“Lucy davanti al mare”, il nuovo romanzo di Elizabeth Strout, ci riporta ai mesi più difficili della pandemia: la scrittrice americana ha il merito di reinterpretare quei giorni con una forza che ci aiuta dolcemente a farci i conti, dopo che per lungo tempo non abbiamo voluto ripensarci…

Nel 2020 c’è stato un momento in cui il tempo si è fermato. Era domenica. Dal giorno dopo non saremmo usciti di casa, né andati a scuola; per il lavoro ci avrebbero detto. A quanto pareva bisognava che ci proteggessimo da un virus che non si conosceva ancora e che sembrava fatto per mangiarci i polmoni. Non era notizia recente: da settimane si parlava dell’epidemia che in Cina stava riempiendo ospedali e bare. La novità era che il Covid-19 era arrivato anche da noi, si stava diffondendo e che non c’era cura al mondo che gli impedisse di entrare in casa e di trovarci.

Lucy davanti al mare di Elizabeth Strout

Raccontare quel periodo, quella pausa di sospensione e attesa inquieta che non succedesse niente di che, è ancora merce rara al cinema e in libreria. Elizabeth Strout però torna sui nostri scaffali con un personaggio molto amato, la Lucy Burton di Mi chiamo Lucy Burton e dei magistrali racconti di Tutto è possibile, e, senza paura, ci prende per mano e ci riaccompagna indietro nel tempo fino al momento in cui qualcuno ci ha chiamato per chiederci: Hai sentito? Ma che sta succedendo secondo te?

In Lucy davanti al mare (come i primi due tradotto dalla bravissima Susanna Basso) la protagonista, scrittrice dalle umili origini ancora impegnata a fare a pugni con un’infanzia di povertà e abusi da cui ha ereditato il fantasma di una madre terribile, viene trascinata nel Maine dall’ex marito William e abbandona così riluttante una New York in cui comincia a diffondersi una nuova influenza in arrivo dall’Italia. Poco importano dubbi e incertezze, però.

Ha pensato e penserà a tutto lui nei mesi successivi: ai rari spostamenti in un’auto disinfettata, alla spesa che non entra in casa se non vengono eliminati tutti gli imballaggi, ai vestiti pesanti in previsione dell’inverno e ai libri che serviranno per le lunghe settimane di lockdown.

All’inizio Lucy è insofferente alle mille precauzioni dell’ex marito: al suo continuo sanificare, alle mascherine tenute in casa, alla distanza che vuole mettere di continuo tra loro e il mondo. Quando la gente comincia a morire però, gente con cui si usciva e si andava a pranzo, qualcosa cambia: del resto William è uno scienziato e la malattia la teme perché l’ha vista arrivare. Lui, noi no.

“E’ un dono della vita il fatto di non sapere cosa ci aspetta”.

È questo che scrive Lucy mentre i giorni passano e i contorni della pandemia non diventano mai del tutto chiari. Però ci sono le persone: le sue figlie alle prese con matrimoni fragili, l’ex moglie e la bambina di William, che sono lontane, assediate dal virus e senza difese. In questa nebbia di un tempo sospeso l’unico contatto possibile sono le telefonate, le passeggiate fatte tenendosi a distanza, le confidenze che a stento si sentono attraverso la mascherina.

Ci sono poi le grandi scelte che ci siamo trovati a fare anche noi in quel periodo: restare in casa o uscire, aprire la porta al vicino o lasciarlo fuori mettendo sul piatto la possibilità di morire pur di non sembrare esagerati, l’altalena quotidiana tra speranza e paura.

Una risposta certa per ognuno di questi bivi mancherà a lungo, almeno fino all’annuncio del vaccino. Una risposta vera invece, cominciano a darla da subito oggetti e luoghi: quelli che permettono di arrivare a fine giornata o aiutano a prendere sonno; e poi il mare con le due panchine che sembrano un modo per chiederci di restare al sicuro, lontano da tutti, per il maggior tempo possibile. O l’appartamento vuoto a New York dove David, l’ultimo marito di Lucy, non tornerà più perché è già morto da tempo e dove lei stessa potrebbe non tornare. Quell’appartamento la chiama ma senza risposta perché non ha più senso o utilità e non significa più nulla. Non è più un “viverci” ma una cosa tra le cose. E le cose non hanno bisogno di respirare.

