Un romanzo sulla famiglia e sull’amore che arriva all’improvviso ambientato in Islanda, una terra sospesa tra i vulcani e l’Oceano, dove il cambiamanto è l’unica costante… Su ilLibraio.it un capitolo da “La fattoria del cane rosso” di Nathaniel Ian Miller
Dopo Le memorie di Sven Stoccolma (traduzione di Luca Briasco), Nathaniel Ian Miller torna sempre per Blu Atlantide con un romanzo ambientato in una fattoria nell’Ovest dell’Islanda. Lì, Orri ha imparato a vivere immerso nella natura e a godere della sua bellezza: passeggiare con il suo cane Rykug, sentire il canto degli uccelli dopo l’inverno e vedere la nascita di un vitellino.
Ma per il giovane è giunto il momento di partire per la città, di lasciare suo padre, un uomo taciturno e un po’ bizzarro, e sua madre, una professoressa universitaria intellettuale e affettuosa, per seguire l’università a Reykjavík.
Può interessarti anche
Lontano dai prati e dagli animali, Orri si sente tormentato e triste, e alla notizia che il padre manifesta i primi sintomi di una depressione decide di tornare alla fattoria prendendosi una pausa degli studi.
La fattoria del cane rosso (traduzione di Alessandra Osti) di Nathaniel Ian Miller è un romanzo sulla famiglia e sull’amore che arriva improvvisamente, nei momenti e nei luoghi meno aspettati. In cui il cambiamento sembra essere l’unica costante: quello stesso cambiamento che ciclicamente rinnova i confini e le forme dell’Islanda, una terra sospesa tra i vulcani e l’oceano.
Ancora una volta, Miller e la sua narrazione si muovo in uno spazio lontano dalla metropoli e immerso nella natura: luoghi, quelli abitati da Orri e da Sven (protagonista del precedente romanzo), che sono in grado di diventare a loro volta personaggi e far provare sensazioni uniche a chi legge.
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:
A intervalli di anni – se ne passano troppi diventiamo irrequieti – l’Islanda si ricrea. La terra, che potrebbe sembrare rocciosa e immutabile, a un certo punto inevitabilmente si spacca e il sangue caldo viene fuori ribollendo, qualche volta con un getto, oppure colando. Il fumo riempie l’aria, i turisti l’aeroporto. Quando tutto finisce, osserviamo il nuovo panorama. Può esserci una montagna dove c’era una città, oppure un’isola dove prima c’era solo mare.
È un paradosso tutto islandese: la natura tenace di questo luogo è proprio il cambiamento. Non è tanto un adattarsi, quanto una trasformazione. È scritto nelle nostre rocce e nelle nostre ossa.
Scopri il nostro canale Telegram

Ogni giorno dalla redazione de ilLibraio.it notizie, interviste, storie, approfondimenti e interventi d’autore per rimanere sempre aggiornati

