Giuliana Zeppegno scrive un giallo ambientato nella Spagna del 2011-2012, tra proteste e agitazioni popolari. “L’indignata” non si limita a raccontare la scomparsa di una giovane, ma richiama lettori e lettrici alle sfide e alle responsabilità del presente – Su ilLibraio.it un estratto del romanzo…

Una ragazza scompare mentre Madrid è invasa dalle proteste. L’indignata (TerraRossa Edizioni) di Giuliana Zeppegno è la storia di Teresa, ragazza indomita e sovversiva, protagonista nonostante (o forse proprio per) la sua scomparsa, in una narrazione che tende alla pluralità e che si incarna, di volta in volta, nelle voci e nei pensieri degli amici della ragazza: Andrés, Giulia e David.

Tre giovani che con i loro sogni, desideri e frustrazioni ci portano in una Spagna poco descritta: quella del 2011-2012, quando le proteste contro le politiche di austerità riempiono le piazze e agitano i social.

l'indignata di Giuliana Zeppegno

Giuliana Zeppegno, che dal 2010 vive nella capitale spagnola, dove fa l’insegnante di italiano come lingua straniera e traduttrice dallo spagnolo scrive un romanzo giallo che non si limita a descrivere ma richiama lettori e lettrici alle sfide e alle responsabilità del presente.

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Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

Accavallava le gambe. Le scavallava. Mordicchiava il tap­pino della bic. Osservava quelle bocche muoversi e le mani dimenarsi in aiuto di parole che aveva smesso di ascoltare e pensava Perché sono qui e non a zonzo per il barrio, a esco­gitare versi effimeri, che dimentico prima di essere tornato a casa? Che cos’ha, quest’assemblea, di diverso dalle altre?

La risposta prese forma in tre secondi, senza quasi passa­re dal cervello: Sarebbe potuto toccare a me.

Quel giorno c’ero anch’io, sarebbe potuto toccare a me entrare nel raggio di una telecamera ed essere cercato dieci giorni dopo. Sarebbe potuto toccare a me come a chiunque altro, anche senza pietre, insulti o pedate alle portiere del furgone. Ma era proprio quello il punto?

Perché poteva essere lui sempre, a ben guardare. Lui al posto del muratore, dell’operaia, dell’impiegata senza uno, due, tre dei milioni di posti di lavoro distrutti dalla crisi. Proprio “distrutti” dicevano i giornali, come le vite distrutte di quelli che dopo si erano suicidati. O i sogni distrutti di chi aveva sempre e solo sognato quel che gli avevano detto di sognare.

Giuliana Zeppegno, foto di Davide Barbieri

Giuliana Zeppegno, foto di Davide Barbieri

Lui al posto della Pepa rimasta senza casa, l’appartamento al quarto piano in calle del Calvario senza ascensore, senza finestra in bagno, da riaffittare a prezzo doppio all’hipster, al dirigente, ai battaglioni con i trolley e le infradito.

Lui al posto del migrante congolese, ecuadoriana, pachi­stano, marocchina, bengalese, fermato un giorno sì e l’altro pure, Documenti prego, sulla base del colore della pelle, di una giacca un po’ sdrucita, o di un passo non conforme, troppo lento forse, chiaramente poco produttivo. Della profuga, fuggiasca, rifugiata, clandestina, chiusa in un CIE come una criminale o deportata su un aereo commerciale, il capo chino, i polsi in grembo, e intorno ai polsi le manette nascoste dal foulard.

Poteva essere lui sempre. Buoni e cattivi, buone e cattive. C’è chi vince e c’è chi perde, nella ruota della vita: una per­petua lotería de Navidad. E allora? Coltivare pensieri come quello portava alla deriva, David lo sapeva bene. L’identi­ficazione come un vortice di possibilità infinite. Ma non riusciva a smettere di interrogarsi, di volersi capire. Un campione di seghe mentali, ecco che cosa sono, pensò. E si alzò per andare in bagno.

