viso dai lineamenti acerbi dei vent’anni e guarda ciò che è diventata, florida e sanguigna, un astro freddo.

“Il giorno del suo trentesimo compleanno iniziò con quello che Rebeca Linke aveva sempre immaginato, nonostante in cuor suo avesse sperato il contrario: il nulla. E se non accadesse nulla, allora? si era domandata più di una volta, né nel bene e neanche nel male, che è pur sempre qualcosa? L’errore, dunque, sembrava avere radici nell’essersi imposta quella misura nel tempo rispetto a un fatto che in un certo senso considerava fondamentale, quando invece ciò che dovrà accadere sarà sempre opera della zampata cieca, della misteriosa imboscata tesa dalle situazioni più semplici”.

Fin dall’inizio, Somers ci cala in quell’atmosfera di ricorsività temporale ma anche di incertezza cronologica che è tipica un po’ di tutto il romanzo latinoamericano, come se fosse un crisma narratologico da rispettare, ma che rivela le sue capacità sorprendenti quando è leggermente mosso e increspato al suo interno. E Somers lo fa, e il lettore lo capisce in modo prevedibile ma non scontato.

I trent’anni di Rebecca sono l’inizio della polvere da sparo, l’inizio della sua avventura camaleontica e metamorfica che ricorda un po’ i misteri iniziatici della letteratura greca, ma anche i ludi scenici latini. Tutto ciò si riannoda nelle coordinate temporali, che sono fisse ed evanescenti, dei puntelli a cui aggrapparsi e di cui non fidarsi. Proprio il giorno del suo trentesimo compleanno, Rebecca compie un gesto shoccante. Lasciamo che siano le parole vive dell’autrice a svelarlo:

“Una testa, qualcosa di tanto importante su un collo tanto vulnerabile… La lama penetrò senza sforzo, nonostante il braccio morto e la mano senza dita. Si imbatté in innumerevoli cose che si chiamavano forse arterie, vene, cartilagini, ossa con articolazioni, sangue viscoso e caldo. Si imbatté in tutto tranne che nel dolore, che ormai non esisteva più.

La testa rotolò pesantemente come un frutto. Rebeca Linke la vide cadere senza provare gioia né dolore”.

Rebeca si mozza la testa il giorno del suo trentesimo compleanno, e rimane scevra, amputata e nuda nella sua vibrante scorza. I suoi trent’anni assumono il suono metallico della mannaia e della lama, e si spoglia non solo del capo, dei capelli e della faccia, ma anche e soprattutto del nome. Tutto questo è narrato con un lessico crudo ai limiti dell’insopportabile, una dovizia di particolari che non risparmiano un certo gusto fisico e sensuale per il macabro: viene da pensare a certe narrazioni latine di Svetonio, quando si parla del suicidio di Petronio, poeta arbitro dell’eleganza, che nel momento della morte indugia sulle vene e sulla materia viscosa del sangue.

Tutto è evanescente e surreale, pur rimanendo estremamente preciso e concreto.

“Com’era possibile che il mondo in movimento si fosse fermato d’un colpo secco? La donna senza testa restò distesa sul tappeto scuro, stretto come un incubo, del suo ultimo atto. Tutto questo aveva di sicuro una dimensione temporale. Ma in quel momento l’ipotesi più semplice doveva essere a corto raggio. Arrivate alla gola, le domande cessavano”.

Rebeca smette di rispondere a ogni domanda, perché le domande si bloccano nella gola orfana della testa, smettono di esistere. Ogni descrizione e singulto sono figli di un’immaginazione verace, inquieta, che serba in seno delle venature sinistre.

“Ebbene, chiunque abbia perso un organo sa che a volte lo si sente ancora per lì per brevi, affascinanti secondi nei quali è impossibile lottare contro l’evidenza del ritorno”.

L’espressionismo e la crudeltà delle descrizioni fa pensare a certi medaglioni presenti nelle novelle boccacciane, in cui la venerazione per la parte del corpo perduta diventa feticismo e ossessione per le reliquie: basti pensare alla novella di Lisabetta da Messina, e subito sovvengono alla mente immagini di teste mozzate e piantate nel vaso del basilico. Ma Rebecca qui, al contrario dell’eroina di Boccaccio, non pianta la testa nel basilico, ma se ne lascia crescere un’altra, inesistente, in una palingenesi mostruosa:

“Sentì cioè che la sua testa, quella inesistente, stava rispuntando in modo dolce e leggero, come una specie di papavero nella stagione della semina. Aveva dentro un lieve formicolio, unica traccia della gestazione”.

Con una testa nuova (o forse la stessa di prima?) sul collo, Rebeca comincia a peregrinare per il bosco, nuda e senza un nome. Di volta in volta, si darà nomi diversi, partendo da Eva.

Il bosco la graffia e la possiede, si lascia le convenzioni alle spalle e respira tutte le donne che abitano dentro di lei. Rebeca/Eva ha il fuoco dentro, che brucia la paglia della sua vecchia vita, conserva i fiori appassiti e gli abiti strappati, ma non è più la stessa e questa è la sua unica salvezza. Non è né albero né fantasma, è una creatura femminile che si staglia in mezzo al fogliame mentre un intero paese la cerca, armato di forconi.

Questo romanzo, scritto magistralmente e con una voce vampiresca e livida, è una storia onirica e amara sulla lotta per l’autonomia delle donne. E, come spesso accade per le autrici latinoamericane, il canto di questa lotta è tessuto con la stoffa del cuento, il racconto che si emancipa dalla pura narrativa e si fa affabulazione per la battaglia, un cuento che diventa inno, rivalsa e si trasforma magnificamente in canto general.

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