Credo che si potrebbe dire lo stesso di mio padre e, forse, di me.
Non tutti si trasformano nei propri genitori, ma sono state le loro vite e le loro ferite a costruire le case in cui viviamo. Appartengono a loro i martelli e le mani ruvide e screpolate che hanno montato ogni finestra e ogni porta sbilenca. Sia che la pioggia faccia marcire le nostre pareti di legno, sia che i vortici di sabbia rossa riescano a scardinare i tetti di lamiera spedendoli in Groenlandia, o che possano smussarli, ammaccarli o lasciarli intatti, è solo un riflesso del loro lavoro. Ovviamente intendo una casa metaforica – Pabbi e Mamma erano in grado di costruire soltanto cose rudi mentali: tavolinetti, recinti, aeroplani di carta.
Ormai faccio il contadino da più di dodici anni. Non mi sento più presuntuoso a dirlo, anche se i vecchi continuano a trattarmi da novellino e a darmi consigli non richiesti fino a che poi sbottano rantolando con un “Orri, bisogna fare così”, che mi costringe a chinarmi per domandargli di ripetere, cosa che non possono fare perché sono morti.
Mi danno consigli anche su come tirare su i figli. La mia – una bambina, così mi dicono – sta per nascere. Intendo ignorarli tutti, almeno finché mi converrà. Intendo abiurare fiocchetti, gonnelline e fronzoli in favore di stivali di gomma e guanti di pelle; voglio farle sostituire i filtri dell’olio e riempire le siringhe veterinarie da quando avrà tre anni, in modo che possa riconoscere tutte le assurdità disseminate in quei libri da bambini sulle fattorie e chiedersi: “Perché non c’è lo sporco che c’è da noi?”. Così, se mai vorrà lavorare nella fattoria, diventare una “contadina”, saprà esattamente di cosa parla.
Può interessarti anche
Non dico che la fattoria sia un successo. Non lo so ancora, non posso affermare una cosa tanto importante, e porterebbe sfortuna. Inoltre, quando si lavora la terra, si spendono comunque un sacco di soldi, quindi è difficilissimo stabilirlo.
Mio padre, il mio Pabbi, mi ha insegnato a fare il contadino. Anche suo padre lo faceva, eppure lui è riuscito a sottrarsi a quella pesante influenza. Io non sono così. Non è una contrapposizione a definirmi, come invece è stato per Pabbi. Ogni giorno gli somiglio di più e anche a Mamma. Diciamo che durante un breve incontro con un operaio al macello potrei sentirmi permeare da quello stesso implacabile silenzio, simile a un vuoto nell’aria, e rifiutarmi di chiacchierare con lui o di commentare il tempo, e che quel vuoto a me non pesi affatto, mentre all’operaio sì.
E sono mutevole, come Pabbi. Mi adeguo, restando fedele come posso a pochi principi e dogmi, inclusi i suoi. Approverebbe, penso. Cambiare significa impersonare una delle sue parti migliori, anche se decenni di attriti contro quella vita gli hanno provocato scorticamenti e lacerazioni. Forse per la sua generazione è stato più difficile. O forse in fondo in fondo non si può negare la cruda verità dell’agricoltura.
Scopri la nostra pagina Linkedin

Notizie, approfondimenti, retroscena e anteprime sul mondo dell’editoria e della lettura: ogni giorno con ilLibraio.it

Quindi c’è una differenza tra noi: nonostante il grande amore di Pabbi per mia madre e per me, e il suo genuino affetto per gli animali, la vita per lui è stata come una perdita lenta e costante, un inaridirsi graduale della speranza. Credo di essere diverso. O almeno cerco di esserlo. Vedo le sue stesse rughe che convergono sulla mia fronte come torrenti primaverili quando alzo la faccia dopo aver sputato il dentifricio. Vedo gli angoli della bocca che scendono verso la terra, proprio come i suoi, mentre sto facendo qualcosa di umile, di decisamente non cerebrale, come rompere il ghiaccio sotto un cancello congelato o spargere merda da un secchio. Però avere l’aspetto di un vecchio contadino amareggiato – è risaputo che invecchiamo prematuramente – non è come sentirsi uno di loro.
Può interessarti anche
Inoltre il pozzo della speranza di Pabbi non è mai stato molto profondo. Se quando ha lasciato le isole Westman era già pieno per metà di fango e di pietre laviche appuntite, non è stata colpa sua. Se il mio invece ha riserve maggiori, o è sempre pieno di trasparente acqua dei ghiacciai tanto da non farmi notare che un po’ va persa, è solo perché i miei genitori l’hanno cercato e scavato a mani nude in modo che potesse resistere come Írskabrunnur, il Pozzo degli Irlandesi.
Un contadino deve sopportare molte cose.
(continua in libreria…)
Scopri le nostre Newsletter

Notizie, approfondimenti e curiosità su libri, autori ed editori, selezionate dalla redazione de ilLibraio.it

Fotografia header: Nathaniel Ian Miller, foto di Eilis O'Herlihy