Al contrario, mentre la storia procede, diventa evidente che le persone sono la chiave di quello che è successo e potrebbe succedere ancora. Persone che sono figli, sorelle, fratelli su cui il covid incombe come una funesta lotteria (e che dolore leggerla vinta a un tratto).

C’è chi si è perduto da prima che tutto cominciasse a diventare abitudine e ci sono le persone come Charlene Bibber che attraversa la pandemia da sola nella sua casa ed è come una pallina da ping pong che rimbalza in una stanza piena di palline di ping pong che fanno lo stesso eppure non ne incontra mai nessuna. Persone sono anche le migliaia che scendono in piazza per far sentire la loro voce dopo l’uccisione di George Floyd e per gridare in pubblico l’ingiustizia di un paese corrotto e non solo tra le fila della polizia. A queste, anche se marciano troppo vicine tra loro, Lucy sente di appartenere. Ma che dire di chi pochi mesi dopo assalterà il congresso per manifestare solidarietà a un Presidente indifendibile? Cosa può pensare Lucy Burton di questi sostenitori di una destra razzista e guerrafondaia, della loro pelle bianca usata come un’arma, della deprivazione culturale e della povertà generazionale che li ha cresciuti e tenuti utilmente arrabbiati? Li detesta, ovviamente. O forse non li capisce proprio lei che ha condiviso la stessa miseria capace di incrudelire.

La gente che ha dei guai seri noi la facciamo sentire stupida, le dice William e per un poco Lucy concorda e sente che “il mormorio di una guerra civile sembrava muoversi intorno… come una brezza che non percepivo sulla pelle ma di cui sentivo la presenza”. Ma come può perdonare a questa gente il razzismo e la difesa di un antico privilegio? Che empatia può avere verso chi somiglia così tanto a sé stessa bambina, a sua sorella, alla loro solitudine e vergogna per essere cresciute così sole e affamate, per chi ritorce sugli altri le parole orribili che gli sono state rivolte e una terribile mancanza di amore? Lascio a voi seguire la direzione che prende il romanzo di Strout, ma in questi giorni più che mai le parole di William non mi lasciano:  abbandoniamo le persone alla loro disperazione, passiamo il tempo a farle sentire stupide e poi ne passiamo molto di più a temerle e a chiederci come fare a proteggerci da loro.

Ci siamo stati. Abbiamo visto il tempo fermarsi e abbiamo avuto paura che non ne saremmo usciti. Abbiamo imparato a lavarci le mani e a tenere su la mascherina o a notare quando non succedeva. Abbiamo temuto gli altri o li abbiamo cercati di nascosto. Abbiamo seppellito moltissime persone. Eppure quando il romanzo di Strout comincia e William fa le cose giuste per salvare la vita di tutti passiamo le prime pagine a lottare contro questa capacità di prevedere, contro la parola stessa pandemia, perché sembra giusto che appartenga alle distopie letterarie e non sia fatta per strabordare mai oltre la pagina.

Con straordinaria e solo apparente semplicità per il modo unico in cui la lettura scorre veloce, Elizabeth Strout ha interpretato la voce di una scrittrice che ormai conosce bene e le fa vivere una storia che assomiglia più a un’allucinazione collettiva che a un ricordo reale.  Per un gusto squisitamente letterario, mentre lo fa ci permette di rincontrare tra le stesse pagine Olive Kitteridge ma su questo non dirò altro perché la sua presenza nel libro è un regalo a chi legge e ciascuno potrà scartarlo da sé.

Dirò invece che un romanzo così agile e vivo riesce a reinterpretare quei giorni con una forza che ci aiuta dolcemente a farci i conti dopo che per lungo tempo non abbiamo voluto ripensarci. Come Mildred, un personaggio dell’infanzia di Lucy che quando passava davanti all’edificio in cui era morte il marito guardava dall’altra parte. Che altro possiamo fare, scrive Strout, per arrivare in fondo.

Adesso che in fondo ci siamo arrivati invece possiamo voltarci a guardare e sapendo che il mondo prima o poi ci prenderà a bastonate sbrigarci a fare quella telefonata, a dire la verità, a far muovere il tempo con lo spazio e le persone che ci rimbalzano intorno in attesa di incontrarci.

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