I presenti intanto facevano un brainstorming di concet­ti per il comunicato. Solidaridad era la parola che sentiva più spesso. Solidarietà con questo, solidarietà con quella. Avresti potuto esserci tu. Solidarietà era la parola giusta, in effetti. Ma che diavolo voleva dire solidarietà? Scava scava, che cosa c’era sotto? L’empatia, forse, o piuttosto un’idea nuda, impersonale? E che cos’è quest’empatia di cui tutti si riempiono la bocca, se non il mettersi nei panni di, il soffri­re con, il gioire insieme?

Fino a pochi anni prima lui non conosceva se non la propria piccola vita, con le sue esigue, ancora incipienti combinazioni di fattori, e ignorava le sfumature che pote­va assumere l’esistenza a mille, a novemila chilometri di distanza. Adesso sentiva le esistenze altrui dentro le ossa, commoventi, tragiche, e gli veniva da mettersi nei panni di chiunque. Ma di chiunque chi?

Dove comincia e dove finisce il “noi” col quale mi iden­tifico? si chiedeva mentre l’assemblea volgeva al termine e qualcuno già si stava accomiatando. Chi c’è, dentro? Me più i miei amici? Io e la mia famiglia? Il Sud del mondo? Noi precari, marginali, utopisti, libertari, apocalittici, disin­tegrati? Per tanti la risposta era: gli esseri umani in gene­rale. O tutti gli animali, umani e non, secondo alcuni altri. E perché non gli esseri vivi tutti? avrebbe obiettato qualche amica sua. Comprese le alghe, i funghi e i licheni. L’identità ci ha fottuti, rimuginava David. Stupidi bipedi ossessionati dal chi siamo. Ma forse non è possibile pensarsi al di fuori di un’identità. Mobile, provvisoria, o almeno negativa: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Si rivedeva a cavalcioni del huarango, mentre pensava Vorrei un posto a cui appartenere. O al funerale di Shumay, fangoso, disperato, quel pomeriggio di ottobre in cui i ri­ferimenti erano crollati tutti insieme, dal cielo capovolto calava un’acqua fine e lui avrebbe fermato tutti quanti per abbracciarli, e chiedere: Che cosa facciamo, adesso? E io, io che devo fare?

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Si rivedeva, anni addietro, mentre gridava in un corteo a squarciagola: ¡Ningún ser humano es ilegal! Nessun essere umano è illegale!, come se qualcuno, davvero, potesse du­bitarne. O sul sofà di Lima, insieme a Carmen, che gli chie­deva dei suoi trisavoli accarezzandogli le linee della mano e lui diceva: Tutti spagnoli, mi sa, tutti nipoti di quelli che hanno sterminato i tuoi.

Un bel casino questo “noi”, si ripeteva. E cominciava a sospettare che il colore delle lotte, la loro direzione, inizias­se proprio lì, dal senso che si dava a quella parolina. Che lì stesse l’incrocio, possibile, tra tutti gli -ismi in mezzo ai quali si sentiva naufragare.

Poi pensò che il noi, di quando in quando, può essere un macigno. Che forse Tere, schiacciata da quel peso, era schizzata via dall’orbita, aveva preso la tangente e ora va­gava in qualche punto dello spazio, piccola, dimentica, leg­gera.

Tere è scomparsa, sentì dire Andrés in quel momento. E sollevò lo sguardo sulle facce esterrefatte degli amici, simili ai volti degli spaventapasseri che avevano portato in corteo per protestare contro la speculazione immobiliare a Lava­piés alcuni mesi prima.

Fu un po’ estenuante ripetere la storia fino a quel mo­mento, o meglio le poche notizie che erano riusciti a ra­cimolare, setacciate da ciò che avevano accordato di non rendere pubblico. Per fortuna ci pensarono Giulia e Andrés a riassumere tutto quanto e a rispondere alle domande, pazientemente, prudentemente, senza lasciarsi sopraffare dall’emozione, mentre lui pensava Grazie, ragazzi, siete la caña. È grazie a gente come voi se esiste questo noi speci­fico e particolare. Se durerà più a lungo di un sospiro. Se resterà, alla fine, qualcosa che valga la pena ricordare.

Minchia che frase, pensò. La annotò sul taccuino. Poi la rilesse, aggrottò la fronte, e ci tirò una riga sopra.

(continua in libreria…)

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